(a cura di: Andrea Guidi)
16 MARZO 1978, VIA FANI
L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI
DALLA DISAMINA FILOLOGICA DEL MEMORIALE MORUCCI DI PAOLO MANINCHEDDA ALLE
RISULTANZE PERITALI
“In conseguenza dell’inceppamento della mia arma, per non intralciare gli altri, mi sono portato verso
Via Stresa ed ho impiegato del tempo per disinceppare l’arma.
Subito dopo sono tornato accanto alla 130 ed ho sparato altri colpi, ma
l’auto era già ferma .”
(brano del così detto “Memoriale” Morucci-Faranda, 1986-1990, come
trascritto in “Patto di omertà- Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro: i
silenzi e le menzogne della versione brigatista” di Sergio Flamigni, ed. Kaos,
2015)
INTRODUZIONE
Il giorno 11 ottobre 1991 la Corte di Assise di Roma trasmetteva alla “Commissione
parlamentare d’inchiesta sul terrorismo
in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle
stragi” (di seguito Commissione Stragi, o anche CS) un plesso di atti
trasmessi a sua volta dal Ministero dell’Interno quali da questo Ente ricevuti dalla
Presidenza della Repubblica, recante tra gli altri la “memoria difensiva di
Valerio Morucci e Adriana Faranda depositata il 5.3.85 nel procedimento Moro-Ter”.
Questa “memoria difensiva”, passata
alla storia come memoriale “Morucci-Faranda” (alla cui formazione non sarebbero
stati estranei, secondo la concorde pubblicistica che si è occupata della
materia, il direttore de “Il Popolo”, Remigio Cavedon, e l’importante esponente
della Dc Flaminio Piccoli), era introdotta da
un biglietto di accompagnamento per l’allora Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga che recitava “Solo per lei Signor Presidente, è
tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato (1986); il
biglietto era stato redatto verosimilmente dalla suora Teresilla Barillà, assistente carceraria che
aveva curato il percorso di ravvedimento dei due “dissociati” Morucci e
Faranda.
Il documento era infatti stato trasmesso agli inquirenti tardivamente (fu
acquisito agli atti del Moro-quater solo nel 1990), solo dopo essere stato
consegnato riservatamente al Presidente Cossiga, già Ministro dell’Interno
all’epoca del sequestro Moro e dimessosi il giorno dopo la tragica conclusione
del sequestro avvenuta il 9 maggio 1978, assurto alla massima carica dello
Stato nonostante la clamorosa debacle che egli aveva subìto, quale
vertice istituzionale delle forze di polizia, durante il sequestro del suo
maestro politico.
Il così detto “memoriale” ebbe tuttavia origine ed incubazione fin dal 1984
nell’ambito del processo “Metropoli”, allorchè a partire dal 10 luglio Valerio
Morucci, dopo sua espressa richiesta di essere interrogato dal giudice
Imposimato, unitamente ad Adriana Faranda, quali imputati di reato
connesso, produssero al giudice, nel
corso di più sessioni di interrogatorio, la narrazione della loro storia
personale e del suo momento apicale: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.
La sequenza degli interrogatori ed i testi delle dichiarazioni acquisite
sono disponibili al link:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B168/1126_003.pdf
ed altresì al link del blog “Sedicidimarzo”:
http://www.sedicidimarzo.org/2018/06/memoriale-morucci-e-altro.html
Il confronto tra il documento “definitivo” – completo tra l’altro dei nomi
dei nove partecipanti, a dire dei due dissociati, all’azione di Via Fani, che
nel 1984 essi non avevano inteso fare - consegnato prima all’allora Presidente
Cossiga e poi alla magistratura e alla Commissione Stragi, ed il testo
originario del 1984, mostra palesemente come la versione “definitiva” sia stata
frutto di revisione, integrazione, aggiustamenti, precisazioni,
ristrutturazione anche cronologica non necessariamente coerente con la sequenza
degli interrogatori resi a Imposimato, frutto, insomma, di un chiaro intervento
“ordinatore”, del quale non è difficile cogliere una matrice almeno in parte
diversa dalla voce dei due ex brigatisti.
A mio parere non è corretto affermare solo che quel documento abbia
costituito, fino ad oggi, la base della “verità processuale” della
ricostruzione del sequestro, della prigionia e dell’omicidio di Aldo Moro,
perché semmai sembra più fondato sostenere, con maggiore coerenza rispetto
all’effettivo dispiegarsi degli eventi, che il “memoriale Morucci- Faranda” da
un lato, e gli esiti processuali dall’altro, si attestino su di un piano di
reciproca interferenza, in quanto per un verso quel testo si nutre in non poca
parte delle risultanze processuali acquisite, bene o male, all’epoca del suo
confezionamento (si pensi alla descrizione delle armi impiegate nell’agguato,
che i consulenti dei magistrati ritennero di avere individuato -a torto o a
ragione- già nella loro perizia balistica collegiale del 1981), mentre per
converso esso ha finito a sua volta per incidere in modo ancora oggi decisivo
su alcuni aspetti delle sentenze emesse nei successivi processi (si pensi tanto
alla ricostruzione dell’agguato di Via Fani quanto meno per l’individuazione
dei dieci partecipanti ufficialmente ancora oggi ritenuti unici responsabili e
condannati, quanto all’individuazione di Via Montalcini quale presunta unica
prigione di Moro), a partire dal Moro-quater.
In questo documento intendo analizzare esclusivamente la parte del
“Memoriale Morucci-Faranda” che si occupa, con riferimento ai fatti della
mattina del 16 marzo 1978, della decisiva fase iniziale del blocco delle auto
di Moro e della sua scorta – la Fiat 130 blu e l’Alfetta bianca – e
precisamente delle presunte modalità di esecuzione di quel blocco e
dell’omicidio di Domenico Ricci, autista della Fiat 130 di Moro.
Lo farò proponendo due diverse prospettive di analisi.
Nella prima, mi limiterò ad una ricognizione di un interessante saggio di
Paolo Maninchedda (studioso dell’Università di Cagliari), intitolato “I
deittici e le bugie. La filologia nella formazione degli uomini di legge” (ed.
“ La Sapienza” di Roma, collana COGNITIVE PHILOLOGY, No 15 (2022)), del quale
riporterò gli stralci necessari ai fini che mi sono proposto, saggio nel quale
si esamina sotto il profilo della scienza filologica, tra le altre cose, anche
la parte in questione del così detto memoriale Morucci.
Questo saggio -trattando anche di alcuni altri casi storici interessanti-
affronta il tema della carenza dell’uso degli strumenti propri della filologia
nella valutazione strettamente giuridica delle prove testimoniali.
Il testo integrale è liberamente reperibile in rete a questo link:
La seconda prospettiva – più tipicamente propria della metodologia e
tipologia di analisi che ho seguito in questi anni con il collettivo di studio
del “Sedicidimarzo” – esamina le possibili ricostruzioni della dinamica
dell’omicidio di Domenico Ricci basandosi – per dirla sintetizzando, spero non
arbitrariamente, il pensiero dell’Autore poc’anzi citato – sul “non detto”
delle parole del testimone (nella fattispecie il memoriale Morucci), cioè sulle
risultanze probatorie tecnicamente più oggettive e che, per l’appunto, in
quanto tali il testimone costituito dal memoriale Morucci non può recare: nel
nostro caso, quelle delle altre testimonianze di cittadini presenti sul luogo,
delle perizie balistiche, ma soprattutto quelle dell’autopsia di Domenico
Ricci.
Lo scopo che mi sono prefissato, letto il saggio su menzionato, è quello di
tentare di verificare se le risultanze dell’esperimento dei mezzi di prova
oggettivi, consentano di pervenire a delle conclusioni che possano o meno
corroborare l’analisi filologica del “testimone Morucci”.
Anticipo che per intuibili ragioni di rispetto della sensibilità dei
familiari di Domenico Ricci, ed in particolare del figlio, Dott. Giovanni Ricci
(se non erro, oggi criminologo), non pubblicherò alcuna immagine tratta
dall’autopsia compiuta sul corpo dell’autista della 130 di Moro; d’altronde,
queste risultanze con le accluse immagini si trovano su documenti della prima
Commissione Parlamentare di inchiesta sul sequestro Moro (d’ora in poi, CM-1), ormai
liberamente disponibili in rete, delle quali, ove necessario od opportuno,
indicherò i riferimenti.
Sono parimenti disponibili liberamente in rete centinaia di fotografie che
raffigurano la scena dell’agguato, quindi anche per quanto riguarda le
immagini, e, segnatamente, quelle dei corpi degli agenti di scorta dentro le
auto, rinvio il lettore alla ricerca sul web.
Pertanto mi rimetto alla pazienza del lettore, che dovrà tentare, con
auspicabile benevolenza nei miei confronti, di comprendere la descrizione che
farò delle ferite, degli impatti e della posizione dei corpi delle vittime, descrizione
che risulterà ovviamente più tediosa e di assai minore immediata percepibilità
di quanto non parlino le immagini disponibili.
I) L’ANALISI FILOLOGICA DEL MEMORIALE: IL BLOCCO DELLA FIAT 130 E
L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI NELLE PAROLE DI VALERIO MORUCCI.
Prima di affrontare direttamente lo specifico caso che mi interessa, merita
riportare testualmente alcuni stralci delle premesse metodologiche generali
indicate da Paolo Maninchedda nel saggio prima indicato.
Mi scuso in anticipo con l’Autore per la parzialità della selezione che qui
riproduco del suo interessantissimo lavoro, dovuta con ogni evidenza a
comprensibili ragioni di sintesi.
Scrive, tra l’altro, Maninchedda, prima di addentrarsi nella disamina
specifica dei casi storici da lui analizzati (le sottolineature che seguono sono mie):
“Un modo per dimostrare che la filologia non è solo una disciplina
dell’archivio della cultura, ma anche dell’uso, cioè una disciplina del
presente,1 epistemologica e non solo storica, con un oggetto specifico, cioè i
testi, consiste nel concorrere a risolvere problemi testuali contemporanei. Il
banco di prova per non essere chiusi nell’armadio del passato è il presente più
esigente.
In questa direzione ci si può chiedere: la filologia può dare un
contributo specifico a smascherare un testo che afferma il falso? E di
conseguenza: la filologia è utile agli uomini di legge?.......
Ovviamente gran parte di questo lavoro è possibile se e solo se si dispone
di altri documenti coevi della cui autenticità si è certi.
Tuttavia, mentre un falso storico (cioè un testo che dice il falso in forme
autentiche) o diplomatico (cioè un testo che dice cose vere, ma in forme
contraffatte) necessitano di competenze storiche, paleografiche e filologiche
per essere identificati, una dichiarazione falsa moderna non ne ha
necessariamente bisogno. Se Tizio afferma che Caio era in un determinato luogo
in una certa ora, e Caio possiede una fotografia che lo ritrae altrove, non c’è
bisogno di filologia per dimostrare che il primo mente. Se ne può ricavare una
prima indicazione: la filologia è utile solo per testimonianze, scritte o
orali, con un’alta percentuale di elaborazione o contraffazione o
manipolazione.
Questo ha una conseguenza implicita che è meglio disambiguare: il problema
dell’accertamento della verità non sta nella semplicità o complessità del caso,
ma dei testi che lo rappresentano (se Peirce sosteneva a ragione che non è
possibile pensare senza segni, è altrettanto vero che è impossibile conoscere e
giudicare senza di essi e senza la principale loro architettura, il testo), la
qual cosa apre una questione metodologica non da poco.
Nella coscienza comune, il processo decide su fatti e di conseguenza
commina pene o sancisce innocenze. Invece, nella coscienza degli addetti ai
lavori, il processo decide su testi contrapposti, quelli dell’accusa e della difesa
(Cordero è perfettamente consapevole della distanza del processo dal diritto
sostanziale e consapevole che la stessa produzione dei testi - delle prove -
dovrebbe avvenire, e di fatto non avviene neanche nel nuovo processo penale,
mantenendo la natura triadica del processo: accusa, difesa, giudice3).
Non solo: i testi del processo hanno una caratteristica che dovrebbe
indurre tutti a dubitare della loro aderenza ai fatti: sono epidittici,
vogliono convincere il tribunale della bontà della propria tesi. Non a caso,
fino a poco tempo fa, ma sembra un’epoca lontanissima, mentre si riteneva che
magistrati e avvocati non dovessero avere alcuna formazione filologica, si
raccomandava che ne avessero una retorica. Il loro obiettivo non doveva essere
l’esattezza e lo scrupolo della verità conoscibile, ma la capacità persuasiva.
Più nel dettaglio: mentre si può ritenere che la pubblica accusa cerchi,
nella fase delle indagini, un rapporto più stringente con la realtà (e
purtroppo lo fa senza contraddittorio), lo stesso non può sostenersi per gli
scritti della difesa, che dipendono dall’obbligo della confutazione di quelli
dell’accusa e conseguono esplicitamente alla natura e alla forma delle accuse
mosse.
Consapevoli, dunque, che il processo decide su testi, cioè sull’oggetto
tipico della filologia, andiamo a metterci alla prova sull’utilità della
filologia rispetto a un testo menzognero.”….
Riportare queste premesse, mi è apparso fondamentale – come d’altronde lo è
per l’Autore, mi pare- per restituire al lettore l’esatta percezione del lavoro
svolto di seguito sui singoli casi storici concreti analizzati, e delle
conclusioni raggiunte in esito a questa tipologia analisi dei corrispondenti
testimoni.
Detto questo, si può quindi passare all’esame dell’analisi svolta sullo
specifico argomento oggetto di questo stesso studio.
Anche in questo caso, mi pare necessario riportare l’ulteriore, specifica premessa
svolta dall’Autore, con l’ovvia avvertenza che là dove egli si riferisce a “tre
brani” del memoriale Morucci, la premessa, per quanto riguarda i limiti del
presente studio, deve intendersi limitata alla frazione in oggetto dell’agguato
di Via Fani.
Scrive l’Autore:
“Questo testo non presenta alcuna delle difficoltà tipiche dei testi
antichi che la filologia risolve: è scritto in italiano corrente, nella grafia
canonizzata nei testi a stampa e non presenta particolarità linguistiche.
Quindi il problema che esso pone non è metodologico, ma ermeneutico; si tratta
di dimostrare che una mente che pratica la filologia vede di più e più a fondo
di una mente semplicemente logica.
Prendiamo tre brani del Memoriale Morucci, cioè il testo con cui il bierre
Morucci ha ricostruito il sequestro Moro, divenuto la base delle sentenze
successive. Ormai sappiamo in forma conclamata che i tre brani che vedremo
dicono il falso.14 Essi riguardano: la descrizione della dinamica dell’agguato
di via Fani, la dinamica dell’abbandono delle auto e l’elenco delle armi
utilizzate.
Diamo per acquisiti i riscontri che hanno dimostrato la falsità delle
affermazioni di Morucci e quindi non riepiloghiamo tutta la vicenda.
Ripetiamo la domanda: il testo ha segnali stilistici e compositivi tali da
poter ricavare una regola da verificare su altri testi per riconoscere e
smascherare la falsità non con la collazione dei reperti e delle fonti, ma in
modo da fornire agli inquirenti segnali tempestivi di inattendibilità? È ovvio
che questa attività non sostituisce la prova, ma è utilissima a comprenderla
nella sua autenticità.
Il primo livello di falsità, e anche quello da sempre più indagato, abbiamo
detto riguardare la collocazione degli eventi nel tempo e nello spazio.
Ciò fornisce una pista per comprendere quali elementi del discorso, il più
possibile accessori, cioè tali da essere utilizzati dall’autore con un grado di
autocontrollo inferiore a quello riservato alle parti più referenziali del
discorso, sono candidati ad essere spie di manipolazione e di falsità.
Abbiamo già detto che si tratta di indagare sostanzialmente quello che in
narratologia è stato chiamato il cronotopo, cioè le relazioni di spazio e di
tempo del testo. Ma questo lo fanno anche il poliziotto della giudiziaria e il
magistrato. Abbiamo aggiunto che il filologo deve essere più fine, deve
indagare la funzione deittica, cioè tutti gli elementi linguistici che hanno il
ruolo di ‘indicare alcunché nello spazio reale’ (direi spazio-tempo), ma anche
gli aggettivi che servono a modificare semanticamente singole parole o parti
del discorso, cioè a renderlo più preciso o più generico.
Quindi l’Autore passa ad analizzare, tra gli altri, il brano del memoriale
Morucci che mi interessa specificamente studiare in questa sede (le parole in “grassetto”
che seguono, sono nel testo dell’Autore):
“Testo 1
Lo stesso Bierre n. 1 (Moretti), dopo aver bloccato la 128 poco prima dello
stop, facendosi tamponare dalla Fiat 130 seguita dall’Alfetta, è rimasto per
qualche tempo quasi sino alla fine della sparatoria
sulla stessa auto che si è spostata in avanti a causa dei ripetuti tamponamenti
da parte dell’autista del 130, che cercava di guadagnare un passaggio sulla
destra, verso via Stresa. La presenza casuale di una Mini Minor in via
Fani, proprio all’altezza dell’incrocio con via Stresa, può avere in
parte contribuito ad impedire la manovra di svincolo della 130.15”.
Questo passaggio si trova, per la precisione, testualmente riprodotto tra
l’altro nel libro di Sergio Flamigni, citato in epigrafe, a pag. 99.
L’analisi del brano del memoriale appena riportato viene svolta dall’Autore
nel brano che riporto (i “grassetti” e le sottolineature sono apposti da me):
“In realtà:
a) non ci fu alcun tamponamento della Fiat 128;
b) la Mini Minor, risultata di una società amministrata da un uomo dei
servizi segreti italiani, si trovava nella posizione che nei giorni precedenti
era occupata dal furgoncino di un fioraio che abitualmente si fermava lì per
vendere i suoi prodotti. Le Br, nei giorni precedenti l’agguato, avevano bucato
una ruota al fioraio, ma avevano dovuto constatare che il fioraio aveva
sostituito la ruota e si era comunque recato al lavoro; la notte precedente il
16 marzo ne avevano quindi bucate due, pur di assicurarsi che il camioncino non
occupasse la sua postazione abituale.
Andiamo al testo e vediamo nel dettaglio come agisce la funzione deittica
nel testo.
Morucci afferma che Moretti, il conducente della Fiat 128, avrebbe bloccato
la sua vettura poco prima dello stop per farsi tamponare.
Si rifletta.
Fermare un’auto prima dello stop è tutt’altro che un
comportamento innaturale, anzi, è ciò che tutti si attendono che accada. Semmai
è innaturale fermarla dopo aver varcato la linea dello stop.
Morucci vuole essere preciso e colloca la prima macchina, condotta da
Moretti, poco prima dello stop.
Poi colloca Moretti dentro la macchina fino alla fine della sparatoria, ma
non sempre poco prima dello stop, perché sarebbe stato urtato dall’agente che
guidava l’auto di Moro, il quale avrebbe cercato di farsi spazio, con ripetuti
tamponamenti.
Focalizziamo l’aggettivo ripetuti, utilizzato per modificare
tamponamenti e giustificare la rappresentazione nello spazio del lieve
movimento dell’auto della macchina di Moretti, a dire di Morucci, a causa delle
spinte dell’auto di Moro.
Ripetuti: la ripetizione del tamponamento mentre si
svolge la sparatoria presuppone che l’autista di Moro sia rimasto in vita più a
lungo degli altri, in modo da tentare più volte di
scappare. In sostanza, si afferma che l’autista non è stato il primo ad
essere stato colpito, ma neanche il secondo o il terzo, perché ha potuto
ripetere più volte la manovra. Tuttavia, è di tutta
evidenza che chi vuole fermare un’auto per rapire il passeggero non
spara all’autista per ultimo.
L’analisi di Maninchedda si sofferma ovviamente anche sulla “casualità”
affermata da Morucci in merito alla presenza della nota Austin blu sulla
destra, a ridosso dell’incrocio.
Ma, è quest’ultimo, un aspetto che, per quanto meritevole di ogni possibile
approfondimento, non intendo tratteggiare in questo testo e pertanto ometto la
trascrizione delle pur interessanti considerazioni dell’Autore sul punto.
Mi limito ad osservare che ad oggi non mi consta se sia stata oppure no
presentata all’autorità giudiziaria la querela riservatasi da Patrizio Bonanni nel corso della sua
escussione da parte degli ausiliari della CM-2, contro Carlo D’Adamo, che nel
suo libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino- lo Stato in via Fani” (edizioni Pendragon, 2014) ha sostenuto senza
mezzi termini l’appartenenza di quell’auto, nella disponibilità effettiva di
Patrizio Bonanni, ad una società riconducibile ai Servizi
E’ invece assolutamente pertinente, mi sembra, il brano seguente del saggio
in commento che, per quanto collocato dall’Autore all’esito della disamina
delle parole di Morucci sulla “casuale” presenza dell’Austin blu, reca
considerazioni di sicuro valore generale:
“…Potremmo ricavarne una prima regoletta da verificare: nei testi a forte
tensione referenziale, bisogna badare alle parti meno intenzionali: avverbi,
aggettivi, congiunzioni, tutto ciò che serve alla coesione del testo. Se si
mente, queste sono le parti più a rischio di tenuta, i luoghi dove l’autore del
testo deve far tornare ciò che non torna. Bisognerebbe
verificarlo, ma fatte un paio di verifiche su altri testi, mi pare che sia
un’ipotesi meritoria di approfondimento.”
Questa analisi richiede qualche precisazione, ai fini che mi sono
prefissato.
L’affermazione iniziale sub “a)” in ordine alla mancanza di
tamponamenti può essere tranquillamente accettata – a dispetto di opposte tesi
apparse nella saggistica, quali ad esempio V. Satta, “Il caso Moro e i suoi
falsi misteri”, ed. Rubbettino, 2006, pagg. 18 e segg. e in particolare pag.
21-23) – a condizione che la si riduca da asserzione assoluta a relativa: viste
le condizioni della parte anteriore della Fiat 130, e quelle della parte
posteriore della Fiat 128 bianca con targa CD che, come noto, fu artefice del
blocco, può dirsi che non vi fu un tamponamento quale quello descritto da
Morucci, ma probabilmente un lieve impatto originato a catena dall’impatto sulla
parte posteriore della Fiat 130 da parte dell’alfetta di scorta che la seguiva,
oppure (o congiuntamente) dal rilascio della pressione sulla frizione o sul
freno da parte dell’autista della Fiat 130, Domenico Ricci, perché già ferito.
Il “gestore” riconosciuto a torto o a ragione (nelle sedi più varie) dell’operazione
Moro, Mario Moretti, che sarebbe stato alla guida della Fiat 128 targata CD, nel
suo noto libro- intervista con le giornaliste Mosca e Rossanda (ed. originaria
“Anabasi”, 1994), ha parzialmente smentito Morucci quanto al fatto di essersi
fatto tamponare, perché secondo la sua versione una frenata brusca, tra
l’altro, avrebbe allertato la scorta di Moro; ma egli ha confermato tuttavia il
presunto tentativo di Ricci di ricavarsi una via di fuga speronando la 128 CD. Ciò,
curiosamente, solo tre anni dopo l’acquisizione del memoriale da parte della
magistratura, completo dei nomi dei partecipanti all’azione apposti nel
frattempo da Morucci, e soprattutto solo alcuni anni dopo che la stessa versione
completa di nomi era stata consegnata in visione a Cossiga.
Il brano del libro-intervista che tratta di questa parte è il seguente (le
sottolineature sono apposte da me):
“ (domanda) Non ti sei fatto tamponare dalla 130 di Moro? Si è sempre
detto questo.
(risposta) No. Un tamponamento li avrebbe messi in allarme.
L'autista dell'Alfetta, colpito, lascia andare la frizione, la macchina fa
un salto in avanti, tampona la 130 di Moro che a sua volta tampona la mia.
Avevamo previsto di abbandonare la 128 sul posto, e io sarei sceso per andare a
rafforzare la posizione di Barbara. Ma a questo punto succede
l'imprevisto: si inceppano sia il mitra di Morucci sia quello di Bonisoli.
Uno dei poliziotti dell'Affetta riesce a scendere dalla macchina, impugna una
pistola, Bonisoli lascia andare il mitra, tira fuori la pistola sua, spara e lo
colpisce. Credo che nemmeno lui sappia come ha fatto a sparare con tanta
precisione, certo se non ci fosse riuscito in via Fani avremmo lasciato anche
qualcuno dei nostri. E io sono costretto a rimanere in macchina con il freno
premuto perché l'autista di Moro, che non è stato colpito, cerca di togliere la
130 dall'incastro formato per il doppio tamponamento. In quegli attimi Morucci
sostituisce il caricatore al suo mitra inceppato, spara una seconda
raffica e riesce a colpirlo. Pochi secondi e la sparatoria è
finita, la scorta neutralizzata.”
Come si può notare, se per un verso l’ex leader brigatista non parla
comunque di “ripetuti tamponamenti”, ma solo di un (presunto) tentativo
da parte di Ricci di liberare l’auto, senza specificarne le modalità, tentando
con ciò di confermare nella sostanza la narrazione di Morucci, per altro verso (non
so dire se consapevolmente o meno) aggiunge un dettaglio di troppo al racconto
del suo ex sodale (il cambio del caricatore) ed introduce un elemento temporale
– “Pochi secondi” – che, come vedremo, costituisce proprio il
nucleo critico del racconto di Morucci; come peraltro rilevato sotto il profilo
filologico dall’analisi di Maninchedda (il passaggio cui mi riferisco è quello
in cui l’Autore pone in rilievo la questione del tempo di sopravvivenza
di Domenico Ricci).
Non voglio sostituirmi a Maninchedda e alle sue specifiche competenze, ma
mi sembra di poter dire – e ciò è il punto centrale della questione - che
quest’ultima precisazione da parte di Moretti in merito alla tempistica del
tutto, confligga tanto con le sue stesse parole volte a descrive il tentativo
di Ricci di liberare l’auto dal blocco, quanto, a maggior ragione, con i
“ripetuti tamponamenti” narrati da Morucci: se l’azione nel complesso durò pochi
secondi, non si capisce perché un elemento tanto importante nel
sequestro, come l’autista dell’ostaggio, sia stato lasciato in vita per un
tempo forse perfino superiore a quello occorso per il resto della sparatoria.
Mi scuso con Maninchedda se mi azzardo ad entrare nel suo campo di
competenze, ma mi pare di poter sostenere che, per un banale sillogismo, quello
che egli rileva con riferimento alle parole di Morucci, valga perfino a più
forte ragione per quelle di Moretti, il quale per l’appunto si perita perfino
di quantificare esplicitamente in “pochi secondi” la durata dell’azione.
E’ comunque sintomatica della non casualità delle parole di Moretti (considerata
la suddetta altezza cronologica della
sua intervista e della pubblicazione del libro) - dirette palesemente ad
apporre il sigillo del capo alla narrazione di Morucci - la quasi pedissequa
ripetizione da parte sua del racconto del memoriale, in merito alla
sopraggiunta necessità di abbandonare il piano originario, che, stando a quanto
si legge nei due rispettivi testimoni, avrebbe previsto che Moretti si sarebbe
dovuto subito posizionare con la Balzerani a presidio dell’incrocio.
Morucci aveva già affermato infatti, sul punto, qualche anno prima di
Moretti (sottolineature mie):
“Nel frattempo, il bierre 1 (Moretti), invece di portarsi al centro
dell’incrocio, come previsto dal piano di attacco, per appoggiare (la
Balzerani) nella difesa dell’incrocio, si è portato accanto alla 130 di
Moro e insieme ai bierre 7 ed 8 (Fiore e Gallinari) ha prelevato l’ostaggio e
lo ha caricato sul sedile posteriore della Fiat 132, che nel frattempo facendo
retromarcia da via Stresa a via Fani, si era affiancata alla Fiat 130 di Moro”.
La narrazione di Moretti, in sostanza, se si eccettua l’importante smentita
del tamponamento iniziale, presenta in definitiva, per l’esegesi del testo, lo
stesso ordine di problemi ermeneutici del memoriale di Morucci, che sotto
questo aspetto Moretti mette in crisi se ci si concentra sul nucleo del
problema che sto affrontando, cioè la tempistica della morte di Domenico Ricci.
Pertanto, mi sento di concludere che il brano dell’intervista di Moretti appena
commentato resta di fatto assorbito nell’analisi che sto tentando di condurre
sul memoriale Morucci, perché come già osservato da Maninchedda, il memoriale
già reca(va) in sé il proprio elemento critico centrale, quello del periodo di
sopravvivenza di Domenico Ricci e del suo omicidio.
Mi ripeto (e me ne scuso): non so quanto consapevolmente, ma nel tentativo di
integrare le parole di Morucci, mi sembra che Moretti finisca con il metterne a
nudo un consistente elemento critico.
Tanto vale, allora, che io non mi dilunghi oltre sulle parole di Moretti,
mantenendo l’attenzione sul memoriale di Morucci.
Mi soffermo quindi specificamente sulla parte dell’analisi di Maninchedda che
riguarda i presunti “ripetuti tamponamenti” da parte di Ricci contro la
Fiat 128 CD.
L’analisi filologica svolta da Paolo Maninchedda sul punto mi sembra perfetta,
e tanto vale allora, anche per evitare commenti ridondanti da parte mia,
riportarla nuovamente (anche in questo caso, le sottolineature e i “grassetti”
sono miei):
“….Poi (Morucci: nda) colloca Moretti dentro la macchina fino alla fine della
sparatoria, ma non sempre poco prima dello stop, perché sarebbe stato urtato
dall’agente che guidava l’auto di Moro, il quale avrebbe cercato di farsi
spazio, con ripetuti tamponamenti.
Focalizziamo l’aggettivo ripetuti, utilizzato per modificare
tamponamenti e giustificare la rappresentazione nello spazio del lieve
movimento dell’auto della macchina di Moretti, a dire di Morucci, a causa delle
spinte dell’auto di Moro.
Ripetuti: la ripetizione del tamponamento mentre si
svolge la sparatoria presuppone che l’autista di Moro sia rimasto in vita più a
lungo degli altri, in modo da tentare più volte di
scappare. In sostanza, si afferma che l’autista non è stato il primo ad
essere stato colpito, ma neanche il secondo o il terzo, perché ha potuto
ripetere più volte la manovra. Tuttavia, è di tutta evidenza
che chi vuole fermare un’auto per rapire il passeggero non
spara all’autista per ultimo.”..
Ho poco fa tratteggiato che l’elemento a mio parere centrale della
questione, che richiede e merita il
tentativo di ricercare un riscontro nelle risultanze testimoniali e peritali,
sulle quali mi soffermerò nel secondo paragrafo di questo scritto, è costituito
dalla corretta osservazione secondo la quale Ricci sarebbe dovuto rimanere in
vita sufficientemente a lungo da poter manovrare ripetutamente
l’auto tentando di forzare il blocco, con il corollario, ben evidenziato nel
saggio in esame, che per logica in un simile agguato l’autista dell’ostaggio,
obiettivo del sequestro, deve essere neutralizzato per primo, o
comunque in un tempo sufficiente ad evitare il rischio (per i sequestratori) di
una fuga.
E’ quindi a questo punto che occorre passare ad analizzare i riscontri testimoniali
e peritali, e segnatamente quelli dell’autopsia di Domenico Ricci, non senza
prima rilevare che il brano del memoriale Morucci analizzato da Maninchedda
deve necessariamente essere letto unitamente agli altri che via via
trascriverò, ad iniziare da quello che ho già riportato in epigrafe, e che qui,
per la sua importanza ai nostri fini, riporto nuovamente (sottolineature e
“grassetti” sono miei):
“In conseguenza dell’inceppamento della mia arma, per non
intralciare gli altri, mi sono portato verso Via Stresa ed ho
impiegato del tempo per disinceppare l’arma.
Subito dopo sono tornato accanto alla 130 ed ho
sparato altri colpi, ma l’auto era già ferma .”
E’ un peccato, tra l’altro, che l’Autore non abbia compiuto- almeno stando
al saggio qui commentato – anche l’analisi filologica di quest’ultimo
passaggio. Perché assumendo come corretta regola ermeneutica quella da lui
evidenziata in merito alla particolare rilevanza, in un testimone, di
congiunzioni, avverbi, aggettivi, ecc., il sintagma “ma l’auto era già
ferma” meriterebbe di per sé solo, probabilmente, un saggio appositamente dedicato.
II) L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI. I TESTIMONI. L’AUTOPSIA.
Per quanto sin qui detto, mi sembra evidente che occorra prima di tutto
delimitare il perimetro temporale dell’azione definito dalle parole di Morucci.
A questo scopo, bisogna aggiungere agli estratti del suo memoriale che ho
trascritto nel “paragrafo I” anche il passaggio conclusivo di questa parte
dell’agguato di via Fani, passaggio che ho già anticipato nel precedente
paragrafo, e che per comodità qui trascrivo di nuovo, sempre nella versione
tratta dal libro di Sergio Flamigni; siamo nella fase successiva al momento in
cui Morucci, disinceppata l’arma, come abbiamo visto si sarebbe riportato di
nuovo accanto alla Fiat 130 sparando altri colpi, constatando peraltro, come
egli afferma, che “(ma) l’auto era già ferma”.
Il passaggio conclusivo cui mi riferisco è il seguente:
“Nel frattempo, il bierre 1 (Moretti), invece di portarsi al centro
dell’incrocio, come previsto dal piano di attacco, per appoggiare (la
Balzerani) nella difesa dell’incrocio, si è portato accanto alla 130 di Moro e
insieme ai bierre 7 ed 8 (Fiore e Gallinari) ha prelevato l’ostaggio e lo ha
caricato sul sedile posteriore della Fiat 132, che nel frattempo facendo
retromarcia da via Stresa a via Fani, si era affiancata alla Fiat 130 di Moro”.
L’insieme dei passaggi del memoriale sopra riportati,
consente di definire i riferimenti nel tempo dell’azione, che secondo
Morucci è quindi delimitata dalla scansione di questi eventi:
- 1) blocco allo “stop” sull’incrocio della 130 di
Moro da parte di Moretti con la 128 CD, con il primo tamponamento a dire di
Morucci volutamente originato da Moretti;
- 2) Moretti,
in difformità dal piano iniziale, sarebbe rimasto nella 128 CD praticamente
fino alla fine dell’azione;
- 3) la 128 CD si sarebbe poi spostata più avanti,
oltre al segnale di “stop”, nella sua posizione definitiva immortalata nelle
note e storiche immagini, a causa dei ripetuti tamponamenti da
parte di Ricci nel suo disperato tentativo di trovare un varco di fuga;
- 4) Morucci stesso e Fiore dovevano sparare contro
gli uomini nella 130 di Moro (Domenico Ricci, appunto, ed il maresciallo Oreste
Leonardi);
- 5) ad un certo punto, inizialmente non meglio
definito, l’arma di Morucci (come d’altronde le altre, ad iniziare -
per quanto mi interessa in questa sede – da quella di Fiore) si sarebbe
inceppata.
Il momento del presunto inceppamento dell’arma di
Morucci, rispetto allo svolgimento degli altri eventi, non viene indicato da
Morucci nella prima parte del memoriale, quella più autenticamente
memorialistica, bensì nella seconda parte, quella che mostra cioè maggiori
indici di revisione: la precisazione di Morucci sul momento in cui Ricci
avrebbe effettuato ripetuti tamponamenti, infatti, si trova in seguito, nella
parte, di cui tra breve trascriverò il testo, caratterizzata da risposte a
specifiche domande (nella fattispecie, dell’Avv. Fortuna).
In ogni caso, anche senza quella precisazione di cui
dirò, si può ipotizzare che – sempre nella prospettiva del racconto di Morucci-
l’inceppamento dovrebbe essere avvenuto
dopo una prima, probabilmente breve, raffica, inefficace oppure diretta solo
contro Leonardi, ed è altresì elementare che, anche senza la sua successiva
precisazione alla quale ho poc’anzi alluso, si sarebbe potuto dedurre già con il
mero ausilio della parte puramente memorialistica del testo attribuito a Morucci,
che l’inceppamento sia avvenuto con Ricci ancora attivo: è infatti in questo
lasso temporale racchiuso tra il presunto tamponamento iniziale e
l’inceppamento dell’arma che, per tentare di preservare la coerenza interna
della narrazione di Morucci, si devono necessariamente collocare i presunti “ripetuti
tamponamenti” compiuti da Ricci addosso alla 128 CD con a bordo Moretti.
D’altronde, come ho poc’anzi anticipato, che questo
sia lo spazio temporale in cui vanno collocati i ripetuti tamponamenti da parte
di Ricci, con manovre consecutive di inserimento di retromarcia e marcia in
prima, è lo stesso Morucci ad affermarlo, nelle risposte alle domande
dell’Avv. Fortuna, accluse come parte integrante del memoriale e che è pertanto
necessario aggiungere ai brani del memoriale che abbiamo già riportato (Sergio
Flamigni, op. cit. pag. 235-236; le sottolineature sono mie):
“Avv. Fortuna: Può dirci quale è stata la reazione
della scorta al momento dell’attacco?
Morucci: Mentre cercavo di disinceppare il mio
mitra, l’appuntato Ricci cercò disperatamente di guadagnare un varco al 130 verso
via Stresa e più volte fece marcia indietro e in avanti per
guadagnare questo terreno. Tutto ciò mentre era in corso la sparatoria…”
Si tratta, a mio parere, di una precisazione
“opportuna” non tanto nell’ottica di un racconto veritiero dei fatti, quanto
nell’ottica di colmare a posteriori l’indeterminatezza nella descrizione di
questo specifico evento che affligge la prima parte, quella più propriamente
memorialistica, del testimone. Insomma, come dire, “per i posteri, se lo
precisiamo è meglio”: Ricci ha tentato di manovrare mentre Morucci aveva
inceppato. Perché, per ricordare la deduzione di Maninchedda, Morucci vuole tenere per assodato – e ben
chiaro - che Ricci avrebbe avuto un tempo di vita (per meglio dire, di
vitalità) sufficientemente lungo per tentare la fuga.
Ma se il diavolo sta nei dettagli e la coperta (specie
quella della logica) è corta, la narrazione di Morucci, al cospetto di altri
testimoni e delle perizie, impone di chiedersi: se invece quel tempo di
vitalità di Ricci fu breve o brevissimo, e i ripetuti tamponamenti di
conseguenza non vi furono, cosa implicherebbe, sulla ricostruzione degli
eventi, il fatto che: a) Morucci abbia realmente inceppato; b) oppure che non
abbia inceppato affatto?
Le domande conducono entrambe a loro modo a risposte
inquietanti. La risposta alla prima è di tutta evidenza, visto che Morucci
sarebbe tornato comunque a sparare ad auto già ferma, e la
accennerò tra breve. La risposta alla seconda è, a mio parere, che - se Morucci non inceppò – non si comprende
perché egli abbia raccontato di averlo fatto: detto più direttamente, se il
tempo di vitalità di Ricci fu breve o brevissimo: a) o Morucci non ha inceppato, b) oppure si
rientra comunque nella risposta alla prima delle due domande poste.
E cioè che a sparare su Ricci mentre Morucci
disinceppava fu un altro;
- 6) per l’appunto, a seguito dell’inceppamento,
Morucci sostiene di essersi portato al centro dell'incrocio per non
intralciare gli altri, impiegando “del tempo”
per disinceppare l'arma; questo punto lascia aperti i problemi di
individuare:
a) quanto sia stato “il tempo” impiegato da Morucci
per disinceppare l’arma;
b) chi fossero “gli altri” di cui parla Morucci,
sia rispetto al suo settore di attacco (la 130) che, di riflesso, rispetto
tanto alla collocazione di costoro che alle ragioni per le quali Morucci
sarebbe stato loro di intralcio se non si fosse spostato verso l’incrocio, posto
che deve presumersi che gli “altri” (chi altri, se non Bonisoli e
Gallinari?) stavano sparando più dietro, contro l’alfetta di scorta. Si può
pensare quindi che il riferimento di Morucci sia in sostanza a Fiore, che stava
agendo come lui contro la 130: tuttavia, la narrazione di Morucci, acquisita
ormai come fatto giudiziario e storico anche in virtù delle plurime perizie
balistiche esperite nel corso degli anni, ha consegnato come dato acquisito
alla ricostruzione dell’attacco l’avvenuto inceppamento anche dell’arma di
Fiore (M12), arma che, stando a quanto risulta dalle perizie, pare abbia
sparato non più di tre colpi;
- 7) quindi, disinceppata
l’arma, Morucci sostiene di essere ritornato “subito dopo” accanto
alla 130 e di avere sparato altri colpi: “ma l'auto era già ferma”.
Come ho anticipato poc’anzi, questo punto del
testimone segna evidentemente il limite temporale massimo dei
presunti “ripetuti tamponamenti”, perché prima di questo
momento Domenico Ricci doveva essere ormai già gravemente ferito.
Mi pare di poter affermare che non ci sia
alternativa a quest’ultima deduzione, perché altrimenti non si
capirebbero né il senso della constatazione di Morucci, né perché, se Ricci
fosse stato ancora attivo, non abbia insistito a tentare la fuga con
ulteriori “tamponamenti”;
- 8) infine, ad azione quasi finita, Moretti
sarebbe sceso dalla 128 CD per prelevare Moro assieme, tra l’altro, a
Fiore.
Non intendo affrontare nel dettaglio la questione
degli inceppamenti, nel senso che è un dato acquisito che in effetti nella zona
tra la 130 e l’incrocio con Via Stresa vennero rinvenuti un caricatore con 22 cartucce, ed una cartuccia intera
inesplosa.
Il punto è che comunque quel caricatore risultò
compatibile con una gamma piuttosto ampia di armi automatiche del tipo di
quelle che le perizie balistiche hanno ritenuto di dover individuare come
quelle utilizzate in via Fani (e precisamente, compatibile con FNA, M12, lo
stesso TZ45 che sarebbe stato utilizzato da Gallinari, o il MAB, arma
quest’ultima neppure ritenuta utilizzata in Via Fani); quindi resta aperto
il dubbio su quale o quali armi effettivamente incepparono, e in
particolare a quale delle armi impiegate appartenesse il caricatore
repertato.
Per maggiori riferimenti e dettagli, rinvio ad alcuni
articoli scritti a più mani, pubblicati a suo tempo sul blog, opportunamente
compendiati da Franco Martines, amministratore e supervisore del blog ed autore
egli stesso di interessanti articoli oltre che coautore di vari altri, in un
unico blocco:
http://www.sedicidimarzo.org/2017/07/la-balistica-di-via-fani-capitolo-1.html
Definito il perimetro temporale fissato da Morucci in
ordine allo svolgimento dei fatti qui di interesse, in secondo luogo occorre
tuttavia, come ho anticipato incidentalmente, anche tenere conto di alcune
testimonianze di coloro che assistettero all’agguato.
Anche Morucci, infatti, può essere considerato, sotto
l’aspetto della natura e della funzione del memoriale rispetto all’accertamento
storico dei fatti, un testimone (per di più, ovviamente, interessato) e, per
quanto quel testo abbia goduto alla fin fine della massima considerazione in
sede processuale (nonché in parte della pubblicistica e della stessa
memorialistica degli ex brigatisti, che in buona sostanza, e salve sfumature
stratificatesi nel corso dei decenni, ad esso si sono conformati, ad iniziare
dallo stesso Moretti), ciò non toglie che, in quanto “testimone”, quel testo,
almeno per lo storico e il ricercatore, è un documento che si pone su un piano perfettamente
paritario rispetto alle testimonianze rese da comuni cittadini che videro la
scena.
Delle quali, pertanto, occorre dare conto.
Mi limito alle testimonianze che si rinvengono nel
Vol. 30, CM-1, non solo per motivi di sintesi ma anche perché in quel volume si
trovano le testimonianze rese nell’immediatezza dei fatti.
Anticipo che, visto l’ambito di questo studio, tralascerò
le descrizioni testuali rese dai testimoni sulla tipologia delle auto, che è
stata variamente indicata, peraltro anche con riferimento all’auto sulla quale
sarebbe stato caricato Aldo Moro (questione ancora oggi non secondaria a
dispetto della versione ufficiale acquisita, e sulla quale rinvio a questo
articolo/tabella di rapida consultazione del blog “Sedicidimarzo”, precisamente
ad opera di Franco Martines:
http://www.sedicidimarzo.org/2017/10/una-tabella-riordinabile-piacere-su.html), e terrò dunque per fermo che si stia parlando delle
tre auto ovviamente coinvolte senza tema di smentita: la 128 CD, la 130 di Moro
e l’alfetta della scorta.
Tralascerò volutamente anche la descrizione
dell’abbigliamento degli assalitori, per un’analoga varietà di definizioni da
parte dei testimoni che in questa sede non è rilevante.
Queste le testimonianze utili (eventuali grassetti o
sottolineature sono miei):
- Antonio Caliò Marincola (pagg. 50 e segg.), abitante
al civico 123 di via Fani, il 16 marzo stesso dichiarò alla Digos di essersi
affacciato sul balcone che affacciava su Via Stresa dopo aver udito il rumore
di una raffica di mitra (la raffica udita dal testimone tra gli spari iniziali,
molto verosimilmente deve essere attribuita agli spari sull’alfetta, che, come
abbiamo tratteggiato in uno degli articoli del collettivo disponibili al link
che ho riportato sopra, dovette essere attaccata per prima e con l’auto ancora
in fase di arrivo, come dimostrano i vetri infranti del finestrino dal lato di
Iozzino, ben visibili in posizione arretrata rispetto alla posizione finale
dell’auto e al corpo dello stesso agente di polizia).
Caliò Marincola vide uno dei due uomini armati davanti
al lato sinistro della 130 rompere il finestrino dal lato di Ricci –
forse dopo aver esploso alcuni colpi- e, sfondato il vetro, esplodere una
raffica “contro il conducente”.
Vide l’altro uomo armato aprire la porta posteriore
sinistra per farne scendere Moro.
Mentre (“In questo frangente…”) Moro veniva condotto in direzione di via Stresa, vide infine l’uomo che aveva già sparato esplodere
una ulteriore raffica dentro la 130.
Una settimana dopo, 23 marzo, Caliò Marincola (pag.
408) testimoniò anche davanti ai carabinieri della Compagnia Trionfale, dando una versione
sostanzialmente conforme ma che per certi versi specificava ulteriormente,
se possibile anticipandolo, il prelievo di Aldo Moro.
Egli dichiarò infatti, in questa seconda deposizione,
che una delle due persone armate in divisa accanto alla 130 aveva aperto lo
sportello posteriore sinistro, facendo scendere Moro, mentre l’altro
infrangeva il vetro accanto all’autista sparando un paio di raffiche
all’interno dell’auto.
- Il testimone Pietro Lalli (pag. 23 e segg.), collaboratore
del distributore di Via Fani, parte bassa rispetto all’incrocio, richiamato dal
alcuni spari singoli iniziali che egli attribuì a una pistola (o a più
pistole), avvicinatosi verso l’incrocio risalendo via Fani, al centro della
carreggiata, a circa 100 metri di distanza dalla scena, il 16 marzo, davanti ai
carabinieri della Compagnia Trionfale, descrisse, in estrema sintesi l'azione
di un giovane che con padronanza dell'uso dell'arma aveva esploso, con unica
azione continua e senza cambio di caricatore, un paio di raffiche,
una sulla Fiat 130, l'altra, dopo un leggero balzo all'indietro per allargare
il raggio di sparo, contro l'alfetta di scorta.
Secondo questa testimonianza- a prescindere dal fatto
che Lalli possa avere ben visto l'obiettivo della seconda raffica, o che
viceversa egli si sia sbagliato in quanto anche la seconda raffica era indirizzata nuovamente contro la 130 – l’elemento
centrale mi sembra senza dubbio il compimento dell'azione senza alcun cambio
di caricatore.
Cosa che riconduce direttamente alla “aggiunta”, che
ho tratteggiato nel paragrafo I,
apportata da Moretti al memoriale Morucci;
- Giovanna Conti (pag. 52 e segg.), abitante in via
Fani 123, dichiarò alla Digos il 16 marzo che, uditi prima alcuni colpi
singoli, seguiti da “una serie di colpi in rapida successione”, si
affacciò sul balcone che affacciava su via Stresa.
Testimoniò anche lei (come Caliò Marincola) di avere visto
un giovane armato che con il calcio dell’arma aveva infranto il vetro del
finestrino anteriore sinistro (cioè quello di Ricci), sparando quindi “ripetute
raffiche contro l’uomo che era alla guida”.
“Quasi contestualmente” (anche su questo punto, quindi, in perfetta concordanza
con la testimonianza di Caliò Marincola) aveva visto, in sintesi, il
prelievo di Moro dalla 130.
- Giuseppe Samperi (pag. 54 e segg.), titolare del
distributore presso il quale lavorava Pietro Lalli, il 16 marzo dichiarò alla Digos che mentre era intento a servire
un’autovettura, aveva udito degli spari provenienti dall’incrocio.
Si era portato allora nei pressi, vedendo un’auto blu “che
camminava a strappi”. Questa circostanza, vale la pena
rilevarlo subito, è molto importante, perché a chiunque abbia una
normale esperienza di guida quel movimento suggerisce[AG1] l’idea di un autista che abbia frenato repentinamente
lasciando, nell’azione, la frizione (o perdendone il controllo), ma non di
certo l’impressione di un movimento di guida volontario (nessuno, specialmente
in pochi metri di spazio, guida “a strappi” di norma, ammesso e non concesso
che ciò sia possibile a diretto contatto con l’auto che precede).
Samperi, altro particolare assai importante, descrisse
un uomo e una donna – diversi da chi stava sparando –
che gli intimarono di allontanarsi.
Aggiunse che altri due uomini stavano sparando
contro la 130.
Samperi disse di aver cercato di temporeggiare
nonostante l’intimazione ad allontanarsi ma, non avendolo fatto, l’uomo e la
donna gli urlarono di nuovo di allontanarsi; “nello stesso istante”,
vide i due che sparavano trarre con forza un uomo dalla 130 con due borse,
mentre l’altro uomo, quello che gli aveva intimato di allontanarsi, gridava “dai
forza, prendete la macchina.
- Cristina Damiani, abitante in via Fani 94 (pag. 419
e segg.), dichiarò che appena uscita di casa, una volta in strada, volgendosi
in direzione di via Trionfale, udì alle sue spalle degli spari, precisando poi,
per quanto rileva ai fini di questo studio, che “quasi contemporaneamente al
primo colpo di arma da fuoco isolato” aveva “udito uno stridio di
freni ed il rumore di un leggero tamponamento”.
Le fotografie dei luoghi e delle vetture, in
particolare del frontalino dell’alfetta e della parte posteriore della 130,
dimostrano senza ombra di dubbio che un tamponamento definibile come tale vi fu,
ma appunto tra la 130 e l’alfetta di scorta che la seguiva, quasi sicuramente a
seguito del ferimento immediato dell’autista dell’alfetta, Giulio Rivera, che
dovette lasciare i comandi dell’auto.
Le altre testimonianze disponibili non sono utili agli
specifici fini di questa disamina, perché non recano elementi in ordine agli
spari contro la 130.
Queste testimonianze, di fatto conformi tra loro salve
inevitabili sfumature, già evidenziano alcuni elementi critici del memoriale di
Morucci.
Li enumero sinteticamente:
1) nessuno descrive movimenti della 130 quali i ripetuti
tamponamenti descritti da Morucci (né, con narrazione più generica
e sfumata, un qualche tentativo di Ricci di trovare una via di fuga quale
riportato da Moretti);
2) nessuno descrive
l’allontanamento di uno dei due che sparavano sulla 130 in direzione di via
Stresa, per poi ritornare accanto all’auto;
3) tutti descrivono il prelevamento di Moro da almeno uno dei due che
sparavano; Samperi sostiene che il prelevamento sarebbe stato
effettuato da parte di entrambi costoro, aggiungendo un terzo uomo
al centro dell’incrocio insieme alla donna (Balzerani), esattamente in
conformità al piano originario brigatista descritto sia da Morucci che
da Moretti;
4) se, in sostanza, secondo Morucci Aldo Moro viene
prelevato quando l’azione era prossima al termine, tutti i testimoni
descrivono invece, di fatto, il prelievo di Moro ancora in piena fase di sparo
contro la 130. Se si immagina lo
stretto raggio di tiro dentro l’abitacolo una volta rotto il finestrino di
Ricci, e quindi il ridottissimo rischio di colpire direttamente il proprio
compagno o Moro stesso, estrarre Moro dall’auto in quella fase – in pratica, coincidente
con il blocco definitivo delle auto, o poco dopo - a mio parere risponde perfettamente alla
logica di azzerare le possibilità che egli rimanesse colpito, finanche
accidentalmente dall’imprevedibile rimbalzo di proiettili.
Obiettivo unico ed assoluto dell’azione era il
sequestro di Moro, non la sua uccisione nell’agguato. E questo aspetto è e deve
essere la cartina tornasole per analizzare l’azione, e le parole di Morucci.
L’osservazione sembra banale. Ma non lo è, se si
considera che la Fiat 130 di Moro, a differenza dell’alfetta di scorta, non
presenta alcun impatto di proiettili sul lato sinistro della carrozzeria: segno che – dal punto di vista
dei sequestratori- si progettò correttamente di sparare a distanza ravvicinata
o ravvicinatissima, direttamente dentro l’auto, e che ciò dovette comportare
per coerenza l’esigenza di prevenire il ferimento o la morte di Moro anche per
proiettili di rimbalzo.
Il quadro delineato dalle testimonianze poc’anzi
ricordate e la loro comparazione con il testimone costituito dal memoriale
Morucci conducono alle domande topiche, e cioè: Domenico Ricci quali
eventuali “ripetuti tamponamenti” o analoghe manovre può avere
effettuato? Fino a quale momento?
Dobbiamo tenere presente che tutta l’azione, compresa
la fuga degli assalitori, occupa a dir tanto tre minuti.
Il brogliaccio delle chiamate “sul canale 13-Distretti
e Commissariati”, registra infatti che alle 9.03 vengono segnalati spari in
via Fani, e già due minuti dopo, alle 9.05, viene richiesto dalla volante del
commissariato Montemario, accorsa sul luogo, l’invio di ambulanze (vol. 29,
CM-1, pag. 1001).
L’azione descritta da Morucci (e Moretti) si gioca
pertanto sul filo di qualche decina di secondi, tra il blocco delle auto, i
primi spari, il presunto inceppamento di Morucci, i “ripetuti tamponamenti”
da parte di Ricci, il disinceppamento dell’arma per il quale egli dice di avere
impiegato “del tempo”, ed infine il ritorno di Morucci accanto
alla 130 per una nuova serie di spari, allorchè tuttavia “l’auto era già
ferma”.
L’interrogativo centrale nella narrazione del
memoriale è quindi: quanto può avere
impiegato Morucci per il presunto disinceppamento dell’arma?
Perché è proprio
tra l’inceppamento dell’arma e il ritorno di Morucci a sparare contro la 130,
ormai ferma, che Domenico Ricci viene ucciso, o gravemente ferito.
Il tempo del disinceppamento dell’arma è una
circostanza che nessuno ha mai accertato, né si può accertare con sicurezza.
Sappiamo solo, dalle parole del dissociato, che per
disinceppare egli avrebbe impiegato “del tempo”: un sintagma che cioè
lascia trasparire, pur nella sua indeterminatezza, il decorso di un lasso non
strettamente brevissimo. Tanto è vero che al suo ritorno accanto alla 130
per sparare, “l’auto era già ferma”.
Le fonti disponibili in rete non recano un’indicazione
di una stima dei tempi necessari per disinceppare un’arma, anche perché nella
descrizione delle tecniche di disinceppamento le fonti distinguono,
comprensibilmente, tra perizia di chi usa l’arma, tipologie di inceppamento, e
situazioni di tranquillità o, all’opposto, di estremo stress; condizione
quest’ultima nella quale è intuibile si sia trovato Morucci.
Noi non sappiamo, nessuno sa, la presunta causa
dell’inceppamento dell’arma di Morucci (doppio incameramento di cartucce,
difettosa espulsione del bossolo, ecc.), né quindi è conoscibile il grado di
difficoltà della rimozione dell’inceppamento nel caso di specie.
Possiamo solo tenere per fermo con verosimile alto
grado di attendibilità la condizione di stress in cui Morucci si sia trovato.
Se pertanto Morucci afferma di avere impiegato “del
tempo” per disinceppare e che al suo ritorno all’azione l’auto “era
già ferma”, si può fondatamente ipotizzare che il disinceppamento sia
proseguito per una gran parte dell’azione di fuoco contro la 130 in via Fani.
Da quanto appena evidenziato, emerge la domanda
centrale di queste note, domanda alla quale il memoriale (non sappiamo se
Morucci e i suoi agiografi se ne siano accorti) lascia per la verità ampio
spazio per affacciarsi:
chi ha sparato con esito mortale o gravemente lesivo a
Domenico Ricci, mentre Morucci stava disinceppando l’arma, se il suo compagno
di attacco Raffaele Fiore con il suo M12 ha esploso solo tre proiettili?
E’ giunto quindi il momento di tentare di individuare
concretamente il tempo del tentativo di Ricci di trovare un varco di
fuga con “ripetuti tamponamenti”.
Morucci stesso individua chiaramente, come si è visto,
il momento di questi presunti “ripetuti tamponamenti”, nel frangente
temporale durante il quale egli aveva inceppato, preoccupandosi di aggiungere – lo si è visto sopra, par. I) - che Moretti,
contrariamente al piano originario, sarebbe rimasto nella 128 CD “quasi sino alla fine della
sparatoria sulla stessa auto che si è spostata in avanti a causa dei ripetuti
tamponamenti da parte dell’autista del 130…”.
Possiamo pertanto pacificamente
dedurre che la prima, breve raffica sparata da Morucci- sempre
stando alla sua narrazione- fu esplosa contro Oreste Leonardi, o
comunque senza colpire Ricci.
Se pensiamo all’evidente impossibilità
che una persona alla guida di un’auto sotto il fuoco diretto di un’arma
automatica a raffica, a pochi centimetri da lui, contro il passeggero al suo
fianco, riesca ad avere la freddezza di manovrare l’auto - per di più bloccata- in molteplici manovre
di retromarcia e inserimento della prima, resta sul campo quale unica
possibilità quella che Ricci abbia effettivamente tentato la manovra descritta
durante l’inceppamento dell’arma di Morucci, ma il tutto per pochi secondi, visto
che al ritorno di Morucci “l’auto era già ferma”.
Occorre allora analizzare le ferite
di Ricci, ed in particolare una di esse, sino ad oggi – se è possibile usare
un’espressione del genere in un fatto tanto drammatico- finita nel dimenticatoio.
Si tratta della ferita n. 10 (secondo l’ordine descrittivo della
perizia, ultima delle ferite descritte sempre nell’ordine meramente descrittivo
adottato dall’equipe medica, descritta al punto 15 della perizia
stessa), inferta a Domenico Ricci.
Ne riporto testualmente la
descrizione, che si trova in Vol. 44, CM-1, pagg. 815 e segg., con fotografia
illustrativa della ferita stessa n. 14 a pag. 817 (le sottolineature e grassetti
sono miei):
“15. Sulla faccia mediale del
gomito sinistro è presente soluzione di continuo a semicanale, a
decorso pressochè trasversale all’asse maggiore dell’arto, lunga cm.4 e della
larghezza massima di cm. 1,3, la quale interessa gli strati superficiali
fino al piano aponeurotico ed ha i margini contusi ed escoriati; detta lesione si
continua idealmente con una escoriazione a fascia che si estende per cm. 4
sulla fascia mediale del braccio sinistro secondo l’asse maggiore dello stesso
ed ha una larghezza massima di 1 cm; la cute circostante del complesso lesivo
non mostra effetti secondari della carica di lancio (Vds. Fig. 14)”.
Domenico Ricci fu dunque colpito al braccio
sinistro in una postura compatibile unicamente con un suo
movimento attivo verso colui (o coloro) che stava sparando, con
il braccio sinistro sollevato mentre tentava istintivamente di difendersi.
Sul punto, le conclusioni della
perizia medico-legale sono lampanti (vol. cit., pag. 833):
“…le altre (ndr: ferite) localizzate (ndr:
si riferisce anche ad altra ferita di striscio dorsale, sulla parte posteriore
del torace, sotto la spalla) nell’arto superiore sinistro…possono
essere ricondotte all’azione di un unico proiettile per particolare
atteggiamento assunto dalla vittima nel corso del ferimento (sollevazione in
abduzione dell’arto flesso a livello del gomito come in atteggiamento di
difesa)…”
Questa ferita, da sempre dimenticata
(tanto è vero che ancora oggi, a mio parere errando, si afferma che Ricci fu
colpito da otto, e non invece da nove o dieci proiettili), forse perché
chiaramente di per sé non letale, assume invece un ruolo fondamentale nella
ricostruzione della fase dell’agguato oggetto di disamina.
E’ infatti evidente che in virtù del
movimento attivo ed istintivo di Ricci con il braccio sinistro, che implica la
piena vitalità dell’autista di Moro, questa ferita fu molto
probabilmente la prima in assoluto, o comunque tra le primissime, subite da
Ricci.
Le foto ampiamente disponibili in
rete mostrano, con riprese anche perfettamente anteriori alla 130, che il corpo
di Ricci era parzialmente eretto ma inclinato comunque verso la propria
destra, cioè vero Leonardi.
La posizione finale della vittima
lascia immaginare, come si intuisce ampiamente dalla perizia medico-legale, un
movimento istintivo al momento dei primi spari verso di lui che lo abbia
portato non solo ad alzare il braccio sinistro, ma anche a voltare il busto in
direzione opposta a quella di provenienza degli spari (cioè, verso destra).
Questo significa che le ferite
inferte a Ricci devono essere state causate da una contestuale sequenza di
sparo, anche se eventualmente suddivisa in due o più raffiche parziali con
spostamento – di pochi centimetri - dell’assassino lungo la portiera dell’auto rispetto
all’obiettivo.
Ricci, insomma, non pare avere
subito ferite in due autonome sequenze di sparo separate da un lasso temporale lungo nell’ordine
di decine di secondi o addirittura di oltre un minuto (il tempo del
disinceppamento).
Come ha evidenziato Maninchedda, non
si lascia attivo l’autista dell’auto dell’obiettivo (Moro), e questo concetto
è proprio quanto, mio parere, ci
restituiscono la perizia medico legale e la posizione della vittima dentro
l’auto così come fotografata dopo l’agguato.
Unisco di seguito una mia tabella
sintetica della descrizione peritale delle ferite di entrata
subite da Ricci: le inclinazioni alto-basso e basso-alto, devono essere
riferite tanto alla posizione dell’omicida, quanto con quasi certa evidenza
alla inclinazione del busto, e segnatamente della testa, assunta da Ricci,
verso la propria destra, dopo le prime ferite invalidanti:
FERITA
RICCI |
DIREZ.
VERTICALE |
DIREZ.
ORIZZONTALE |
||
1) 5 CM
DIETRO ORECCHIO |
X |
X |
||
2) 2 CM
SOTTO ORECCHIO |
X |
X |
||
3)
MANDIBOLA SX |
X |
X |
||
4) ZIGOMO
SX |
X |
X |
||
5) BASE
COLLO SX |
X |
X |
||
6) ESCOR.
SUB SCAPOLA SX |
X |
X |
||
7) ESCOR.
SOPRA ASC. SX |
X |
X |
||
8) APICE
SPALLA SX |
X |
X |
||
9) SUPERF.
SPALLA SX |
X |
X |
||
10)
GOMITO-BRACCIO |
N.D |
N.D |
||
LEGENDA: |
||||
DIREZIONE
VERTICALE: |
X= LIEVEMENTE ALTO
BASSO |
|||
X= (PIU' MARCATAMENTE)
ALTO-BASSO |
||||
X=NON RILEVATA, APPARE
PARALLELA LINEA SPALLE |
||||
X=LIEVEMENTE
BASSO-ALTO |
||||
DIREZIONE
ORIZZONTALE: |
X=LIEVEMENTE
DIETRO-AVANTI |
|||
X=SOSTANZIALMENTE
LINEARE SINISTRA-DESTRA |
Se Morucci ha inceppato, quanto tempo può essere
trascorso prima che qualcun altro sia opportunamente (nell’ottica
omicida) intervenuto a mettere fuori combattimento Ricci, come è logico che sia
avvenuto?
E chi è intervenuto?
III) L’OMICIDIO DI RICCI. IL PUNTO CRITICO DEL
MEMORIALE MORUCCI.
In conclusione, i risultati delle altre testimonianze
(imparziali) e della perizia medico-legale sul corpo di Domenico Ricci, e la stessa precisazione della tempistica
dell’azione resa da Mario Moretti, del resto ricavabile dalla scansione delle
comunicazioni sui canali della polizia, che ho ricordato, mettono gravemente in
crisi il racconto di Valerio Morucci.
Nessun testimone narra di una interruzione prolungata
della fase di sparo sulla 130, come quella che si arguisce dal racconto di
Morucci in funzione “del tempo” che egli avrebbe impiegato per
disinceppare la sua arma.
Tutti i testimoni descrivono il prelievo di Moro dalla
130 in concomitanza con il perdurare dell’azione di fuoco, e questo evento,
come ho spiegato, a mio parere trova conforto nell’esigenza logica di
preservare l’obiettivo anche da ferite da rimbalzo di proiettili dentro l’auto.
Nessun testimone racconta di “ripetuti
tamponamenti” con marcia indietro e avanti, come narrato da Morucci.
Le foto della 130 e della 128 CD, con buona pace di
Morucci e di varia pubblicistica (per tutti, V. Satta, op. citata) smentiscono
un pesante tamponamento, o ripetuti impatti, tra la parte anteriore della 130 e
la parte posteriore della 128 CD.
La ferita al braccio sinistro colse Domenico Ricci
ancora in situazione di piena vitalità, in posizione di autodifesa e di
probabile torsione del busto verso destra, con contestuale continuazione degli
spari mortali, all’esito dei quali Ricci assunse la posizione visibile in varie
foto anche frontali della scena, rinvenibili in rete, e alle quali rinviamo
come detto all’inizio.
Ma se anche quella ferita fosse stata inferta in una
prima sequenza breve di sparo sostanzialmente inefficace nei confronti di
Ricci, questa eventualità non risolve il problema del tempo di permanenza in
vita di Ricci, che non potette essere lasciato attivo più di pochi secondi; con
quel che ne segue, già evidenziato, sul ruolo passivo di Morucci nel corso
del suo disinceppamento dell’arma, durante il quale, come si è
evidenziato, Ricci fu reso inattivo.
I ripetuti tamponamenti affermati da Morucci avrebbero
richiesto un tempo disponibile che -
purtroppo - non fu concesso a Ricci: durante gli spari contro Leonardi, a pochi
centimetri da lui, Ricci non avrebbe certo potuto manovrare, ed è inoltre
verosimile che i due carabinieri siano stati colpiti quasi contestualmente;
alcuni proiettili infatti potrebbero anche aver colpito Leonardi dopo essere
fuoriusciti dal lato destro del busto e/o della testa di Ricci (Domenico Ricci non ha alcun
proiettile trattenuto nel corpo).
Se Morucci ha realmente inceppato, qualcun altro, ad
oggi ignoto, ha ucciso Ricci mentre lui disinceppava, visto che egli stesso sostiene
di essere tornato accanto alla 130 quando l’auto era già ferma.
Ma dal momento in cui Ricci, in istintivo gesto di
autodifesa, subì la ferita al braccio sinistro, probabilmente torcendo il busto
verso destra (ferita di striscio sulla parte sinistra posteriore del torace), al
massimo pochi secondi dopo quella ferita, per lui non ci fu più scampo; la
posizione finale del corpo descrive una morte occorsagli in una rapida fase di
sparo, che lo colse già volto verso destra, e non da parte di Morucci, se
costui aveva dovuto impiegare “del tempo” per disinceppare l’arma.
Se Morucci, invece, non ha inceppato, occorre capire perché abbia
detto di averlo fatto: in entrambi i casi, la risposta potrebbe essere
inquietante, e cioè che Valerio Morucci sparò ben poco in Via Fani. E che questo, forse, non si può dire.
Sul punto, vale la pena di ricordare che le nuove
perizie balistiche sui bossoli (ripeto: sui bossoli) repertati in Via Fani,
come abbiamo evidenziato anche nel primo degli articoli sulla balistica
realizzati dal nostro gruppo (rinvio per brevità al link prima riprodotto), hanno
concluso, nel 2015, che non v’è certezza che i 22 bossoli prima di allora
attribuiti all’arma di Morucci (convenzionalmente definita FNA-1) siano stati
esplosi da quell’arma che, si badi bene, è in reperto in quanto a suo tempo
sequestrata e per la quale quindi è stata possibile l’effettuazione di
specifici test di sparo; quella nuova perizia, in base alle nuove e più recenti
classi internazionali di accertamento balistico, ha infatti concluso per
l’inserimento di qui 22 bossoli nella classe definita “C”, caratterizzante,
cioè, per l’appunto, un giudizio di “non conclusività”.
Quanto all’altra ovviamente fondamentale categoria di
reperti balistici, cioè i proiettili o frammenti di proiettili idonei all’esame
peritale, ebbene, sembrerà incredibile in un Paese che si assume “moderno”, ma tutti
i proiettili e frammenti riferibili agli spari contro la Fiat 130, tra i
quali, tra gli altri, quelli estratti dal corpo di Oreste Leonardi durante
l’autopsia, sono scomparsi.
Sul punto, rinviamo all’eloquente “verbale di
informazioni sommarie” rese dal perito Pietro Benedetti il 12 marzo 2015 ad
ufficiali della Digos nel corso delle acquisizioni dei reperti balistici
propedeutiche alla relazione della Polizia Scientifica di Roma sulla dinamica
dell’agguato di Via Fani (illustrata poi
alla CM-2 nel successivo mese di giugno), verbale disponibile a questo link (in
particolare, pag. 4 del pdf): https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/2018-02-22/0066_016.pdf
Si trattava – la declinazione al passato è d’obbligo,
date le circostanze evidenziate- precisamente, proprio dei proiettili (e
frammenti) che la perizia Salza-Benedetti del 1994 aveva ritenuto di attribuire
all’arma, alla presunta unica arma (il FNA-1) che sarebbe stata utilizzata da
Morucci.
Quindi non è stato possibile per la polizia
scientifica, nel 2015, compiere alcun esame balistico su quei proiettili con i mezzi
tecnologici più moderni; in altre parole, non è stato possibile confermare o
meno i risultati delle risalenti perizie – l’ultima delle quali è quella
poc’anzi citata del 1994 – in ordine alla
provenienza o meno di tutti, parte o nessuno di quei proiettili
dall’arma FNA-1 in sequestro.
E forse è lecito temere, date le premesse di cui sopra,
che nessun esame, a quanto pare, sarà ormai più possibile, a meno che i
proiettili che colpirono Ricci, Leonardi e parti dell’auto, non spuntino di
nuovo fuori, da qualche parte e in qualche tempo.
Resta la conclusione, cui mi sento di giungere, che
ancora molto deve essere chiarito sull’azione di fuoco di Via Fani e su chi vi
prese parte.
Conto di continuare l’analisi del testimone Morucci,
il “memoriale smemorato”, anche per molti altri aspetti della vicenda , come da
lui narrata, auspicando anche che in parallelo ulteriori approfondimenti di
natura filologica si spingano ad indagare oltre questo testo, che resta in ogni
caso un “testimone” fondamentale nella storia italiana della seconda metà del
‘900.
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