"RASSICURATEMI
INCIDENTE FERROVIARIO BOLOGNA"
BREVE NOTA SUL "CANALE DI RITORNO"
TRA LA PRIGIONE DI ALDO MORO E L'ESTERNO
IL "TELEGRAMMA" DETTATO DA MORO |
e l'esterno, in particolare con gli ambienti dei suoi familiari e dei suoi collaboratori, costituisce come noto uno dei più controversi ed importanti aspetti della complessiva vicenda del sequestro e dell'omicidio dell'uomo politico.
Un tassello fondamentale, nell'apparizione sulla scena della complessiva ricostruzione e rappresentazione di questa grande tragedia italiana dello specifico e fondamentale riquadro di quello che è stato definito in più sedi “canale di ritorno”, fu la pubblicazione da parte del giornalista del settimanale “L'Espresso” Mario Scialoja, sul numero del settimanale del 17 febbraio 1980, dell'articolo intitolato “Cinque segreti su Moro e dintorni”.
Nell'articolo, in sintesi, il giornalista – dimostratosi notoriamente molto attento al sequestro Moro sia durante che dopo la tragica conclusione della vicenda -
scrisse, tra le altre cose, che durante i cinquantacinque giorni del sequestro una delle figlie dell'uomo politico - indicata in sede dibattimentale dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti in Agnese Moro (CM-1, vol 78, pag. 35, e pagg. 81-82)- si era recata a Bologna per contattare un magistrato onde metterlo in contatto con i sequestratori del padre al fine di fargli assumere la “difesa” dell'ostaggio nel “processo popolare” in corso; scrisse, inoltre, Scialoja, che Moro era venuto in possesso di certi, non meglio precisati, documenti consegnati dall'esterno della prigione e finiti dunque nelle mani dei suoi sequestratori. La circostanza, continuava l'autore, aveva fatto arrabbiare molto il ministro Cossiga, allorché egli venne a conoscenza della cosa.Lo scopo di questa analisi, va
premesso, non è quello di affrontare il nodo, comunque fondamentale, della
natura e del contenuto dei documenti che potrebbero avere raggiunto nella
“prigione del popolo” l'illustre ostaggio (e i suoi sequestratori) , questione
per la quale rinviamo per brevità al fondamentale testo organico di Miguel
Gotor "Aldo Moro- Lettere dalla prigionia", ed. Einaudi, 2008, II ed.
2018, nonché, per esulare dalla pubblicistica tradizionalmente più diffusa e
conosciuta, al saggio liberamente fruibile in rete di Giuseppe Michelangelo
D'Urso, dal titolo “Ancora sul canale di ritorno - Nomi, tempi e luoghi per
consegnare L'Agendina del Presidente” , disponibile al link:
https://www.academia.edu/6535908/Ancora_sul_canale_di_ritorno_Nomi_tempi_e_luoghi_per_Lagendina_del_Presidente (di quest'ultimo saggio, per quanto
importante nel cogliere il possibile ruolo rivestito dalla “rubrichetta verde” alla quale Moro stesso accennò in una delle
prime lettere alla moglie ufficialmente non recapitata, non ci sentiamo
tuttavia di condividere la portata riduttiva della qualità e quantità di documenti
che, secondo la tesi dell'Autore, avrebbero potuto raggiungere dall'esterno la
prigione di Moro; ma non è questa, come si è premesso, la sede per discutere
nel merito il saggio segnalato nè la questione generale della natura dei
documenti che potrebbero avere raggiunto Moro nella prigione).
In questa sede ci limitiamo
piuttosto ad affrontare la questione portante, ovvero sia, prima di tutto, se
un “canale di ritorno”, nei termini anzi detti, fu attivato, durante il sequestro.
L'esistenza di questo canale
comunicativo da e verso la prigione di Moro, sebbene ipotizzata, supposta,
sostenuta da più parti (essenzialmente in base a svariati riferimenti contenuti
nell'epistolario del leader democristiano che ne lasciano intravvedere
l'attivazione, in particolar modo dopo il secondo e più ampio ritrovamento
delle copie dei suoi scritti autografi avvenuto nell'ex covo brigatista di Via
Montenevoso a Milano nell'ottobre 1990, che portò alla luce anche lettere fino
ad allora inedite rispetto a quelle conosciute a seguito del primo ritrovamento
dei soli dattiloscritti di dodici anni prima), non ha ad oggi ancora conseguito
il crisma della certezza, in mancanza di quello che probabilmente costituirebbe
l'unico riscontro probatorio pieno: cioè dire una testimonianza in senso affermativo da parte dei depositari della
conoscenza di questi ipotizzati scambi informativi, ovvero sia gli ex brigatisti, i familiari e gli ex collaboratori del
Presidente della DC e chi, comunque - incluso
don Antonello Mennini (oggi assurto alla carica di Nunzio Apostolico
Pontificio) - nei giorni del sequestro fece da tramite per il recapito delle
lettere e dei messaggi ufficialmente noti; i quali, tutti, hanno via via
fornito versioni agnostiche, elusive, riduttive, o decisamente negatrici
dell'esistenza di questo canale comunicativo.
Eppure, l'articolo di Mario
Scialoja poc'anzi ricordato, per quanto limitato agli specifici aspetti
dell'ipotizzato canale di ritorno da esso trattati, costituì a suo modo, in
proposito, lo scoperchiamento di un vero e proprio vaso di Pandora: in merito
al suo contenuto e in varie sedi, infatti, più di un protagonista dell'epoca
venne interrogato dalle autorità competenti.
Nella seduta del 13 gennaio 1981
davanti alla prima Commissione Parlamentare di Inchiesta sul sequestro e
l'omicidio di Aldo Moro (d'ora in vanti, CM-1), il figlio dell'uomo politico,
Giovanni Moro, rispondendo a una specifica domanda del Sen. Sergio Flamigni del
PCI che chiamava in causa proprio l'articolo di Mario Scialoja, negava in sostanza l'esistenza di un canale
di ritorno (CM-1, vol, 7, in particolare pag. 95 del pdf, pag. 89 del volume), lamentando anzi che un'ipotesi del genere
finisse strumentalmente con il costituire la famiglia dell'uomo politico in una
sorta di caprio espiatorio nell'ambito della vicenda dei supposti canali
occulti istituitisi, durante il sequestro, tra i sequestratori e l'esterno
della prigione.
In sede di dibattimento
processuale, all'udienza dell'11 ottobre 1982 (CM-1, vol. 78, pagg. 437 e
segg.) , l'ex ministro Cossiga dichiarò, sempre in merito alle notizie
riportate nell'articolo di Scialoja, con una mezza negazione ed una mezza
ammissione - rivelatasi conforme, con il senno del poi, ad una sua “cifra
comunicativa” che ne ha caratterizzato le esternazioni - di non essere stato a
conoscenza di “furto” di documenti nello studio privato di Moro in Via Savoia,
ma di avere attivato i servizi informativi in ordine alla qualità di conoscenze
dell'ostaggio in materia di sicurezza atlantica e interna che avrebbero potuto
essere rivelate ai suoi sequestratori, ricevendo una risposta tranquillizzante;
precisando tuttavia, a ulteriore richiesta del Presidente della Corte d'Assise
di Roma, che la risposta dei servizi di informazione fu “negativa” in
ordine a segreti dell'alleanza atlantica o politico-militari, “ma non in
relazione ad un furto di documenti”.
L'ex Questore di Roma all'epoca
del sequestro, Emanuele De Francesco, sempre in sede dibattimentale all'udienza
del giorno successivo a quella di Cossiga, interrogato anch'egli in ordine
all'articolo di Scialoja, sullo specifico punto del prelevamento di documenti
dallo studio di Moro in Via Savoia e consegnati ai sequestratori si limitò
sommariamente a rispondere riportando un proprio personale giudizio
di non attendibilità (CM-1, vol. 78, pagg. 536-537): versione, quest'ultima,
che ovviamente implicava l'impossibilità di negare con certezza che quello
scambio fosse avvenuto e si poneva,
piuttosto, oggettivamente, nella linea seguita appena il giorno prima dal suo ex
superiore gerarchico.
All'udienza dibattimentale del 4
novembre 1982, Mario Scialoja rivelava infine la fonte delle informazioni
riportate nel suo articolo, indicando nel professor Stefano Silvestri,
dirigente dello IAI (Istituto Affari Internazionali), membro prescelto da
Cossiga, con altri, per il Comitato
ristretto di esperti da lui creato per la gestione della crisi durante il
sequestro, il latore di quelle notizie (CM-1, vol 79, pagg. 403 e segg.).
Nel corso della deposizione, in
sintesi Scialoja confermò quanto scritto nell'articolo, ricordando che fino ad
allora non era stato smentito e che anzi implicitamente il Presidente del
Consiglio Andreotti (della cui
deposizione, sopra ricordata, per inciso egli doveva essere ben a conoscenza)
poco tempo primo aveva confermato quanto meno la parte riguardante il contatto
tra la figlia di Moro, Agnese, ed un magistrato di Bologna.
In sostanza, dalla deposizione
del giornalista uscì confermata l'ira di Cossiga alla notizia della fuga di
documenti dai “cassetti” di Moro verso i suoi sequestratori.
Messo a confronto con Scialoja,
all'udienza dell'8 novembre 1982 Stefano Silvestri, palesando un palpabile
imbarazzo (CM-1, vol. 79, pagg. 464 e segg), pensò di poter ridurre la portata
delle sue confidenze al giornalista qualificando lo stato d'animo di Cossiga in
termini di “irritazione” per la possibilità che documenti in mano di Moro
avessero preso la via della prigione dell'ostaggio; come se riqualificare la
vicenda in termini di irritazione, anziché di arrabbiatura od ira di cui aveva
scritto Scialoja, mutasse la sostanza della questione.
Questa premessa è utile per
rilevare, per quanto interessa in questa sede,
che le prese di posizione e le risposte fornite dalle persone che in
ruoli di rilievo furono investiti della questione, dall'autore dell'articolo, a
Silvestri, passando per Cossiga e Andreotti, poggiano necessariamente sul
presupposto inespresso che l'ipotesi che un "canale di ritorno" sia
esistito appare a dir poco fondata, se non proprio scontata.
Tuttavia, il problema
dell'esistenza di una via comunicativa bidirezionale tra l'esterno e l'interno
della triste cella dell'ostaggio va oltre, come si è già osservato, lo
specifico aspetto dell'effettiva consegna o meno di documenti dall'esterno
all'interno della prigione dell'uomo politico e del loro possibile contenuto,
affermata nell'articolo di Scialoja, ed assume anzi rilievo generale, come emerge
dall'esegesi complessiva di svariati indizi contenuti nell'epistolario di Aldo
Moro dal carcere del popolo, indizi sui quali qui si soprassiede, rinviando tra
tanti, per brevità, al testo di Miguel Gotor sopra ricordato.
Tra questi indizi, è' specifico
scopo di questo breve saggio, al fine di rispondere alla domanda fondamentale
se “canale di ritorno” vi fu, di evidenziare uno specifico scritto moroteo
dalla prigione che ci pare sia stato totalmente dimenticato in tutte le sedi
che si sono occupate di questo aspetto della ricerca, e che invece costituisce,
ad avviso di chi scrive, uno dei più forti segnali dell'esistenza del canale
comunicativo tra l'esterno e l'interno della prigione di Moro e viceversa.
Si tratta di un breve messaggio
alla famiglia (documento n. 37 del testo di Gotor citato) nel quale Moro affronta, come si vedrà, un tragico
episodio di cronaca, al quale rimanda indirettamente, tra l'altro, la parte dell'articolo
di Mario Scialoja prima esaminato nella quale si dava conto della presunta ricerca di contatti di uno dei figli
con un magistrato.
Si badi bene, l'evento cui si
riferisce Moro nello scritto di cui tra
poco si darà conto, esalta ancor più la bontà dell'articolo dell'informatissimo
giornalista – al punto da spingere lo studioso a domandarsi incidentalmente una
volta di più quale circuito informativo si attivò nella fattispecie nell'entourage
del cronista – perché nel 1980, data dell'articolo, il manoscritto moroteo in
questione era totalmente sconosciuto; esso sarebbe poi stato infatti ritrovato
in fotocopia solo dieci anni dopo, nell'ottobre del 1990, in occasione del
secondo clamoroso ritrovamento della versione più ampia, sia pure in fotocopia,
dei manoscritti di Moro.
Bisogna dunque ritornare per un
momento all'articolo di Scialoja, e alle conseguenti varie dichiarazioni di
Andreotti, Cossiga ed Agnese Moro.
La signora Agnese Moro, audita
dalla CM-1 il 16 dicembre 1980 (dunque pochi mesi dopo la pubblicazione
dell'articolo di Scialoja) , alla specifica domanda del senatore Flamigni sul
fatto se fosse vero quanto scritto da “L'Espresso”, e cioè che fosse andata a
Bologna durante il sequestro per convincere un magistrato ad assumere il ruolo
di “difensore” del padre nel “processo popolare” nei suoi confronti, rispose
perentoriamente: “No, è assolutamente falso”. (CM-1, vol 7, pag. 22).
Giova ripetere che, a prescindere
dal fatto che la signora Agnese Moro possa benissimo avere affermato la verità
di fronte all'Organismo Parlamentare, alla data della sua audizione era del
tutto ignoto il manoscritto del padre in questione (scoperto, come detto, solo
dieci anni dopo), per cui non sorprende che la questione sollevata in quei
termini dal senatore Flamigni si sia esaurita, in quella sede, con la
perentoria risposta della figlia di Aldo Moro.
Giulio Andreotti (CM-1, vol 78,
pag. 35, e pagg. 81-82, citate) , riferì in dibattimento di avere saputo da
Sereno Freato (uno dei principali collaboratori di Aldo Moro) che la figlia di
Moro, Agnese, aveva cercato il contatto con un magistrato, confermando con ciò
implicitamente il contenuto dell'articolo di Scialoja, che aveva parlato
espressamente di un magistrato di Bologna;
Nel corso dell'audizione
dibattimentale di Cossiga, sopra richiamata, venne confermato che la figlia
dell'on. Moro che si sarebbe recata a Bologna
era Agnese; emerse anche il nome del giudice bolognese contattato per
quell'incarico, il giudice Tardino (audizione Cossiga sopra citata, e
prolusione dell'avv. Tarsitano, vol 78, pagg. 472 e seguenti).
In particolare l'Avv. Tarsitano
pose correttamente il quesito sul perché si attivò Agnese Moro: cosa sapeva e
come lo aveva saputo?
Qual è, dunque, lo scritto di Moro di cui stiamo parlando, emerso dall'ex covo brigatista di Milano solamente nell'ottobre 1990?
E', per l'appunto, questo anomalo
messaggio di Moro alla famiglia, anomalo nella sostanza e soprattutto nella
forma; uno scritto composto come un irreale telegramma dettato idealmente
dall'ostaggio quasi che egli fosse comodamente seduto alla sua scrivania di
uomo politico tra i più potenti della
Repubblica, e invece scritto con grafia disallineata nella tragica posizione di
prigioniero di ignoti sequestratori che, con lui, tenevano in ostaggio la
Repubblica stessa ; questa è la copia del manoscritto presente nei documenti
della Commissione Stragi (dal sito dell'On. Gero Grassi, documentazione della
Commissione Stragi):
http://www.gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD2/X%20LEG%20DOC%20XXIII%20N%2026.PDF:
Non c'è dubbio: il fatto tragico di cronaca cui Moro si riferisce in questo scritto del tutto eccezionale, intesa l'espressione nel senso letterale del termine, in virtù della forma, della sostanza, e della stessa intestazione alla “stampa”, con tanto di indicazione del numero di telefono privato di casa Moro, è la sciagura ferroviaria occorsa il 15 aprile 1978 nei pressi di Bologna (dall'archivio liberamente disponibile in rete dell'ex quotidiano del PCI, “L'Unità”, edizione del 16 aprile 1978), articolo al centro e a destra sotto il titolo di apertura:
https://archivio.unita.news/assets/derived/1978/04/16/issue_full.pdf:
Una contestualità che alla luce
della ricostruzione a posteriore dei fatti, scoperto lo scritto di Moro solo
nel 1990, partendo dall'articolo di Scialoja e dalle dichiarazioni in tempi non
sospetti di Andreotti, Cossiga e dell'Avv. Tarsitano, consente di ipotizzare
fondatamente che Moro fosse a conoscenza del viaggio verso Bologna intrapreso
da un suo familiare, e non è illogico ipotizzare il corollario che gli fossero anche note le
ragioni di quel viaggio.
Così come fu viceversa ben
intuito dall'Avv. Tarsitano, nel passaggio dibattimentale sopra riprodotto, il
fatto che anche ad Agnese Moro dovette essere ben noto lo svolgimento in corso
del processo popolare nei confronti del padre, non solo, ma anche delle
modalità dello svolgimento e della proposta, da parte di qualcuno dei
“contendenti”, di fare ricorso a un qualche magistrato o altro professionista
del diritto per assumere le vesti formali di difensore di Aldo Moro in quello
sbilanciato ed inquisitorio contenzioso.
Agnese Moro aveva già deposto in
dibattimento nella precedente udienza del 20 luglio (1982), ma in
quell'occasione la vicenda descritta nell'articolo di Scialoja non venne
trattata (Vol. 77, pagg. 115 e segg.).
In conclusione, va tenuto per
fermo che ci muoviamo nel campo delle ipotesi, perché come detto manca una
prova, quanto meno testimoniale, degna di questo nome idonea ad attestare con
certezza l'esistenza di un canale informativo a filo doppio tra l'esterno e
l'interno della prigione di Aldo Moro; tuttavia si deve anche aggiungere che la
negazione da parte di Agnese Moro di essersi recata a Bologna in quel frangente
non sposta di per sé i termini della questione, alla luce del manoscritto di
Moro che qui abbiamo presentato: Aldo Moro esprimeva la specifica e concreta
preoccupazione, manifestazione puntuale della percezione di un reale pericolo,
che qualcuno di suoi cari fosse rimasto coinvolto in quella sciagura
ferroviaria.
Lo scritto di Moro in oggetto, dunque, analizzato nel contesto dei fatti ad
esso coevi o successivi che abbiamo esposto, rappresenta comunque a nostro
avviso una dei più concreti elementi sino
ad oggi emersi – a prescindere da se poi effettivamente
qualcuno dei suoi congiunti si recò oppure no a Bologna durante il
sequestro- a sostegno dell'ipotesi che
nei cinquantacinque giorni del sequestro sia stato operativo ed efficiente un
“canale di ritorno” tra la prigione di Aldo Moro e l'esterno; e viceversa.
Con il corollario che, se l'ipotesi fosse vera, quel canale non fu
intercettato.
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