venerdì 29 settembre 2023

IL “MEMORIALE” SMEMORATO - L'omicidio di Domenico Ricci

 (a cura di: Andrea Guidi)


IL “MEMORIALE” SMEMORATO

16 MARZO 1978, VIA FANI

L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI

DALLA DISAMINA FILOLOGICA DEL MEMORIALE MORUCCI DI PAOLO MANINCHEDDA ALLE RISULTANZE PERITALI

“In conseguenza dell’inceppamento della mia arma, per non intralciare gli altri, mi sono portato verso
Via Stresa ed ho impiegato del tempo per disinceppare l’arma.

Subito dopo sono tornato accanto alla 130 ed ho sparato altri colpi, ma l’auto era già ferma .”

(brano del così detto “Memoriale” Morucci-Faranda, 1986-1990, come trascritto in “Patto di omertà- Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro: i silenzi e le menzogne della versione brigatista” di Sergio Flamigni, ed. Kaos, 2015)

 

INTRODUZIONE

Il giorno 11 ottobre 1991 la Corte di Assise di Roma trasmetteva alla “Commissione parlamentare  d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” (di seguito Commissione Stragi, o anche CS) un plesso di atti trasmessi a sua volta dal Ministero dell’Interno quali da questo Ente ricevuti dalla Presidenza della Repubblica, recante tra gli altri la “memoria difensiva di Valerio Morucci e Adriana Faranda depositata il 5.3.85 nel procedimento Moro-Ter”.

Questa  “memoria difensiva”, passata alla storia come memoriale “Morucci-Faranda” (alla cui formazione non sarebbero stati estranei, secondo la concorde pubblicistica che si è occupata della materia, il direttore de “Il Popolo”, Remigio Cavedon, e l’importante esponente della Dc Flaminio Piccoli), era introdotta da  un biglietto di accompagnamento per l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che recitava “Solo per lei Signor Presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato (1986); il biglietto era stato redatto verosimilmente dalla suora  Teresilla Barillà, assistente carceraria che aveva curato il percorso di ravvedimento dei due “dissociati” Morucci e Faranda.

Il documento era infatti stato trasmesso agli inquirenti tardivamente (fu acquisito agli atti del Moro-quater solo nel 1990), solo dopo essere stato consegnato riservatamente al Presidente Cossiga, già Ministro dell’Interno all’epoca del sequestro Moro e dimessosi il giorno dopo la tragica conclusione del sequestro avvenuta il 9 maggio 1978, assurto alla massima carica dello Stato nonostante la clamorosa debacle che egli aveva subìto, quale vertice istituzionale delle forze di polizia, durante il sequestro del suo maestro politico.

Il così detto “memoriale” ebbe tuttavia origine ed incubazione fin dal 1984 nell’ambito del processo “Metropoli”, allorchè a partire dal 10 luglio Valerio Morucci, dopo sua espressa richiesta di essere interrogato dal giudice Imposimato, unitamente ad Adriana Faranda, quali imputati di reato connesso,  produssero al giudice, nel corso di più sessioni di interrogatorio, la narrazione della loro storia personale e del suo momento apicale: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.

La sequenza degli interrogatori ed i testi delle dichiarazioni acquisite sono disponibili al link:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B168/1126_003.pdf

 

ed altresì al link del blog “Sedicidimarzo”:

http://www.sedicidimarzo.org/2018/06/memoriale-morucci-e-altro.html

Il confronto tra il documento “definitivo” – completo tra l’altro dei nomi dei nove partecipanti, a dire dei due dissociati, all’azione di Via Fani, che nel 1984 essi non avevano inteso fare - consegnato prima all’allora Presidente Cossiga e poi alla magistratura e alla Commissione Stragi, ed il testo originario del 1984, mostra palesemente come la versione “definitiva” sia stata frutto di revisione, integrazione, aggiustamenti, precisazioni, ristrutturazione anche cronologica non necessariamente coerente con la sequenza degli interrogatori resi a Imposimato, frutto, insomma, di un chiaro intervento “ordinatore”, del quale non è difficile cogliere una matrice almeno in parte diversa dalla voce dei due ex brigatisti.

A mio parere non è corretto affermare solo che quel documento abbia costituito, fino ad oggi, la base della “verità processuale” della ricostruzione del sequestro, della prigionia e dell’omicidio di Aldo Moro, perché semmai sembra più fondato sostenere, con maggiore coerenza rispetto all’effettivo dispiegarsi degli eventi, che il “memoriale Morucci- Faranda” da un lato, e gli esiti processuali dall’altro, si attestino su di un piano di reciproca interferenza, in quanto per un verso quel testo si nutre in non poca parte delle risultanze processuali acquisite, bene o male, all’epoca del suo confezionamento (si pensi alla descrizione delle armi impiegate nell’agguato, che i consulenti dei magistrati ritennero di avere individuato -a torto o a ragione- già nella loro perizia balistica collegiale del 1981), mentre per converso esso ha finito a sua volta per incidere in modo ancora oggi decisivo su alcuni aspetti delle sentenze emesse nei successivi processi (si pensi tanto alla ricostruzione dell’agguato di Via Fani quanto meno per l’individuazione dei dieci partecipanti ufficialmente ancora oggi ritenuti unici responsabili e condannati, quanto all’individuazione di Via Montalcini quale presunta unica prigione di Moro), a partire dal Moro-quater.

In questo documento intendo analizzare esclusivamente la parte del “Memoriale Morucci-Faranda” che si occupa, con riferimento ai fatti della mattina del 16 marzo 1978, della decisiva fase iniziale del blocco delle auto di Moro e della sua scorta – la Fiat 130 blu e l’Alfetta bianca – e precisamente delle presunte modalità di esecuzione di quel blocco e dell’omicidio di Domenico Ricci, autista della Fiat 130 di Moro.

Lo farò proponendo due diverse prospettive di analisi.

Nella prima, mi limiterò ad una ricognizione di un interessante saggio di Paolo Maninchedda (studioso dell’Università di Cagliari), intitolato “I deittici e le bugie. La filologia nella formazione degli uomini di legge” (ed. “ La Sapienza” di Roma, collana COGNITIVE PHILOLOGY, No 15 (2022)), del quale riporterò gli stralci necessari ai fini che mi sono proposto, saggio nel quale si esamina sotto il profilo della scienza filologica, tra le altre cose, anche la parte in questione del così detto memoriale Morucci.

Questo saggio -trattando anche di alcuni altri casi storici interessanti- affronta il tema della carenza dell’uso degli strumenti propri della filologia nella valutazione strettamente giuridica delle prove testimoniali.

Il testo integrale è liberamente reperibile in rete a questo link:

https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&opi=89978449&url=https://rosa.uniroma1.it/rosa03/cognitive_philology/article/download/18155/17444&ved=2ahUKEwiZ5fC-r5uBAxUycfEDHYPYD5cQFnoECCsQAQ&usg=AOvVaw2nh6RQtrB-qj-80f-gQaGW

La seconda prospettiva – più tipicamente propria della metodologia e tipologia di analisi che ho seguito in questi anni con il collettivo di studio del “Sedicidimarzo” – esamina le possibili ricostruzioni della dinamica dell’omicidio di Domenico Ricci basandosi – per dirla sintetizzando, spero non arbitrariamente, il pensiero dell’Autore poc’anzi citato – sul “non detto” delle parole del testimone (nella fattispecie il memoriale Morucci), cioè sulle risultanze probatorie tecnicamente più oggettive e che, per l’appunto, in quanto tali il testimone costituito dal memoriale Morucci non può recare: nel nostro caso, quelle delle altre testimonianze di cittadini presenti sul luogo, delle perizie balistiche, ma soprattutto quelle dell’autopsia di Domenico Ricci.

Lo scopo che mi sono prefissato, letto il saggio su menzionato, è quello di tentare di verificare se le risultanze dell’esperimento dei mezzi di prova oggettivi, consentano di pervenire a delle conclusioni che possano o meno corroborare l’analisi filologica del “testimone Morucci”.

Anticipo che per intuibili ragioni di rispetto della sensibilità dei familiari di Domenico Ricci, ed in particolare del figlio, Dott. Giovanni Ricci (se non erro, oggi criminologo), non pubblicherò alcuna immagine tratta dall’autopsia compiuta sul corpo dell’autista della 130 di Moro; d’altronde, queste risultanze con le accluse immagini si trovano su documenti della prima Commissione Parlamentare di inchiesta sul sequestro Moro (d’ora in poi, CM-1), ormai liberamente disponibili in rete, delle quali, ove necessario od opportuno, indicherò i riferimenti.

Sono parimenti disponibili liberamente in rete centinaia di fotografie che raffigurano la scena dell’agguato, quindi anche per quanto riguarda le immagini, e, segnatamente, quelle dei corpi degli agenti di scorta dentro le auto, rinvio il lettore alla ricerca sul web.

Pertanto mi rimetto alla pazienza del lettore, che dovrà tentare, con auspicabile benevolenza nei miei confronti, di comprendere la descrizione che farò delle ferite, degli impatti e della posizione dei corpi delle vittime, descrizione che risulterà ovviamente più tediosa e di assai minore immediata percepibilità di quanto non parlino le immagini disponibili.

I) L’ANALISI FILOLOGICA DEL MEMORIALE: IL BLOCCO DELLA FIAT 130 E L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI NELLE PAROLE DI VALERIO MORUCCI.

Prima di affrontare direttamente lo specifico caso che mi interessa, merita riportare testualmente alcuni stralci delle premesse metodologiche generali indicate da Paolo Maninchedda nel saggio prima indicato.

Mi scuso in anticipo con l’Autore per la parzialità della selezione che qui riproduco del suo interessantissimo lavoro, dovuta con ogni evidenza a comprensibili ragioni di sintesi.

Scrive, tra l’altro, Maninchedda, prima di addentrarsi nella disamina specifica dei casi storici da lui analizzati (le sottolineature  che seguono sono mie):

“Un modo per dimostrare che la filologia non è solo una disciplina dell’archivio della cultura, ma anche dell’uso, cioè una disciplina del presente,1 epistemologica e non solo storica, con un oggetto specifico, cioè i testi, consiste nel concorrere a risolvere problemi testuali contemporanei. Il banco di prova per non essere chiusi nell’armadio del passato è il presente più esigente.

In questa direzione ci si può chiedere: la filologia può dare un contributo specifico a smascherare un testo che afferma il falso? E di conseguenza: la filologia è utile agli uomini di legge?.......

 

Ovviamente gran parte di questo lavoro è possibile se e solo se si dispone di altri documenti coevi della cui autenticità si è certi.

Tuttavia, mentre un falso storico (cioè un testo che dice il falso in forme autentiche) o diplomatico (cioè un testo che dice cose vere, ma in forme contraffatte) necessitano di competenze storiche, paleografiche e filologiche per essere identificati, una dichiarazione falsa moderna non ne ha necessariamente bisogno. Se Tizio afferma che Caio era in un determinato luogo in una certa ora, e Caio possiede una fotografia che lo ritrae altrove, non c’è bisogno di filologia per dimostrare che il primo mente. Se ne può ricavare una prima indicazione: la filologia è utile solo per testimonianze, scritte o orali, con un’alta percentuale di elaborazione o contraffazione o manipolazione.

Questo ha una conseguenza implicita che è meglio disambiguare: il problema dell’accertamento della verità non sta nella semplicità o complessità del caso, ma dei testi che lo rappresentano (se Peirce sosteneva a ragione che non è possibile pensare senza segni, è altrettanto vero che è impossibile conoscere e giudicare senza di essi e senza la principale loro architettura, il testo), la qual cosa apre una questione metodologica non da poco.

Nella coscienza comune, il processo decide su fatti e di conseguenza commina pene o sancisce innocenze. Invece, nella coscienza degli addetti ai lavori, il processo decide su testi contrapposti, quelli dell’accusa e della difesa (Cordero è perfettamente consapevole della distanza del processo dal diritto sostanziale e consapevole che la stessa produzione dei testi - delle prove - dovrebbe avvenire, e di fatto non avviene neanche nel nuovo processo penale, mantenendo la natura triadica del processo: accusa, difesa, giudice3).

Non solo: i testi del processo hanno una caratteristica che dovrebbe indurre tutti a dubitare della loro aderenza ai fatti: sono epidittici, vogliono convincere il tribunale della bontà della propria tesi. Non a caso, fino a poco tempo fa, ma sembra un’epoca lontanissima, mentre si riteneva che magistrati e avvocati non dovessero avere alcuna formazione filologica, si raccomandava che ne avessero una retorica. Il loro obiettivo non doveva essere l’esattezza e lo scrupolo della verità conoscibile, ma la capacità persuasiva.

Più nel dettaglio: mentre si può ritenere che la pubblica accusa cerchi, nella fase delle indagini, un rapporto più stringente con la realtà (e purtroppo lo fa senza contraddittorio), lo stesso non può sostenersi per gli scritti della difesa, che dipendono dall’obbligo della confutazione di quelli dell’accusa e conseguono esplicitamente alla natura e alla forma delle accuse mosse.

Consapevoli, dunque, che il processo decide su testi, cioè sull’oggetto tipico della filologia, andiamo a metterci alla prova sull’utilità della filologia rispetto a un testo menzognero.”….

Riportare queste premesse, mi è apparso fondamentale – come d’altronde lo è per l’Autore, mi pare- per restituire al lettore l’esatta percezione del lavoro svolto di seguito sui singoli casi storici concreti analizzati, e delle conclusioni raggiunte in esito a questa tipologia analisi dei corrispondenti testimoni.

Detto questo, si può quindi passare all’esame dell’analisi svolta sullo specifico argomento oggetto di questo stesso studio.

Anche in questo caso, mi pare necessario riportare l’ulteriore, specifica premessa svolta dall’Autore, con l’ovvia avvertenza che là dove egli si riferisce a “tre brani” del memoriale Morucci, la premessa, per quanto riguarda i limiti del presente studio, deve intendersi limitata alla frazione in oggetto dell’agguato di Via Fani.

Scrive l’Autore:

“Questo testo non presenta alcuna delle difficoltà tipiche dei testi antichi che la filologia risolve: è scritto in italiano corrente, nella grafia canonizzata nei testi a stampa e non presenta particolarità linguistiche. Quindi il problema che esso pone non è metodologico, ma ermeneutico; si tratta di dimostrare che una mente che pratica la filologia vede di più e più a fondo di una mente semplicemente logica.

Prendiamo tre brani del Memoriale Morucci, cioè il testo con cui il bierre Morucci ha ricostruito il sequestro Moro, divenuto la base delle sentenze successive. Ormai sappiamo in forma conclamata che i tre brani che vedremo dicono il falso.14 Essi riguardano: la descrizione della dinamica dell’agguato di via Fani, la dinamica dell’abbandono delle auto e l’elenco delle armi utilizzate.

Diamo per acquisiti i riscontri che hanno dimostrato la falsità delle affermazioni di Morucci e quindi non riepiloghiamo tutta la vicenda.

Ripetiamo la domanda: il testo ha segnali stilistici e compositivi tali da poter ricavare una regola da verificare su altri testi per riconoscere e smascherare la falsità non con la collazione dei reperti e delle fonti, ma in modo da fornire agli inquirenti segnali tempestivi di inattendibilità? È ovvio che questa attività non sostituisce la prova, ma è utilissima a comprenderla nella sua autenticità.

Il primo livello di falsità, e anche quello da sempre più indagato, abbiamo detto riguardare la collocazione degli eventi nel tempo e nello spazio.

Ciò fornisce una pista per comprendere quali elementi del discorso, il più possibile accessori, cioè tali da essere utilizzati dall’autore con un grado di autocontrollo inferiore a quello riservato alle parti più referenziali del discorso, sono candidati ad essere spie di manipolazione e di falsità.

Abbiamo già detto che si tratta di indagare sostanzialmente quello che in narratologia è stato chiamato il cronotopo, cioè le relazioni di spazio e di tempo del testo. Ma questo lo fanno anche il poliziotto della giudiziaria e il magistrato. Abbiamo aggiunto che il filologo deve essere più fine, deve indagare la funzione deittica, cioè tutti gli elementi linguistici che hanno il ruolo di ‘indicare alcunché nello spazio reale’ (direi spazio-tempo), ma anche gli aggettivi che servono a modificare semanticamente singole parole o parti del discorso, cioè a renderlo più preciso o più generico.

Quindi l’Autore passa ad analizzare, tra gli altri, il brano del memoriale Morucci che mi interessa specificamente studiare in questa sede (le parole in “grassetto” che seguono, sono nel testo dell’Autore):

“Testo 1

Lo stesso Bierre n. 1 (Moretti), dopo aver bloccato la 128 poco prima dello stop, facendosi tamponare dalla Fiat 130 seguita dall’Alfetta, è rimasto per qualche tempo quasi sino alla fine della sparatoria sulla stessa auto che si è spostata in avanti a causa dei ripetuti tamponamenti da parte dell’autista del 130, che cercava di guadagnare un passaggio sulla destra, verso via Stresa. La presenza casuale di una Mini Minor in via Fani, proprio all’altezza dell’incrocio con via Stresa, può avere in parte contribuito ad impedire la manovra di svincolo della 130.15”.

Questo passaggio si trova, per la precisione, testualmente riprodotto tra l’altro nel libro di Sergio Flamigni, citato in epigrafe, a pag. 99.

L’analisi del brano del memoriale appena riportato viene svolta dall’Autore nel brano che riporto (i “grassetti” e le sottolineature  sono apposti da me):

“In realtà:

a) non ci fu alcun tamponamento della Fiat 128;

b) la Mini Minor, risultata di una società amministrata da un uomo dei servizi segreti italiani, si trovava nella posizione che nei giorni precedenti era occupata dal furgoncino di un fioraio che abitualmente si fermava lì per vendere i suoi prodotti. Le Br, nei giorni precedenti l’agguato, avevano bucato una ruota al fioraio, ma avevano dovuto constatare che il fioraio aveva sostituito la ruota e si era comunque recato al lavoro; la notte precedente il 16 marzo ne avevano quindi bucate due, pur di assicurarsi che il camioncino non occupasse la sua postazione abituale.

Andiamo al testo e vediamo nel dettaglio come agisce la funzione deittica nel testo.

Morucci afferma che Moretti, il conducente della Fiat 128, avrebbe bloccato la sua vettura poco prima dello stop per farsi tamponare.

Si rifletta.

Fermare un’auto prima dello stop è tutt’altro che un comportamento innaturale, anzi, è ciò che tutti si attendono che accada. Semmai è innaturale fermarla dopo aver varcato la linea dello stop.

Morucci vuole essere preciso e colloca la prima macchina, condotta da Moretti, poco prima dello stop.

Poi colloca Moretti dentro la macchina fino alla fine della sparatoria, ma non sempre poco prima dello stop, perché sarebbe stato urtato dall’agente che guidava l’auto di Moro, il quale avrebbe cercato di farsi spazio, con ripetuti tamponamenti.

Focalizziamo l’aggettivo ripetuti, utilizzato per modificare tamponamenti e giustificare la rappresentazione nello spazio del lieve movimento dell’auto della macchina di Moretti, a dire di Morucci, a causa delle spinte dell’auto di Moro.

Ripetuti: la ripetizione del tamponamento mentre si svolge la sparatoria presuppone che l’autista di Moro sia rimasto in vita più a lungo degli altri, in modo da tentare più volte di scappare. In sostanza, si afferma che l’autista non è stato il primo ad essere stato colpito, ma neanche il secondo o il terzo, perché ha potuto ripetere più volte la manovra. Tuttavia, è di tutta evidenza che chi vuole fermare un’auto per rapire il passeggero non spara all’autista per ultimo.

L’analisi di Maninchedda si sofferma ovviamente anche sulla “casualità” affermata da Morucci in merito alla presenza della nota Austin blu sulla destra, a ridosso dell’incrocio.

Ma, è quest’ultimo, un aspetto che, per quanto meritevole di ogni possibile approfondimento, non intendo tratteggiare in questo testo e pertanto ometto la trascrizione delle pur interessanti considerazioni dell’Autore sul punto.

Mi limito ad osservare che ad oggi non mi consta se sia stata oppure no presentata all’autorità giudiziaria la querela riservatasi  da Patrizio Bonanni nel corso della sua escussione da parte degli ausiliari della CM-2, contro Carlo D’Adamo, che nel suo libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino- lo Stato in via Fani”  (edizioni Pendragon, 2014) ha sostenuto senza mezzi termini l’appartenenza di quell’auto, nella disponibilità effettiva di Patrizio Bonanni, ad una società riconducibile ai Servizi

E’ invece assolutamente pertinente, mi sembra, il brano seguente del saggio in commento che, per quanto collocato dall’Autore all’esito della disamina delle parole di Morucci sulla “casuale” presenza dell’Austin blu, reca considerazioni di sicuro valore generale:

“…Potremmo ricavarne una prima regoletta da verificare: nei testi a forte tensione referenziale, bisogna badare alle parti meno intenzionali: avverbi, aggettivi, congiunzioni, tutto ciò che serve alla coesione del testo. Se si mente, queste sono le parti più a rischio di tenuta, i luoghi dove l’autore del testo deve far tornare ciò che non torna. Bisognerebbe verificarlo, ma fatte un paio di verifiche su altri testi, mi pare che sia un’ipotesi meritoria di approfondimento.”

Questa analisi richiede qualche precisazione, ai fini che mi sono prefissato.

L’affermazione iniziale sub “a)” in ordine alla mancanza di tamponamenti può essere tranquillamente accettata – a dispetto di opposte tesi apparse nella saggistica, quali ad esempio V. Satta, “Il caso Moro e i suoi falsi misteri”, ed. Rubbettino, 2006, pagg. 18 e segg. e in particolare pag. 21-23) – a condizione che la si riduca da asserzione assoluta a relativa: viste le condizioni della parte anteriore della Fiat 130, e quelle della parte posteriore della Fiat 128 bianca con targa CD che, come noto, fu artefice del blocco, può dirsi che non vi fu un tamponamento quale quello descritto da Morucci, ma probabilmente un lieve impatto originato a catena dall’impatto sulla parte posteriore della Fiat 130 da parte dell’alfetta di scorta che la seguiva, oppure (o congiuntamente) dal rilascio della pressione sulla frizione o sul freno da parte dell’autista della Fiat 130, Domenico Ricci, perché già ferito.

Il “gestore” riconosciuto a torto o a ragione (nelle sedi più varie) dell’operazione Moro, Mario Moretti, che sarebbe stato alla guida della Fiat 128 targata CD, nel suo noto libro- intervista con le giornaliste Mosca e Rossanda (ed. originaria “Anabasi”, 1994), ha parzialmente smentito Morucci quanto al fatto di essersi fatto tamponare, perché secondo la sua versione una frenata brusca, tra l’altro, avrebbe allertato la scorta di Moro; ma egli ha confermato tuttavia il presunto tentativo di Ricci di ricavarsi una via di fuga speronando la 128 CD. Ciò, curiosamente, solo tre anni dopo l’acquisizione del memoriale da parte della magistratura, completo dei nomi dei partecipanti all’azione apposti nel frattempo da Morucci, e soprattutto solo alcuni anni dopo che la stessa versione completa di nomi era stata consegnata in visione a Cossiga.

Il brano del libro-intervista che tratta di questa parte è il seguente (le sottolineature sono apposte da me):

(domanda) Non ti sei fatto tamponare dalla 130 di Moro? Si è sempre detto questo.

(risposta) No. Un tamponamento li avrebbe messi in allarme.

L'autista dell'Alfetta, colpito, lascia andare la frizione, la macchina fa un salto in avanti, tampona la 130 di Moro che a sua volta tampona la mia. Avevamo previsto di abbandonare la 128 sul posto, e io sarei sceso per andare a rafforzare la posizione di Barbara. Ma a questo punto succede l'imprevisto: si inceppano sia il mitra di Morucci sia quello di Bonisoli. Uno dei poliziotti dell'Affetta riesce a scendere dalla macchina, impugna una pistola, Bonisoli lascia andare il mitra, tira fuori la pistola sua, spara e lo colpisce. Credo che nemmeno lui sappia come ha fatto a sparare con tanta precisione, certo se non ci fosse riuscito in via Fani avremmo lasciato anche qualcuno dei nostri. E io sono costretto a rimanere in macchina con il freno premuto perché l'autista di Moro, che non è stato colpito, cerca di togliere la 130 dall'incastro formato per il doppio tamponamento. In quegli attimi Morucci sostituisce il caricatore al suo mitra inceppato, spara una seconda raffica e riesce a colpirlo. Pochi secondi e la sparatoria è finita, la scorta neutralizzata.”

Come si può notare, se per un verso l’ex leader brigatista non parla comunque di “ripetuti tamponamenti”, ma solo di un (presunto) tentativo da parte di Ricci di liberare l’auto, senza specificarne le modalità, tentando con ciò di confermare nella sostanza la narrazione di Morucci, per altro verso (non so dire se consapevolmente o meno) aggiunge un dettaglio di troppo al racconto del suo ex sodale (il cambio del caricatore) ed introduce un elemento temporale – “Pochi secondi” – che, come vedremo, costituisce proprio il nucleo critico del racconto di Morucci; come peraltro rilevato sotto il profilo filologico dall’analisi di Maninchedda (il passaggio cui mi riferisco è quello in cui l’Autore pone in rilievo la questione del tempo di sopravvivenza di Domenico Ricci).

Non voglio sostituirmi a Maninchedda e alle sue specifiche competenze, ma mi sembra di poter dire – e ciò è il punto centrale della questione - che quest’ultima precisazione da parte di Moretti in merito alla tempistica del tutto, confligga tanto con le sue stesse parole volte a descrive il tentativo di Ricci di liberare l’auto dal blocco, quanto, a maggior ragione, con i “ripetuti tamponamenti” narrati da Morucci: se l’azione nel complesso durò pochi secondi, non si capisce perché un elemento tanto importante nel sequestro, come l’autista dell’ostaggio, sia stato lasciato in vita per un tempo forse perfino superiore a quello occorso per il resto della sparatoria.

Mi scuso con Maninchedda se mi azzardo ad entrare nel suo campo di competenze, ma mi pare di poter sostenere che, per un banale sillogismo, quello che egli rileva con riferimento alle parole di Morucci, valga perfino a più forte ragione per quelle di Moretti, il quale per l’appunto si perita perfino di quantificare esplicitamente in “pochi secondi” la durata dell’azione.

E’ comunque sintomatica della non casualità delle parole di Moretti (considerata la suddetta altezza cronologica  della sua intervista e della pubblicazione del libro) - dirette palesemente ad apporre il sigillo del capo alla narrazione di Morucci - la quasi pedissequa ripetizione da parte sua del racconto del memoriale, in merito alla sopraggiunta necessità di abbandonare il piano originario, che, stando a quanto si legge nei due rispettivi testimoni, avrebbe previsto che Moretti si sarebbe dovuto subito posizionare con la Balzerani a presidio dell’incrocio.

Morucci aveva già affermato infatti, sul punto, qualche anno prima di Moretti (sottolineature mie):

Nel frattempo, il bierre 1 (Moretti), invece di portarsi al centro dell’incrocio, come previsto dal piano di attacco, per appoggiare (la Balzerani) nella difesa dell’incrocio, si è portato accanto alla 130 di Moro e insieme ai bierre 7 ed 8 (Fiore e Gallinari) ha prelevato l’ostaggio e lo ha caricato sul sedile posteriore della Fiat 132, che nel frattempo facendo retromarcia da via Stresa a via Fani, si era affiancata alla Fiat 130 di Moro”.

La narrazione di Moretti, in sostanza, se si eccettua l’importante smentita del tamponamento iniziale, presenta in definitiva, per l’esegesi del testo, lo stesso ordine di problemi ermeneutici del memoriale di Morucci, che sotto questo aspetto Moretti mette in crisi se ci si concentra sul nucleo del problema che sto affrontando, cioè la tempistica della morte di Domenico Ricci.

Pertanto, mi sento di concludere che il brano dell’intervista di Moretti appena commentato resta di fatto assorbito nell’analisi che sto tentando di condurre sul memoriale Morucci, perché come già osservato da Maninchedda, il memoriale già reca(va) in sé il proprio elemento critico centrale, quello del periodo di sopravvivenza di Domenico Ricci e del suo omicidio.

Mi ripeto (e me ne scuso): non so quanto consapevolmente, ma nel tentativo di integrare le parole di Morucci, mi sembra che Moretti finisca con il metterne a nudo un consistente elemento critico.

Tanto vale, allora, che io non mi dilunghi oltre sulle parole di Moretti, mantenendo l’attenzione sul memoriale di Morucci.

Mi soffermo quindi specificamente sulla parte dell’analisi di Maninchedda che riguarda i presunti “ripetuti tamponamenti” da parte di Ricci contro la Fiat 128 CD.

L’analisi filologica svolta da Paolo Maninchedda sul punto mi sembra perfetta, e tanto vale allora, anche per evitare commenti ridondanti da parte mia, riportarla nuovamente (anche in questo caso, le sottolineature e i “grassetti” sono miei):

“….Poi (Morucci: nda) colloca Moretti dentro la macchina fino alla fine della sparatoria, ma non sempre poco prima dello stop, perché sarebbe stato urtato dall’agente che guidava l’auto di Moro, il quale avrebbe cercato di farsi spazio, con ripetuti tamponamenti.

Focalizziamo l’aggettivo ripetuti, utilizzato per modificare tamponamenti e giustificare la rappresentazione nello spazio del lieve movimento dell’auto della macchina di Moretti, a dire di Morucci, a causa delle spinte dell’auto di Moro.

Ripetuti: la ripetizione del tamponamento mentre si svolge la sparatoria presuppone che l’autista di Moro sia rimasto in vita più a lungo degli altri, in modo da tentare più volte di scappare. In sostanza, si afferma che l’autista non è stato il primo ad essere stato colpito, ma neanche il secondo o il terzo, perché ha potuto ripetere più volte la manovra. Tuttavia, è di tutta evidenza che chi vuole fermare un’auto per rapire il passeggero non spara all’autista per ultimo.”..

Ho poco fa tratteggiato che l’elemento a mio parere centrale della questione,  che richiede e merita il tentativo di ricercare un riscontro nelle risultanze testimoniali e peritali, sulle quali mi soffermerò nel secondo paragrafo di questo scritto, è costituito dalla corretta osservazione secondo la quale Ricci sarebbe dovuto rimanere in vita sufficientemente a lungo da poter manovrare ripetutamente l’auto tentando di forzare il blocco, con il corollario, ben evidenziato nel saggio in esame, che per logica in un simile agguato l’autista dell’ostaggio, obiettivo del sequestro, deve essere neutralizzato per primo, o comunque in un tempo sufficiente ad evitare il rischio (per i sequestratori) di una fuga.

E’ quindi a questo punto che occorre passare ad analizzare i riscontri testimoniali e peritali, e segnatamente quelli dell’autopsia di Domenico Ricci, non senza prima rilevare che il brano del memoriale Morucci analizzato da Maninchedda deve necessariamente essere letto unitamente agli altri che via via trascriverò, ad iniziare da quello che ho già riportato in epigrafe, e che qui, per la sua importanza ai nostri fini, riporto nuovamente (sottolineature e “grassetti” sono miei):

“In conseguenza dell’inceppamento della mia arma, per non intralciare gli altri, mi sono portato verso Via Stresa ed ho impiegato del tempo per disinceppare l’arma.

Subito dopo sono tornato accanto alla 130 ed ho sparato altri colpi, ma l’auto era già ferma .”

E’ un peccato, tra l’altro, che l’Autore non abbia compiuto- almeno stando al saggio qui commentato – anche l’analisi filologica di quest’ultimo passaggio. Perché assumendo come corretta regola ermeneutica quella da lui evidenziata in merito alla particolare rilevanza, in un testimone, di congiunzioni, avverbi, aggettivi, ecc., il sintagma “ma l’auto era già ferma” meriterebbe di per sé solo, probabilmente, un saggio appositamente dedicato.

II) L’OMICIDIO DI DOMENICO RICCI. I TESTIMONI. L’AUTOPSIA.

Per quanto sin qui detto, mi sembra evidente che occorra prima di tutto delimitare il perimetro temporale dell’azione definito dalle parole di Morucci.

A questo scopo, bisogna aggiungere agli estratti del suo memoriale che ho trascritto nel “paragrafo I” anche il passaggio conclusivo di questa parte dell’agguato di via Fani, passaggio che ho già anticipato nel precedente paragrafo, e che per comodità qui trascrivo di nuovo, sempre nella versione tratta dal libro di Sergio Flamigni; siamo nella fase successiva al momento in cui Morucci, disinceppata l’arma, come abbiamo visto si sarebbe riportato di nuovo accanto alla Fiat 130 sparando altri colpi, constatando peraltro, come egli afferma, che (ma) l’auto era già ferma”.

Il passaggio conclusivo cui mi riferisco è il seguente:

Nel frattempo, il bierre 1 (Moretti), invece di portarsi al centro dell’incrocio, come previsto dal piano di attacco, per appoggiare (la Balzerani) nella difesa dell’incrocio, si è portato accanto alla 130 di Moro e insieme ai bierre 7 ed 8 (Fiore e Gallinari) ha prelevato l’ostaggio e lo ha caricato sul sedile posteriore della Fiat 132, che nel frattempo facendo retromarcia da via Stresa a via Fani, si era affiancata alla Fiat 130 di Moro”.

L’insieme dei passaggi del memoriale sopra riportati, consente di definire i riferimenti nel tempo dell’azione, che secondo Morucci è quindi delimitata dalla scansione di questi eventi:

 

- 1) blocco allo “stop” sull’incrocio della 130 di Moro da parte di Moretti con la 128 CD, con il primo tamponamento a dire di Morucci volutamente originato da Moretti;

 

-  2) Moretti, in difformità dal piano iniziale, sarebbe rimasto nella 128 CD praticamente fino alla fine dell’azione;

 

- 3) la 128 CD si sarebbe poi spostata più avanti, oltre al segnale di “stop”, nella sua posizione definitiva immortalata nelle note e storiche immagini, a causa dei ripetuti tamponamenti da parte di Ricci nel suo disperato tentativo di trovare un varco di fuga;

 

- 4) Morucci stesso e Fiore dovevano sparare contro gli uomini nella 130 di Moro (Domenico Ricci, appunto, ed il maresciallo Oreste Leonardi);

 

- 5) ad un certo punto, inizialmente non meglio definito, l’arma di Morucci (come d’altronde le altre, ad iniziare - per quanto mi interessa in questa sede – da quella di Fiore) si sarebbe inceppata.

 

Il momento del presunto inceppamento dell’arma di Morucci, rispetto allo svolgimento degli altri eventi, non viene indicato da Morucci nella prima parte del memoriale, quella più autenticamente memorialistica, bensì nella seconda parte, quella che mostra cioè maggiori indici di revisione: la precisazione di Morucci sul momento in cui Ricci avrebbe effettuato ripetuti tamponamenti, infatti, si trova in seguito, nella parte, di cui tra breve trascriverò il testo, caratterizzata da risposte a specifiche domande (nella fattispecie, dell’Avv. Fortuna).

In ogni caso, anche senza quella precisazione di cui dirò, si può ipotizzare che – sempre nella prospettiva del racconto di Morucci-  l’inceppamento dovrebbe essere avvenuto dopo una prima, probabilmente breve, raffica, inefficace oppure diretta solo contro Leonardi, ed è altresì elementare che, anche senza la sua successiva precisazione alla quale ho poc’anzi alluso, si sarebbe potuto dedurre già con il mero ausilio della parte puramente memorialistica del testo attribuito a Morucci, che l’inceppamento sia avvenuto con Ricci ancora attivo: è infatti in questo lasso temporale racchiuso tra il presunto tamponamento iniziale e l’inceppamento dell’arma che, per tentare di preservare la coerenza interna della narrazione di Morucci, si devono necessariamente collocare i presunti “ripetuti tamponamenti” compiuti da Ricci addosso alla 128 CD con a bordo Moretti.

 

D’altronde, come ho poc’anzi anticipato, che questo sia lo spazio temporale in cui vanno collocati i ripetuti tamponamenti da parte di Ricci, con manovre consecutive di inserimento di retromarcia e marcia in prima, è lo stesso Morucci ad affermarlo, nelle risposte alle domande dell’Avv. Fortuna, accluse come parte integrante del memoriale e che è pertanto necessario aggiungere ai brani del memoriale che abbiamo già riportato (Sergio Flamigni, op. cit. pag. 235-236; le sottolineature sono mie):

 

“Avv. Fortuna: Può dirci quale è stata la reazione della scorta al momento dell’attacco?

Morucci: Mentre cercavo di disinceppare il mio mitra, l’appuntato Ricci cercò disperatamente di guadagnare un varco al 130 verso via Stresa e più volte fece marcia indietro e in avanti per guadagnare questo terreno. Tutto ciò mentre era in corso la sparatoria…”

 

Si tratta, a mio parere, di una precisazione “opportuna” non tanto nell’ottica di un racconto veritiero dei fatti, quanto nell’ottica di colmare a posteriori l’indeterminatezza nella descrizione di questo specifico evento che affligge la prima parte, quella più propriamente memorialistica, del testimone. Insomma, come dire, “per i posteri, se lo precisiamo è meglio”: Ricci ha tentato di manovrare mentre Morucci aveva inceppato. Perché, per ricordare la deduzione di Maninchedda,  Morucci vuole tenere per assodato – e ben chiaro - che Ricci avrebbe avuto un tempo di vita (per meglio dire, di vitalità) sufficientemente lungo per tentare la fuga.

Ma se il diavolo sta nei dettagli e la coperta (specie quella della logica) è corta, la narrazione di Morucci, al cospetto di altri testimoni e delle perizie, impone di chiedersi: se invece quel tempo di vitalità di Ricci fu breve o brevissimo, e i ripetuti tamponamenti di conseguenza non vi furono, cosa implicherebbe, sulla ricostruzione degli eventi, il fatto che: a) Morucci abbia realmente inceppato; b) oppure che non abbia inceppato affatto?

Le domande conducono entrambe a loro modo a risposte inquietanti. La risposta alla prima è di tutta evidenza, visto che Morucci sarebbe tornato comunque a sparare ad auto già ferma, e la accennerò tra breve. La risposta alla seconda è, a mio parere, che  - se Morucci non inceppò – non si comprende perché egli abbia raccontato di averlo fatto: detto più direttamente, se il tempo di vitalità di Ricci fu breve o brevissimo: a)  o Morucci non ha inceppato, b) oppure si rientra comunque nella risposta alla prima delle due domande poste.

E cioè che a sparare su Ricci mentre Morucci disinceppava fu un altro;

 

- 6) per l’appunto, a seguito dell’inceppamento, Morucci sostiene di essersi portato al centro dell'incrocio per non intralciare gli altri, impiegando del tempo” per disinceppare l'arma; questo punto lascia aperti i problemi di individuare:

a) quanto sia stato “il tempo” impiegato da Morucci per disinceppare l’arma;

b) chi fossero “gli altri” di cui parla Morucci, sia rispetto al suo settore di attacco (la 130) che, di riflesso, rispetto tanto alla collocazione di costoro che alle ragioni per le quali Morucci sarebbe stato loro di intralcio se non si fosse spostato verso l’incrocio, posto che deve presumersi che gli “altri” (chi altri, se non Bonisoli e Gallinari?) stavano sparando più dietro, contro l’alfetta di scorta. Si può pensare quindi che il riferimento di Morucci sia in sostanza a Fiore, che stava agendo come lui contro la 130: tuttavia, la narrazione di Morucci, acquisita ormai come fatto giudiziario e storico anche in virtù delle plurime perizie balistiche esperite nel corso degli anni, ha consegnato come dato acquisito alla ricostruzione dell’attacco l’avvenuto inceppamento anche dell’arma di Fiore (M12), arma che, stando a quanto risulta dalle perizie, pare abbia sparato non più di tre colpi;

 

-  7) quindi, disinceppata l’arma, Morucci sostiene di essere ritornato “subito dopo” accanto alla 130 e di avere sparato altri colpi: ma l'auto era già ferma”.

Come ho anticipato poc’anzi, questo punto del testimone segna evidentemente il limite temporale massimo dei presunti “ripetuti tamponamenti”, perché prima di questo momento Domenico Ricci doveva essere ormai già gravemente ferito.

Mi pare di poter affermare che non ci sia alternativa a quest’ultima deduzione, perché altrimenti non si capirebbero né il senso della constatazione di Morucci, né perché, se Ricci fosse stato ancora attivo, non abbia insistito a tentare la fuga con ulteriori “tamponamenti”;

 

- 8) infine, ad azione quasi finita, Moretti sarebbe sceso dalla 128 CD per prelevare Moro assieme, tra l’altro, a Fiore.

 

Non intendo affrontare nel dettaglio la questione degli inceppamenti, nel senso che è un dato acquisito che in effetti nella zona tra la 130 e l’incrocio con Via Stresa vennero rinvenuti un caricatore con  22 cartucce, ed una cartuccia intera inesplosa.

Il punto è che comunque quel caricatore risultò compatibile con una gamma piuttosto ampia di armi automatiche del tipo di quelle che le perizie balistiche hanno ritenuto di dover individuare come quelle utilizzate in via Fani (e precisamente, compatibile con FNA, M12, lo stesso TZ45 che sarebbe stato utilizzato da Gallinari, o il MAB, arma quest’ultima neppure ritenuta utilizzata in Via Fani); quindi resta aperto il dubbio su quale o quali armi effettivamente incepparono, e in particolare a quale delle armi impiegate appartenesse il caricatore repertato.

Per maggiori riferimenti e dettagli, rinvio ad alcuni articoli scritti a più mani, pubblicati a suo tempo sul blog, opportunamente compendiati da Franco Martines, amministratore e supervisore del blog ed autore egli stesso di interessanti articoli oltre che coautore di vari altri, in un unico blocco:

http://www.sedicidimarzo.org/2017/07/la-balistica-di-via-fani-capitolo-1.html

 

Definito il perimetro temporale fissato da Morucci in ordine allo svolgimento dei fatti qui di interesse, in secondo luogo occorre tuttavia, come ho anticipato incidentalmente, anche tenere conto di alcune testimonianze di coloro che assistettero all’agguato.

 

Anche Morucci, infatti, può essere considerato, sotto l’aspetto della natura e della funzione del memoriale rispetto all’accertamento storico dei fatti, un testimone (per di più, ovviamente, interessato) e, per quanto quel testo abbia goduto alla fin fine della massima considerazione in sede processuale (nonché in parte della pubblicistica e della stessa memorialistica degli ex brigatisti, che in buona sostanza, e salve sfumature stratificatesi nel corso dei decenni, ad esso si sono conformati, ad iniziare dallo stesso Moretti), ciò non toglie che, in quanto “testimone”, quel testo, almeno per lo storico e il ricercatore, è un documento che si pone su un piano perfettamente paritario rispetto alle testimonianze rese da comuni cittadini che videro la scena.

Delle quali, pertanto, occorre dare conto.

 

Mi limito alle testimonianze che si rinvengono nel Vol. 30, CM-1, non solo per motivi di sintesi ma anche perché in quel volume si trovano le testimonianze rese nell’immediatezza dei fatti.

 

Anticipo che, visto l’ambito di questo studio, tralascerò le descrizioni testuali rese dai testimoni sulla tipologia delle auto, che è stata variamente indicata, peraltro anche con riferimento all’auto sulla quale sarebbe stato caricato Aldo Moro (questione ancora oggi non secondaria a dispetto della versione ufficiale acquisita, e sulla quale rinvio a questo articolo/tabella di rapida consultazione del blog “Sedicidimarzo”, precisamente ad opera di Franco Martines:

http://www.sedicidimarzo.org/2017/10/una-tabella-riordinabile-piacere-su.html), e terrò dunque per fermo che si stia parlando delle tre auto ovviamente coinvolte senza tema di smentita: la 128 CD, la 130 di Moro e l’alfetta della scorta.

 

Tralascerò volutamente anche la descrizione dell’abbigliamento degli assalitori, per un’analoga varietà di definizioni da parte dei testimoni che in questa sede non è rilevante.

 

Queste le testimonianze utili (eventuali grassetti o sottolineature sono miei):

 

- Antonio Caliò Marincola (pagg. 50 e segg.), abitante al civico 123 di via Fani, il 16 marzo stesso dichiarò alla Digos di essersi affacciato sul balcone che affacciava su Via Stresa dopo aver udito il rumore di una raffica di mitra (la raffica udita dal testimone tra gli spari iniziali, molto verosimilmente deve essere attribuita agli spari sull’alfetta, che, come abbiamo tratteggiato in uno degli articoli del collettivo disponibili al link che ho riportato sopra, dovette essere attaccata per prima e con l’auto ancora in fase di arrivo, come dimostrano i vetri infranti del finestrino dal lato di Iozzino, ben visibili in posizione arretrata rispetto alla posizione finale dell’auto e al corpo dello stesso agente di polizia).

 

Caliò Marincola vide uno dei due uomini armati davanti al lato sinistro della 130 rompere il finestrino dal lato di Ricci – forse dopo aver esploso alcuni colpi- e, sfondato il vetro, esplodere una raffica “contro il conducente”.

 

Vide l’altro uomo armato aprire la porta posteriore sinistra per farne scendere Moro.

Mentre (“In questo frangente…”) Moro veniva condotto in direzione di via Stresa, vide infine  l’uomo che aveva già sparato esplodere una ulteriore raffica dentro la 130.

 

Una settimana dopo, 23 marzo, Caliò Marincola (pag. 408) testimoniò anche davanti ai carabinieri della Compagnia Trionfale, dando una versione sostanzialmente conforme ma che per certi versi specificava ulteriormente, se possibile anticipandolo, il prelievo di Aldo Moro.

Egli dichiarò infatti, in questa seconda deposizione, che una delle due persone armate in divisa accanto alla 130 aveva aperto lo sportello posteriore sinistro, facendo scendere Moro, mentre l’altro infrangeva il vetro accanto all’autista sparando un paio di raffiche all’interno dell’auto.

 

- Il testimone Pietro Lalli (pag. 23 e segg.), collaboratore del distributore di Via Fani, parte bassa rispetto all’incrocio, richiamato dal alcuni spari singoli iniziali che egli attribuì a una pistola (o a più pistole), avvicinatosi verso l’incrocio risalendo via Fani, al centro della carreggiata, a circa 100 metri di distanza dalla scena, il 16 marzo, davanti ai carabinieri della Compagnia Trionfale, descrisse, in estrema sintesi l'azione di un giovane che con padronanza dell'uso dell'arma aveva esploso, con unica azione continua e senza cambio di caricatore, un paio di raffiche, una sulla Fiat 130, l'altra, dopo un leggero balzo all'indietro per allargare il raggio di sparo, contro l'alfetta di scorta.

 

Secondo questa testimonianza- a prescindere dal fatto che Lalli possa avere ben visto l'obiettivo della seconda raffica, o che viceversa egli si sia sbagliato in quanto anche la seconda raffica era   indirizzata nuovamente contro la 130 – l’elemento centrale mi sembra senza dubbio il compimento dell'azione senza alcun cambio di caricatore.

Cosa che riconduce direttamente alla “aggiunta”, che ho tratteggiato nel  paragrafo I, apportata da Moretti al memoriale Morucci;

 

- Giovanna Conti (pag. 52 e segg.), abitante in via Fani 123, dichiarò alla Digos il 16 marzo che, uditi prima alcuni colpi singoli, seguiti da “una serie di colpi in rapida successione”, si affacciò sul balcone che affacciava su via Stresa.

Testimoniò anche lei (come Caliò Marincola) di avere visto un giovane armato che con il calcio dell’arma aveva infranto il vetro del finestrino anteriore sinistro (cioè quello di Ricci), sparando quindi “ripetute raffiche contro l’uomo che era alla guida”.

 

“Quasi contestualmente” (anche su questo punto, quindi, in perfetta concordanza con la testimonianza di Caliò Marincola) aveva visto, in sintesi, il prelievo di Moro dalla 130.

 

- Giuseppe Samperi (pag. 54 e segg.), titolare del distributore presso il quale lavorava Pietro Lalli, il 16 marzo dichiarò alla Digos  che mentre era intento a servire un’autovettura, aveva udito degli spari provenienti dall’incrocio.

Si era portato allora nei pressi, vedendo un’auto blu “che camminava a strappi”. Questa circostanza, vale la pena rilevarlo subito, è molto importante, perché a chiunque abbia una normale esperienza di guida quel movimento suggerisce[AG1]  l’idea di un autista che abbia frenato repentinamente lasciando, nell’azione, la frizione (o perdendone il controllo), ma non di certo l’impressione di un movimento di guida volontario (nessuno, specialmente in pochi metri di spazio, guida “a strappi” di norma, ammesso e non concesso che ciò sia possibile a diretto contatto con l’auto che precede).

Samperi, altro particolare assai importante, descrisse un uomo e una donna – diversi da chi stava sparando che gli intimarono di allontanarsi.

Aggiunse che altri due uomini stavano sparando contro la 130.

Samperi disse di aver cercato di temporeggiare nonostante l’intimazione ad allontanarsi ma, non avendolo fatto, l’uomo e la donna gli urlarono di nuovo di allontanarsi; “nello stesso istante”, vide i due che sparavano trarre con forza un uomo dalla 130 con due borse, mentre l’altro uomo, quello che gli aveva intimato di allontanarsi, gridava “dai forza, prendete la macchina.

 

- Cristina Damiani, abitante in via Fani 94 (pag. 419 e segg.), dichiarò che appena uscita di casa, una volta in strada, volgendosi in direzione di via Trionfale, udì alle sue spalle degli spari, precisando poi, per quanto rileva ai fini di questo studio, che “quasi contemporaneamente al primo colpo di arma da fuoco isolato” aveva “udito uno stridio di freni ed il rumore di un leggero tamponamento”.

 

Le fotografie dei luoghi e delle vetture, in particolare del frontalino dell’alfetta e della parte posteriore della 130, dimostrano senza ombra di dubbio che un tamponamento definibile come tale vi fu, ma appunto tra la 130 e l’alfetta di scorta che la seguiva, quasi sicuramente a seguito del ferimento immediato dell’autista dell’alfetta, Giulio Rivera, che dovette lasciare i comandi dell’auto.

 

Le altre testimonianze disponibili non sono utili agli specifici fini di questa disamina, perché non recano elementi in ordine agli spari contro la 130.

 

Queste testimonianze, di fatto conformi tra loro salve inevitabili sfumature, già evidenziano alcuni elementi critici del memoriale di Morucci.

 

Li enumero sinteticamente:

 

1) nessuno descrive movimenti della 130 quali i ripetuti tamponamenti descritti da Morucci (né, con narrazione più generica e sfumata, un qualche tentativo di Ricci di trovare una via di fuga quale riportato da Moretti);

 

2) nessuno descrive l’allontanamento di uno dei due che sparavano sulla 130 in direzione di via Stresa, per poi ritornare accanto all’auto;

3) tutti descrivono il prelevamento di Moro da almeno uno dei due che sparavano; Samperi sostiene che il prelevamento sarebbe stato effettuato da parte di entrambi costoro, aggiungendo un terzo uomo al centro dell’incrocio insieme alla donna (Balzerani), esattamente in conformità al piano originario brigatista descritto sia da Morucci che da Moretti;

4) se, in sostanza, secondo Morucci Aldo Moro viene prelevato quando l’azione era prossima al termine, tutti i testimoni descrivono invece, di fatto, il prelievo di Moro ancora in piena fase di sparo contro la 130.  Se si immagina lo stretto raggio di tiro dentro l’abitacolo una volta rotto il finestrino di Ricci, e quindi il ridottissimo rischio di colpire direttamente il proprio compagno o Moro stesso, estrarre Moro dall’auto in quella fase – in pratica, coincidente con il blocco definitivo delle auto, o poco dopo -  a mio parere risponde perfettamente alla logica di azzerare le possibilità che egli rimanesse colpito, finanche accidentalmente dall’imprevedibile rimbalzo di proiettili.

Obiettivo unico ed assoluto dell’azione era il sequestro di Moro, non la sua uccisione nell’agguato. E questo aspetto è e deve essere la cartina tornasole per analizzare l’azione, e le parole di Morucci.

L’osservazione sembra banale. Ma non lo è, se si considera che la Fiat 130 di Moro, a differenza dell’alfetta di scorta, non presenta alcun impatto di proiettili sul lato sinistro della carrozzeria: segno che – dal punto di vista dei sequestratori- si progettò correttamente di sparare a distanza ravvicinata o ravvicinatissima, direttamente dentro l’auto, e che ciò dovette comportare per coerenza l’esigenza di prevenire il ferimento o la morte di Moro anche per proiettili di rimbalzo.

 

Il quadro delineato dalle testimonianze poc’anzi ricordate e la loro comparazione con il testimone costituito dal memoriale Morucci conducono alle domande topiche, e cioè: Domenico Ricci quali eventuali “ripetuti tamponamenti” o analoghe manovre può avere effettuato? Fino a quale momento?

 

Dobbiamo tenere presente che tutta l’azione, compresa la fuga degli assalitori, occupa a dir tanto tre minuti.

 

Il brogliaccio delle chiamate “sul canale 13-Distretti e Commissariati”, registra infatti che alle 9.03 vengono segnalati spari in via Fani, e già due minuti dopo, alle 9.05, viene richiesto dalla volante del commissariato Montemario, accorsa sul luogo, l’invio di ambulanze (vol. 29, CM-1, pag. 1001).

 

L’azione descritta da Morucci (e Moretti) si gioca pertanto sul filo di qualche decina di secondi, tra il blocco delle auto, i primi spari, il presunto inceppamento di Morucci, i “ripetuti tamponamenti” da parte di Ricci, il disinceppamento dell’arma per il quale egli dice di avere impiegato “del tempo”, ed infine il ritorno di Morucci accanto alla 130 per una nuova serie di spari, allorchè tuttavia “l’auto era già ferma”.

 

L’interrogativo centrale nella narrazione del memoriale è quindi: quanto  può avere impiegato Morucci per il presunto disinceppamento dell’arma?

Perché è proprio tra l’inceppamento dell’arma e il ritorno di Morucci a sparare contro la 130, ormai ferma, che Domenico Ricci viene ucciso, o gravemente ferito.

 

Il tempo del disinceppamento dell’arma è una circostanza che nessuno ha mai accertato, né si può accertare con sicurezza.

Sappiamo solo, dalle parole del dissociato, che per disinceppare egli avrebbe impiegato “del tempo”: un sintagma che cioè lascia trasparire, pur nella sua indeterminatezza, il decorso di un lasso non strettamente brevissimo. Tanto è vero che al suo ritorno accanto alla 130 per sparare, “l’auto era già ferma”.

 

Le fonti disponibili in rete non recano un’indicazione di una stima dei tempi necessari per disinceppare un’arma, anche perché nella descrizione delle tecniche di disinceppamento le fonti distinguono, comprensibilmente, tra perizia di chi usa l’arma, tipologie di inceppamento, e situazioni di tranquillità o, all’opposto, di estremo stress; condizione quest’ultima nella quale è intuibile si sia trovato Morucci.

Noi non sappiamo, nessuno sa, la presunta causa dell’inceppamento dell’arma di Morucci (doppio incameramento di cartucce, difettosa espulsione del bossolo, ecc.), né quindi è conoscibile il grado di difficoltà della rimozione dell’inceppamento nel caso di specie.

Possiamo solo tenere per fermo con verosimile alto grado di attendibilità la condizione di stress in cui Morucci si sia trovato.

Se pertanto Morucci afferma di avere impiegato “del tempo” per disinceppare e che al suo ritorno all’azione l’auto “era già ferma”, si può fondatamente ipotizzare che il disinceppamento sia proseguito per una gran parte dell’azione di fuoco contro la 130 in via Fani.

 

Da quanto appena evidenziato, emerge la domanda centrale di queste note, domanda alla quale il memoriale (non sappiamo se Morucci e i suoi agiografi se ne siano accorti) lascia per la verità ampio spazio per affacciarsi:

chi ha sparato con esito mortale o gravemente lesivo a Domenico Ricci, mentre Morucci stava disinceppando l’arma, se il suo compagno di attacco Raffaele Fiore con il suo M12 ha esploso solo tre proiettili?

 

E’ giunto quindi il momento di tentare di individuare concretamente il tempo del tentativo di Ricci di trovare un varco di fuga con “ripetuti tamponamenti”.

 

Morucci stesso individua chiaramente, come si è visto, il momento di questi presunti “ripetuti tamponamenti”, nel frangente temporale durante il quale egli aveva inceppato, preoccupandosi di aggiungere  – lo si è visto sopra, par. I) - che Moretti, contrariamente al piano originario, sarebbe rimasto nella 128 CD “quasi sino alla fine della sparatoria sulla stessa auto che si è spostata in avanti a causa dei ripetuti tamponamenti da parte dell’autista del 130…”.

 

Possiamo pertanto pacificamente dedurre che la prima, breve raffica sparata da Morucci- sempre stando alla sua narrazione- fu esplosa contro Oreste Leonardi, o comunque senza colpire Ricci.

 

Se pensiamo all’evidente impossibilità che una persona alla guida di un’auto sotto il fuoco diretto di un’arma automatica a raffica, a pochi centimetri da lui, contro il passeggero al suo fianco, riesca ad avere la freddezza di manovrare l’auto  - per di più bloccata- in molteplici manovre di retromarcia e inserimento della prima, resta sul campo quale unica possibilità quella che Ricci abbia effettivamente tentato la manovra descritta durante l’inceppamento dell’arma di Morucci, ma il tutto per pochi secondi, visto che al ritorno di Morucci “l’auto era già ferma”.

 

Occorre allora analizzare le ferite di Ricci, ed in particolare una di esse, sino ad oggi – se è possibile usare un’espressione del genere in un fatto tanto drammatico- finita nel dimenticatoio.

 

Si tratta della ferita n. 10 (secondo l’ordine descrittivo della perizia, ultima delle ferite descritte sempre nell’ordine meramente descrittivo adottato dall’equipe medica, descritta al punto 15 della perizia stessa), inferta a Domenico Ricci.

 

Ne riporto testualmente la descrizione, che si trova in Vol. 44, CM-1, pagg. 815 e segg., con fotografia illustrativa della ferita stessa n. 14 a pag. 817 (le sottolineature e grassetti sono miei):

 

“15. Sulla faccia mediale del gomito sinistro è presente soluzione di continuo a semicanale, a decorso pressochè trasversale all’asse maggiore dell’arto, lunga cm.4 e della larghezza massima di cm. 1,3, la quale interessa gli strati superficiali fino al piano aponeurotico ed ha i margini contusi ed escoriati; detta lesione si continua idealmente con una escoriazione a fascia che si estende per cm. 4 sulla fascia mediale del braccio sinistro secondo l’asse maggiore dello stesso ed ha una larghezza massima di 1 cm; la cute circostante del complesso lesivo non mostra effetti secondari della carica di lancio (Vds. Fig. 14)”.

 

Domenico Ricci fu dunque colpito al braccio sinistro in una postura compatibile unicamente con un suo movimento attivo verso colui (o coloro) che stava sparando, con il braccio sinistro sollevato mentre tentava istintivamente di difendersi.

 

Sul punto, le conclusioni della perizia medico-legale sono lampanti (vol. cit., pag. 833):

 

“…le altre (ndr: ferite) localizzate (ndr: si riferisce anche ad altra ferita di striscio dorsale, sulla parte posteriore del torace, sotto la spalla) nell’arto superiore sinistro…possono essere ricondotte all’azione di un unico proiettile per particolare atteggiamento assunto dalla vittima nel corso del ferimento (sollevazione in abduzione dell’arto flesso a livello del gomito come in atteggiamento di difesa)…”

 

Questa ferita, da sempre dimenticata (tanto è vero che ancora oggi, a mio parere errando, si afferma che Ricci fu colpito da otto, e non invece da nove o dieci proiettili), forse perché chiaramente di per sé non letale, assume invece un ruolo fondamentale nella ricostruzione della fase dell’agguato oggetto di disamina.

 

E’ infatti evidente che in virtù del movimento attivo ed istintivo di Ricci con il braccio sinistro, che implica la piena vitalità dell’autista di Moro, questa ferita fu molto probabilmente la prima in assoluto, o comunque tra le primissime, subite da Ricci.

 

Le foto ampiamente disponibili in rete mostrano, con riprese anche perfettamente anteriori alla 130, che il corpo di Ricci era parzialmente eretto ma inclinato comunque verso la propria destra, cioè vero Leonardi.

 

La posizione finale della vittima lascia immaginare, come si intuisce ampiamente dalla perizia medico-legale, un movimento istintivo al momento dei primi spari verso di lui che lo abbia portato non solo ad alzare il braccio sinistro, ma anche a voltare il busto in direzione opposta a quella di provenienza degli spari (cioè, verso destra).

Questo significa che le ferite inferte a Ricci devono essere state causate da una contestuale sequenza di sparo, anche se eventualmente suddivisa in due o più raffiche parziali con spostamento – di pochi centimetri - dell’assassino lungo la portiera dell’auto rispetto all’obiettivo.

 

Ricci, insomma, non pare avere subito ferite in due autonome sequenze di sparo separate da un lasso temporale lungo nell’ordine di decine di secondi o addirittura di oltre un minuto (il tempo del disinceppamento).

 

Come ha evidenziato Maninchedda, non si lascia attivo l’autista dell’auto dell’obiettivo (Moro), e questo concetto è proprio quanto, mio parere,  ci restituiscono la perizia medico legale e la posizione della vittima dentro l’auto così come fotografata dopo l’agguato.

 

Unisco di seguito una mia tabella sintetica della descrizione peritale delle ferite di entrata subite da Ricci: le inclinazioni alto-basso e basso-alto, devono essere riferite tanto alla posizione dell’omicida, quanto con quasi certa evidenza alla inclinazione del busto, e segnatamente della testa, assunta da Ricci, verso la propria destra, dopo le prime ferite invalidanti:

 

FERITA RICCI

DIREZ. VERTICALE

DIREZ. ORIZZONTALE

1) 5 CM DIETRO ORECCHIO

             X

                X   

2) 2 CM SOTTO ORECCHIO

             X

                X   

3) MANDIBOLA SX

             X

                X   

4) ZIGOMO SX

             X

                X

5) BASE COLLO SX

             X

                X

6) ESCOR. SUB SCAPOLA SX

             X

                X

7) ESCOR. SOPRA ASC. SX

             X

                X

8) APICE SPALLA SX

             X

                X

9) SUPERF. SPALLA SX

             X

                X

10) GOMITO-BRACCIO

           N.D

             N.D

LEGENDA:

DIREZIONE VERTICALE:

            X= LIEVEMENTE ALTO BASSO

            X= (PIU' MARCATAMENTE) ALTO-BASSO

            X=NON RILEVATA, APPARE PARALLELA LINEA SPALLE

             X=LIEVEMENTE BASSO-ALTO

DIREZIONE ORIZZONTALE:

            X=LIEVEMENTE DIETRO-AVANTI

            X=SOSTANZIALMENTE LINEARE SINISTRA-DESTRA

 

 

 

Se Morucci ha inceppato, quanto tempo può essere trascorso prima che qualcun altro sia opportunamente (nell’ottica omicida) intervenuto a mettere fuori combattimento Ricci, come è logico che sia avvenuto?

 

E chi è intervenuto?

 

III) L’OMICIDIO DI RICCI. IL PUNTO CRITICO DEL MEMORIALE MORUCCI.

 

In conclusione, i risultati delle altre testimonianze (imparziali) e della perizia medico-legale sul corpo di Domenico Ricci,  e la stessa precisazione della tempistica dell’azione resa da Mario Moretti, del resto ricavabile dalla scansione delle comunicazioni sui canali della polizia, che ho ricordato, mettono gravemente in crisi il racconto di Valerio Morucci.

 

Nessun testimone narra di una interruzione prolungata della fase di sparo sulla 130, come quella che si arguisce dal racconto di Morucci in funzione “del tempo” che egli avrebbe impiegato per disinceppare la sua arma.

 

Tutti i testimoni descrivono il prelievo di Moro dalla 130 in concomitanza con il perdurare dell’azione di fuoco, e questo evento, come ho spiegato, a mio parere trova conforto nell’esigenza logica di preservare l’obiettivo anche da ferite da rimbalzo di proiettili dentro l’auto.

 

Nessun testimone racconta di “ripetuti tamponamenti” con marcia indietro e avanti, come narrato da Morucci.

 

Le foto della 130 e della 128 CD, con buona pace di Morucci e di varia pubblicistica (per tutti, V. Satta, op. citata) smentiscono un pesante tamponamento, o ripetuti impatti, tra la parte anteriore della 130 e la parte posteriore della 128 CD.

 

La ferita al braccio sinistro colse Domenico Ricci ancora in situazione di piena vitalità, in posizione di autodifesa e di probabile torsione del busto verso destra, con contestuale continuazione degli spari mortali, all’esito dei quali Ricci assunse la posizione visibile in varie foto anche frontali della scena, rinvenibili in rete, e alle quali rinviamo come detto all’inizio.

Ma se anche quella ferita fosse stata inferta in una prima sequenza breve di sparo sostanzialmente inefficace nei confronti di Ricci, questa eventualità non risolve il problema del tempo di permanenza in vita di Ricci, che non potette essere lasciato attivo più di pochi secondi; con quel che ne segue, già evidenziato, sul ruolo passivo di Morucci nel corso del suo disinceppamento dell’arma, durante il quale, come si è evidenziato, Ricci fu reso inattivo.

 

I ripetuti tamponamenti affermati da Morucci avrebbero richiesto un tempo disponibile che  - purtroppo - non fu concesso a Ricci: durante gli spari contro Leonardi, a pochi centimetri da lui, Ricci non avrebbe certo potuto manovrare, ed è inoltre verosimile che i due carabinieri siano stati colpiti quasi contestualmente; alcuni proiettili infatti potrebbero anche aver colpito Leonardi dopo essere fuoriusciti dal lato destro del busto e/o della testa  di Ricci (Domenico Ricci non ha alcun proiettile trattenuto nel corpo).

 

Se Morucci ha realmente inceppato, qualcun altro, ad oggi ignoto, ha ucciso Ricci mentre lui disinceppava, visto che egli stesso sostiene di essere tornato accanto alla 130 quando l’auto era già ferma.

 

Ma dal momento in cui Ricci, in istintivo gesto di autodifesa, subì la ferita al braccio sinistro, probabilmente torcendo il busto verso destra (ferita di striscio sulla parte sinistra posteriore del torace), al massimo pochi secondi dopo quella ferita, per lui non ci fu più scampo; la posizione finale del corpo descrive una morte occorsagli in una rapida fase di sparo, che lo colse già volto verso destra, e non da parte di Morucci, se costui aveva dovuto impiegare “del tempo” per disinceppare l’arma.

 

Se Morucci, invece,  non ha inceppato, occorre capire perché abbia detto di averlo fatto: in entrambi i casi, la risposta potrebbe essere inquietante, e cioè che Valerio Morucci sparò ben poco in Via Fani. E che questo, forse, non si può dire.

 

Sul punto, vale la pena di ricordare che le nuove perizie balistiche sui bossoli (ripeto: sui bossoli) repertati in Via Fani, come abbiamo evidenziato anche nel primo degli articoli sulla balistica realizzati dal nostro gruppo (rinvio per brevità al link prima riprodotto), hanno concluso, nel 2015, che non v’è certezza che i 22 bossoli prima di allora attribuiti all’arma di Morucci (convenzionalmente definita FNA-1) siano stati esplosi da quell’arma che, si badi bene, è in reperto in quanto a suo tempo sequestrata e per la quale quindi è stata possibile l’effettuazione di specifici test di sparo; quella nuova perizia, in base alle nuove e più recenti classi internazionali di accertamento balistico, ha infatti concluso per l’inserimento di qui 22 bossoli nella classe definita “C”, caratterizzante, cioè, per l’appunto, un giudizio di “non conclusività”.

 

Quanto all’altra ovviamente fondamentale categoria di reperti balistici, cioè i proiettili o frammenti di proiettili idonei all’esame peritale, ebbene, sembrerà incredibile in un Paese che si assume “moderno”, ma tutti i proiettili e frammenti riferibili agli spari contro la Fiat 130, tra i quali, tra gli altri, quelli estratti dal corpo di Oreste Leonardi durante l’autopsia, sono scomparsi.

 

Sul punto, rinviamo all’eloquente “verbale di informazioni sommarie” rese dal perito Pietro Benedetti il 12 marzo 2015 ad ufficiali della Digos nel corso delle acquisizioni dei reperti balistici propedeutiche alla relazione della Polizia Scientifica di Roma sulla dinamica dell’agguato di Via Fani  (illustrata poi alla CM-2 nel successivo mese di giugno), verbale disponibile a questo link (in particolare, pag. 4 del pdf):  https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/2018-02-22/0066_016.pdf

 

Si trattava – la declinazione al passato è d’obbligo, date le circostanze evidenziate- precisamente, proprio dei proiettili (e frammenti) che la perizia Salza-Benedetti del 1994 aveva ritenuto di attribuire all’arma, alla presunta unica arma (il FNA-1) che sarebbe stata utilizzata da Morucci.

 

Quindi non è stato possibile per la polizia scientifica, nel 2015, compiere alcun  esame balistico su quei proiettili con i mezzi tecnologici più moderni; in altre parole, non è stato possibile confermare o meno i risultati delle risalenti perizie – l’ultima delle quali è quella poc’anzi citata del 1994 – in ordine alla  provenienza o meno di tutti, parte o nessuno di quei proiettili dall’arma FNA-1 in sequestro.

 

E forse è lecito temere, date le premesse di cui sopra, che nessun esame, a quanto pare, sarà ormai più possibile, a meno che i proiettili che colpirono Ricci, Leonardi e parti dell’auto, non spuntino di nuovo fuori, da qualche parte e in qualche tempo.

 

Resta la conclusione, cui mi sento di giungere, che ancora molto deve essere chiarito sull’azione di fuoco di Via Fani e su chi vi prese parte.

 

Conto di continuare l’analisi del testimone Morucci, il “memoriale smemorato”, anche per molti altri aspetti della vicenda , come da lui narrata, auspicando anche che in parallelo ulteriori approfondimenti di natura filologica si spingano ad indagare oltre questo testo, che resta in ogni caso un “testimone” fondamentale nella storia italiana della seconda metà del ‘900.


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