PRIMAVERA 1979- GLI OMICIDI DI MORO E PECORELLI,
UN BORSELLO, UN FALSARIO, TRE AMERICANI, UN MERCANTE D’ARTE E UN COLONNELLO DEI
CARABINIERI.
INTRODUZIONE.
L’Università Americana di Roma, e due suoi studenti americani, Michael Anthony Gilberto e Stephanie Pallas, entrambi ventenni, in quel momento suoi ospiti nell’appartamento occupato da Almagià a Trastevere, in Via della Lungara n.3, si recarono presso la Caserma Podgora dei Carabinieri, sede del Comando Operativo della Legione di Roma dell’arma sita nello stesso quartiere di Trastevere poco distante dal domicilio dei tre, denunciando il ritrovamento casuale di un borsello, da parte dei due studenti, sul taxi che attorno all’una di notte li stava portando al locale notturno “Make Up” (ex Piper) di via Tagliamento.
I tre coabitanti, ascoltati dai
carabinieri in sede di sommarie informazioni testimoniali, sostennero la versione
secondo la quale, trovato incidentalmente quel borsello all’atto di scendere
dal taxi all’arrivo al locale, verso l’una e un quarto (cioè nelle primissime
ore del 14 aprile), i due studenti americani lo avrebbero trattenuto- peraltro
senza spiegabile ragione – portandoselo all’interno del locale per circa due
ore, e, solo all’uscita, verso le tre, avrebbero sommariamente controllato il
contenuto, rinvenendo al suo interno, in quella prima immediata ispezione, una
pistola.
Tornati a casa, dove sarebbero giunti verso le 3.15, avrebbero deciso solo in quella sede di controllare dettagliatamente il contenuto del borsello insieme ad Edoardo Almagià, il quale,
verificato il materiale a dir poco sospetto, avrebbe suggerito di recarsi subito, previa telefonata alla menzionata caserma dell’arma, per denunciare il fatto.Il borsello-è storia nota– oltra alla
pistola Beretta calibro 9, conteneva vario materiale che, nel corso dei
decenni, è stato oggetto di analisi toriche e giudiziarie che si sono sedimentate
adagiandosi su una ricostruzione che vorrebbe questa vicenda principalmente
collegata al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro e a quello del giornalista
Carmine Pecorelli, che era stato assassinato meno di un mese prima, il 20 marzo
precedente.
Limitandomi a fare qui una descrizione
assolutamente sommaria (sommarietà della quale dirò tra breve le ragioni) del
contenuto del borsello, al suo interno vennero rinvenuti, oltre alla Beretta,
undici proiettili calibro 7,65, una cartuccia di grosso calibro “Norma 45”, una
confezione di fazzoletti “Paloma”, due flash a cubo marca “Silvania”, alcune
chiavi, un pacchetto di sigarette Muratti quasi vuoto, alcune carte geografiche
raffiguranti una zona del Lazio fuori Roma che avrebbe rimandato alla zona del Lago
della Duchessa (luogo indicato come sepoltura di Moro dal falso comunicato BR
del 18 aprile, durante il sequestro), un frammento di un biglietto per la linea
di traghetto dello stretto di Messina (senza che ovviamente si leggesse la
targa di un’eventuale auto imbarcata) e alcuni documenti, recanti l’emblema
delle “Brigate Rosse”, che riproducevano presunti testi ideologici
dell’organizzazione e inducevano a pensare al progetto di alcuni imminenti agguati,
tra i quali quello a Pietro Ingrao, Presidente della Camera.
Le schede sui personaggi che apparivano
oggetto di “inchieste” prodromiche all’effettuazione di possibili agguati erano
quattro: oltre a quella su Ingrao, ce n’erano altre tre riguardanti
rispettivamente il figlio del Giudice Gallucci, l’Avv. Prisco di Milano, e, in
particolare, il giornalista Mino Pecorelli: la scheda che lo riguardava recava
– dopo una sorta di rapporto sulle sue recenti abitudini e la conclusione “da
eliminare” – l’annotazione che l’operazione era andata in porto.
Infatti Mino Pecorelli era stato
assassinato – come ho poc’anzi accennato - appena tre settimane prima – il 20
marzo 1979- del ritrovamento di quel borsello. Per i riferimenti in ordine al
verbale di “inventariazione” del contenuto del borsello, si veda più avanti.
Anche, forse, per il concorso della natura
fortemente “evocativa” del materiale rinvenuto all’interno di quel borsello,
questa storia, e cioè la storia del suo ritrovamento, ha finito per interessare
coloro che se ne sono occupati a vario titolo esclusivamente per il contenuto e
la funzione comunicativo-ricattatoria ad esso riconnessa, finendo per elidere dall’orizzonte
dell’indagine storica e giudiziaria il problema delle modalità, cioè dell’origine
stessa, di quel ritrovamento.
Non è infatti per mera semplificazione che
ho utilizzato – in apertura di queste note – l’aggettivo “casuale”, per
descrivere l’atteggiamento acquisito in sede storiografica e giudiziaria in
ordine al ritrovamento del borsello, e neppure per assuefazione alla narrazione
di questo episodio, ancora oggi comunque oscuro, scaturita dalle testimonianze
dei tre protagonisti.
L’ho fatto, bensì, a ragion veduta, proprio
per sottolineare come sia assurto a vulgata comune, anche in qualificate sedi
istituzionali, l’acquisizione del ritrovamento del borsello come fatto
puramente accidentale, dovuto ad una mera casualità: precisamente, ad un
impatto accidentale su quell’oggetto da parte di un giovane al momento di
scendere da un taxi; che cosa si vorrebbe pretendere di più chiaro e lineare,
si direbbe? Perché perderci tempo, allora?
Tuttavia, la mancanza di approfondimento
sulle modalità effettive del ritrovamento si giustifica ancor meno una
volta che viene data per assodata – nelle stesse sedi di cui sopra - l’attribuzione a Tony Chichiarelli se non
dell’ideazione, quanto meno della materiale esecuzione (comprensiva del
confezionamento stesso del materiale inserito nel borsello) del disegno
comunicativo-ricattatorio che si era voluto conferire a quell’azione.
L’attribuzione a Chichiarelli della
partecipazione a questa vicenda è in particolare data per assodata in sostanza
a partire dal momento in cui qualcuno a settembre 1984 lo assassinò.
Quell’omicidio scoperchiò “un mondo” sulla
sua (si direbbe apprezzata ) attività di falsario e il milieu di legami che egli aveva intessuto con il mondo della
malavita, anche politica, ma non solo con la malavita; così come del resto è da
epoca successiva a quella sua fine violenta, per quanto probabilmente non
imprevedibile, che fa data l’attribuzione allo stesso Chichiarelli della
predisposizione del famosissimo “falso Comunicato n. 7” delle BR – cjui ho
parimenti poco sopra fatto cenno - che, durante il sequestro Moro, era stato
fatto ritrovare il 18 aprile 1978 in concomitanza oggettivamente sinergica con
la scoperta, in quella stessa mattinata, del covo brigatista di Via Gradoli,
indotta anch’essa da un apparente accidentalità, in questo caso di tipo
domestico-idraulico (la casualità è a quanto pare una costante immanente
di queste vicende).
Per un utile quadro sintetico della
riconduzione all’operato di Chichiarelli del ritrovamento - tra l’altro – del borsello di cui tratto in
questa sede, faccio rinvio, èer non appesantire l’esposizione, ad un paio di
testi, e precisamente:
- all’audizione del Giudice Alberto
Macchia, (già Istruttore del processo per l’omicidio Chichiarelli e la rapina
alla Brink’s Securmark di cui il falsario era stato – pacificamente – uno degli
ideatori ed esecutori), resa dall’ex magistrato il 14 aprile 2015 davanti la
seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (di
seguito, d’ora in avanti, CM-2):
- nonché alla stessa sentenza di proscioglimento
istruttorio del giudice Monastero degli imputati Carminati, Fioravanti, Gelli e
Viezzer nell’ambito del processo per l’omicidio Pecorelli, nella quale si
legge, tra l’altro (cfr. al link https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_049.pdf, pag. 198):
“…Ulteriori
spunti investigativi si traevano inoltre dal p.p. n. 3927/84A, relativo al
rinvenimento di un borsello avvenuto il 14/4/1979 contenente - tra l'altro - la
scheda relativa all'esecuzione del defunto giornalista: la predetta evenienza
infatti, pur autonoma rispetto ai principali filoni d'indagine così come sopra
delineati, presentava notevoli punti di convergenza con gli episodi che qui ci
occupano non solo e non tanto per il fatto storico in sé ma soprattutto per
l'accertata riconducibiIità di tale borsello alle indagini relative al caso
MORO - e, in particolare al famoso memoriale di via Montenevoso ed a1 cd .
"comunicato della Duchessa" - su cui PECORELLI si era spesso
soffermato con approfondite analisi di situazioni e fatti forse non lontani
dalla verità.”
Da pag. 226 del
pdf al link appena citato, la sentenza si sofferma sulla vicenda de “Il
borsello di Chichiarelli (p.p. 3927/84A)” (testuale) , affermando tra l’altro
(sottolineatura mia):
“L'ignoto
manovratore di così oscure trame aveva pertanto la precisa volontà di far
conoscere il contenuto dei suoi messaggi, di divulgarne il contenuto (cfr .,
sul punto anche la lettera di accompagnamento alle schede fatte rinvenire i
l 17/11/1979 – su cui
appresso: nda - nella quale si intravede la preoccupazione che il contenuto
del borsello del precedente 14 potesse non essere stato divulgato) peraltro nell'assoluta certezza che mai gli
inquirenti sarebbero risaliti alla "paternità" del borsello che
avrebbe comportato la possibilità di acquisire la viva voce di colui che andava
tessendo così intricata tela.”
Sul punto, la
sentenza in argomento coglie correttamente un aspetto che è coessenziale ai
fini dell’opinione che intendo sostenere con questo saggio, e che vale quindi
la pena evidenziare subito, e cioè che è evidente che quel borsello,
nelle intenzioni degli ideatori di questa messinscena, dovesse necessariamente
essere fatto ritrovare.
A pag. 229, si
legge poi l’asserzione caratteristica che sto qui evidenziando: quel
borsello era “il borsello di Chichiarelli” (come peraltro titolava
il paragrafo dedicato della sentenza in esame)
“Le indagini
istruttorie accertavano, senza ombra di dubbio, che il CHICHIARELLI era
stato l'organizzatore ed uno dei coautori materiali della rapina alla Brink's
del 24/3/1984, che era il proprietario del borsello che qui ne occupa (e
che, a ben guardare, richiama in modo pressoché univoco, vicende legate al
sequestro dell'on. MORO), che era l'autore delle manoscritture apposte sulla
scheda di PECORELLI e dell'altrettanto "famoso" comunicato BR n. 7
del 18/4/1978 (c.d. del Lago della Duchessa).
Con quali reali
modalità Chiachiarelli abbia voluto far ritrovare quel borsello – evenienza
ritenuta pur necessaria dalla sentenza stessa, si veda sopra – resta un aspetto
ancora oggi confinato negli assai esigui confini delimitati dalla versione
ufficiale di quanto avvenne in quella notte tra il 13 e il 14 aprile 1979,
quale emerge dagli scarni documenti disponibili dei carabinieri, e sembra
proprio non avere rivestito alcun particolare interesse né per le istituzioni,
né per la pubblicistica che pure ha di volta in volta fatto vari cenni alla
vicenda.
Ciò nonostante, va
al contrario posto in adeguato rilievo che è evidente che se si imputa a un
personaggio dell’importanza (anche) criminale quale Chichiarelli la
partecipazione, quanto meno nella fase esecutiva, ad un progetto di sicuro
torbido – quale che fosse – come quello imperniato sulla consegna di quel
borsello, e che implicava per sua essenza- come correttamente evidenziato
dalla sentenza citata - che quel borsello ed il suo contenuto dovessero
diventare di pubblico dominio, non si può accettare di disinnescare
totalmente le modalità di ritrovamento, derubricando cioè a frutto di mera
casualità l’innesco stesso di quel processo comunicativo-ricattatorio, cioè
gli accorgimenti, le soluzioni, che per logica si deve presumere siano stati
adottati per far ritrovare con certezza quell’oggetto – onde perseguire gli
scopi desiderati.
Purtroppo, paradossalmente l’attribuzione proprio
a Chichiarelli del confezionamento di quel borsello, peraltro come ho detto tardiva
rispetto alla data del ritrovamento in quanto riferibile al periodo successivo
al suo omicidio, conferendo alla vicenda una sorta di “patente d’autore” molto
suggestiva, non ha fatto altro, a mio avviso, che contribuire ulteriormente a
sbilanciare totalmente l’analisi di questa storia unicamente sul versante della
ricerca - per di più ancora oggi dagli esiti come minimo incerti o non
consolidati- del possibile significato ricattatorio-comunicativo
che quel borsello doveva assumere, a totale discapito dell’indagine sulle
possibili, effettive modalità del suo ritrovamento.
In altre parole, l’effetto contraddittorio
raggiunto da questa impostazione sulla ricostruzione di assieme della storia
che sto affrontando, la quale ha omesso l’indagine prima di tutto sulle
modalità stesse del rinvenimento di quel borsello, è stato quello di amputare
l’indagine sul disegno -quale che sia stato – effettivamente
perseguito dagli ideatori e dal probabile esecutore della consegna del borsello
con il suo carico comunicativo-ricattatorio.
Mi pare infatti evidente che se non ci si
interroga sulle realistiche modalità che chi progettò quel ritrovamento volle
verosimilmente attuare per assicurarsi che il ritrovamento del borsello avvenisse,
limitandosi invece a rimettere il rinvenimento ad una mera casualità, si
finisce per dover ammettere che quel borsello, sempre per un gioco del caso, avrebbe
potuto anche non essere mai ritrovato.
In sostanza, si potrebbe perfino dover
affermare per coerenza logica che quello che ancora oggi è vissuto come uno
degli eventi più oscuri della Repubblica, possa essere stato semplicemente il
portato dell’azione fine a sé stessa di un banale mitomane.
Ma sappiamo bene, appunto, che così non è:
quell’azione non fu frutto dell’opera di un mitomane; e ciò per almeno due
ragioni: una intrinseca, e cioè che appunto è difficile oggettivamente
dubitare, in base agli elementi acquisiti in sede giudiziaria dopo il suo
omicidio, dell’attribuibilità a un personaggio qual è Tony Chichiarelli quanto
meno dell’esecuzione del confezionamento e rilascio di quel borsello; la
seconda, estrinseca, è che un mitomane si sarebbe accontentato verosimilmente
di far ritrovare quel borsello ad un
qualsiasi commissariato di polizia o caserma dei carabinieri, e non invece
appositamente al comandante del reparto operativo della legione dei carabinieri
di Roma, Antonio Cornacchia, nel 1979 notoriamente uno dei principali
inquirenti sugli eventi del sequestro Moro e sull’omicidio Pecorelli, e la cui
personalità di lì a non molto sarebbe emersa anche per gli aspetti oscuri del
ritrovamento del suo nome nelle liste della Loggia massonica occulta P2 (annoto
per dovere che l’interessato ha sempre smentito di averne fatto parte
volontariamente, affermando bensì di
essersi trovato iscritto a quel consesso eversivo “a sua insaputa”, per così
sintetizzare).
No, non si può quindi derubricare – se la
logica conta ancora qualcosa- a mero frutto del caso il ritrovamento di quel
borsello nella primavera del 1979, neanche un mese dopo l’omicidio di Mino
Pecorelli.
Pertanto, per quanto ho sin qui ho
esposto, ho prescelto di affrontare questa storia concentrandomi unicamente sul
perimetro delle fondamenta su cui essa poggia: e cioè proprio e unicamente trattando
dell’aspetto delle modalità di ritrovamento di quel
borsello.
Mi scuserà, quindi, il lettore, se non
troverà riferimenti e rinvii puntuali e raffinati sul contenuto del borsello e
sulle possibili finalità comunicative-ricattatorie delle quali esso fu veicolo,
in merito alle quali, vale la pena ribadirlo, ancora oggi non esiste una
conclusione pacifica e condivisa: e ciò anche perché, ipotizzo, per
l’appunto tanto poco ci si è interrogati sui modi di vera e propria consegna
(perché, a mio parere, di ciò si trattò) di quel borsello.
I) ANTEFATTO.
L’antefatto è noto, ne ho già fatto cenno
e vale la pena riportarlo.
Il 20 marzo 1979 veniva chiusa per sempre,
ad opera di uno o più killer ancora oggi ignoti, la bocca fin troppo parlante
del giornalista Carmine (detto Mino) Pecorelli.
La descrizione dell’omicidio che ho scelto
non è casuale, meramente retorica, romanzesca; non risponde ad una esigenza
edonistica, estetico-letteraria: la bocca di Mino Pecorelli viene letteralmente
fatta bersaglio specifico dei colpi di arma da fuoco del suo killer.
Stare qui a disquisire, come assai meglio
fatto altrove, se con questa modalità dell’omicidio si sia voluto lasciare ai
posteri un “messaggio”, appare, più che superfluo, perfino una perdita di
tempo.
Chiunque sia non addentro alla questione,
può agevolmente trovare ampi riferimenti in rete sulla figura, la bibliografia,
la persona e l’attività del noto giornalista. E sui processi seguiti al suo
omicidio che condussero in un primo momento giudiziario alla condanna, quale
mandante dell’omicidio, dell’uomo politico più potente della Repubblica, Giulio
Andreotti, poi assolto definitivamente dalle pesanti accuse.
Basti qui osservare in estrema sintesi che
il giornalista aveva adottato quale sua cifra comunicativa professionale
l’invio, attraverso la sua rivista “OP- Osservatore Politico”, di messaggi, comprensibili
a qualificati destinatari politici e militari, i quali, solo banalizzando la
sua attività, potrebbero ascriversi alla categoria del ricatto; ma in
particolare, durante e dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, egli non
aveva avuto remora di mostrarsi informato di fatti e documenti inerenti il
sequestro che sarebbero emersi solo successivamente alla loro scoperta
ufficiale, tanto durante il sequestro che posteriormente l’assassinio dell’uomo
politico: in particolare, egli si era
mostrato assai informato su alcuni documenti riportati in superficie dai “fondali
limacciosi” (per mutuare la nota espressione recata dal già citato “falso
comunicato BR n. 7”) della vicenda solo dopo il doppio ritrovamento del
cosiddetto “Memoriale” dello statista sequestrato - da intendersi comprensivo,
si badi bene, anche di varie lettere indirizzate dall’uomo politico all’esterno
della sua prigione durante il sequestro, non tutte ufficialmente recapitate -
rinvenuto dalle forze dell’ordine a Via Montenevoso a Milano, in una prima
parziale versione esclusivamente dattiloscritta nell’ottobre 1978 (quindi prima
dell’omicidio di Pecorelli), e in seguito, nell’unica versione più ampia della
precedente ad oggi conosciuta, esclusivamente in fotocopia di manoscritto, ma
verosimilmente anch’essa parziale, dodici anni dopo, nell’ottobre 1990,
scoperta in un’intercapedine, rimasta a quanto pare celata per tutti quegli
anni, durante la ristrutturazione del medesimo appartamento che era stato l’ex
covo Br già oggetto della scoperta e perquisizione del 1978.
II) DOPO IL FATTO. LA FIGURA DI TONY (ANTONIO
GIUSEPPE) CHICHIARELLI IN BREVE.
La storia ci rimanda al secondo
protagonista indiretto di queste note, come ho già accennato.
Si tratta del falsario romano (di adozione;
abruzzese di nascita) Antonio Giuseppe Chichiarelli, detto Tony.
La sua figura nell’ambito della storia
criminale romana degli anni ’70 e della prima metà degli anni ’80 del secolo
scorso è talmente articolata e dibattuta che, per ragioni di sintesi, a
beneficio del lettore faccio rinvio a questa sua biografia liberamente fruibile
in rete: https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Chichiarelli
La sua attività non procede oltre la prima
metà degli anni ’80, anzi a rigore neppure vi giunge, in quanto nel settembre
del 1984 Tony Chichiarelli si infrange suo malgrado contro alcune palle di
piombo che ne spezzano la vita mentre rincasava, a Roma.
Anche quelle palle di piombo (ancora oggi
resta il legittimo sospetto che ad eiettarle furono più mani) hanno un’origine
rimasta ignota: sorte analoga a quella di Mino Pecorelli.
Nell’agguato, rimane gravemente ferita, ma
sopravvive, la sua compagna (Cristina Cirilli), mentre per fortuna rimane
illeso il figlio neonato Dante, anch’egli in quel momento nell’abitacolo
dell’auto dei genitori.
Riepilogando quanto anticipato
nell’introduzione di queste note, in estrema sintesi Tony Chichiarelli è stato ritenuto
(in sede giudiziaria, ed in varia pubblicistica conforme) artefice,
pur senza alcuna prova oggettiva definitiva, ma con buona verosimiglianza per
varie dichiarazioni testimoniali e riscontri calligrafici sulle note apposte a
mano sulle schede trovate nel borsello che ci occupa:
a) del menzionato noto falso comunicato
delle BR n. 7 fatto ritrovare durante il sequestro Moro il 18 aprile 1978 in
concomitanza con la scoperta a Roma dell’importante covo Br di Via Gradoli 96;
b) del così detto “Comunicato in codice n.
10” delle BR, che fu fatto ritrovare dopo l’uccisione di Moro al quotidiano “Il
Messaggero”; comunicato che una volta decifrato rivelò contenere progetti di
agguati a vari esponenti politici e della magistratura, rivelatisi poi artefatti;
c) del confezionamento del borsello, oggetto di queste note.
Richiamando la sommaria descrizione – volutamente sommaria- del contenuto
del borsello fatta nell’introduzione, meritano comunque di essere segnalati
alcuni episodi, per così dire, collaterali.
Con una telefonata anonima al quotidiano “Vita Sera” il 17 aprile 1979-
cioè tre giorni dopo il ritrovamento del borsello – alla quale si riferisce il
passaggio della sentenza istruttoria che prima ho trascritto, vennero fatte
ritrovare in una cabina telefonica in Via Cernaia a Roma, altre copie dei
documenti già lasciati in quell’oggetto, ad attestare la precisa volontà di farlo
ritrovare, potendosi così escludere anche solo l’astratta ipotesi di un suo
smarrimento casuale; cfr. pag. 118 del link seguente:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf
Si badi bene: il passaggio della sentenza del giudice Monastero che ho
riportato compie un corretto riferimento al conseguimento della certezza
della “divulgazione” – da parte
degli autori della telefonata e del rilascio a “Vita Sera” – del
ritrovamento del borsello e del suo contenuto; aspetto tenuto, e da tenere, ben
distinto, dal fatto in sé e per sé dell’avvenuta consegna.
E’ intuitivo infatti che il rilascio di un documento ad un terminale
istituzionale- nella fattispecie il comando operativo della legione di Roma dei
carabinieri – può assicurare con assoluta certezza l’acquisizione del
documento, ma non ne assicura di per sé sola la divulgazione pubblica, se quest’ultima
è il fine che si vuole conseguire.
Voglio dire cioè che le due modalità esecutive- consegna
ai carabinieri e telefonata all’organo di stampa con replica dei doppioni dei
documenti contenuti nel borsello – non solo non si escludono, bensì si integrano, posto che la seconda, se preceduta dal mero rilascio
rimesso al caso in un qualsiasi luogo pubblico (come un taxi), avrebbe
potuto essere perfettamente inutile, se quel borsello fosse andato smarrito,
gettato nei rifiuti, distrutto, disperso, ecc.
Un fatto ulteriore, avvenuto il successivo 19 aprile, contribuisce
senz’altro ad addensare, attorno a quel borsello, una coltre di mistero che, se ancora oggi non
compiutamente decifrata e difficilmente decifrabile se non mediante la
formulazioni avanzata a vario titolo di ipotesi suggestive o meritevoli di
approfondimento ma prive tuttora di riscontri certi, attesta che quel
ritrovamento apparentemente banale e casuale dovette raggiungere le antenne
sensibili cui era destinato, e meriterebbe, come merita, ancora oggi di essere
sviscerato: mi riferisco ad un’anonima e falsa rivendicazione dell’omicidio
dell’agente della Digos di Milano Andrea Campagna, ucciso appunto a Milano quel
19 aprile 1979.
Quello stesso giorno, la redazione romana del quotidiano “Vita Sera”–
ancora una volta quel quotidiano, già destinatario di telefonate anonime
recanti tra l’altro la consegna di alcune lettere di Moro durante il sequestro,
e da ritenere quindi per qualche oscura ragione un destinatario di particolare
elezione per protagonisti e comprimari di questa vicenda - ricevette una
telefonata di rivendicazione dell’omicidio di Campagna che, per quanto falsa,
richiamava espressamente il contenuto del borsello ritrovato il giorno 14 sul
taxi e, pur affermando falsamente che il povero agente Campagna era stato
ucciso con proiettili calibro 7.65 come quelli ritrovati nel borsello (in
realtà l’agente risultò ucciso da proiettili calibro 357 magnum), recava
l’inquietante conoscenza della circostanza, da parte dell’anonimo telefonista,
che il borsello era stato ritrovato sul taxi n. 1427 di Roma. Il
telefonista aveva infatti testualmente riferito l’omicidio all’uso di
proiettili “che la Digos ha recuperato grazie alla soffiata del tassista n.
1427”; si veda a pag. 127 del link seguente:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf
(per la cronaca, per l’omicidio dell’agente Campagna fu condannato
all’ergastolo, tra gli altri, come esecutore materiale, il noto Cesare
Battisti).
Chi telefonò facendo riferimento a quel numero di codice del taxi, doveva
essere a conoscenza, al di fuori ed oltre qualunque intuibile segreto investigativo,
di ciò che era accaduto a Roma la notte del 14 aprile.
Occorre infatti qui rilevare che l’individuazione del taxi con il “numero
1427” è indicata nel rapporto della Questura di Roma, al quale ho poc’anzi
fatto riferimento, quale frutto di un avvenuto precedente accertamento non
meglio precisato e del quale, negli atti disponibili, salve mie sviste,
non ho trovato però un qualche espresso riferimento. Dobbiamo quindi, sul
punto, attestarci su questo accertamento dato, de relato, per avvenuto.
Come vedremo tra breve, gli unici documenti disponibili liberamente sul
punto sono infatti i rapporti dei carabinieri e la testimonianza dello stesso
tassista in questione, dai quali si evince solo la sigla “Pisa-1”
del taxi, e non l’ulteriore dato del numero 1427.
Chi fece quella telefonata di presunta rivendicazione a “Vita Sera” dell’omicidio del povero
Campagna, doveva pertanto essere in ogni caso a conoscenza di riservati
rapporti di indagine della polizia, sul ritrovamento del borsello, intervenuti
in soli cinque giorni tra il 14 e il 19 aprile 1979, ed ancora oggi non
reperibili – ripeto: salve mie sviste - negli atti liberamente disponibili.
Merita inoltre di essere segnalata la circostanza, che può apparire
oggi come un incidentale ma significativo testimone dei legami – talvolta, ma
non sempre - casuali che uniscono i
mille rivoli di sangue che hanno caratterizzato la storia di questo Paese in
un’unica grande e tragica scia, che la
testina rotante della IBM trovata nel borsello fu consegnata il 18 aprile, per
ordine del Giudice Sica, alla Questura di Roma per le successive indagini
tecniche, nella persona dell’allora Tenente di Polizia Francesco Straullu (prima
Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro,
di seguito sempre CM-1, Vol. 122, pag. 589), il quale due anni dopo
sarebbe stato letteralmente massacrato a Acilia (sobborgo di Roma) a colpi di
fucili d’assalto da un commando dei neofascisti dei NAR, con uno scempio tale
del suo corpo – e di quello del suo sfortunato collega, Ciriaco Di Roma – che
perfino uno dei killers ebbe remora di guardare da vicino, alla fine, la scena del
massacro:
https://spazio70.com/anni-70/nar-e-spontaneismo-armato/la-barbara-esecuzione-del-capitano-straullu/
Vanno comunque evidenziati alcuni altri aspetti della breve vita e carriera
di Tony Chichiarelli:
- egli fu un abilissimo ed apprezzato falsario anche nel mondo dell’arte
(la ex moglie Chiara Zossolo era una gallerista professionista), ambiente nel
quale egli era apprezzato anche (ma non solo) per falsi “palesi”, cioè
conclamati e non truffaldini quale falsi di “autore” negoziati come tali;
- egli sarebbe risultato in contatto non solo con gli ambienti della
sinistra extra parlamentare (quale frequentatore ad esempio dei collettivi di
Autonomia Operaia in Via dei Volsci a Roma), ma anche con ambienti legati ai
Servizi e alla Banda della Magliana, oltre che con ambienti dell’estrema
destra;
- soprattutto, come già accennato in uno degli stralci della sentenza di
Monastero che ho riportato, egli fu l’artefice, con vari complici, a marzo 1984
– cioè sei mesi circa prima di finire suo malgrado la propria vita – della così
detta “rapina del secolo”, quella alla “banca sindoniana” Brink’s
Securmark sulla Via Aurelia a Roma, fruttata- al netto delle oscillazioni delle
cifre riportate nelle varie fonti disponibili – circa 35 (trentacinque)
miliardi delle allora Lire italiane.
Una interessante particolarità della rapina, al di là della cifra di denaro
impressionante (anche) per l’epoca, fu che, secondo alcuni rapporti e la stessa
testimonianza della ex moglie di Chichiarelli, la menzionata Chiara Zossolo,
resa alla seconda commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro (CM-2), i
criminali avrebbero cercato anche cassette di sicurezza di personaggi di primo
piano contenenti imprecisati documenti; al link seguente, la deposizione alla
CM-2 di Chiara Zossolo:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B171/1198_003.pdf
Un seguito del tutto particolare di quella rapina consistette nella
circostanza che due giorni dopo, il 26 marzo 1984, con una telefonata anonima
al quotidiano “Il Messaggero” di Roma che rivendicava alle BR la rapina alla
banca “sindoniana”, furono fatti ritrovare - per chi vi crede, in virtù di una
curiosa e statisticamente anomala bizzarria del caso; e a non volervi credere,
invece, per una precisa scelta strategica e comunicativa - nello stesso cestino
dei rifiuti in Piazza Belli a Trastevere dove il 18 aprile 1978 era stato fatto
ritrovare il falso comunicato BR n. 7, alcuni documenti inerenti la rapina e,
soprattutto, le schede originali sulle personalità oggetto di ipotesi di
agguato che, in copia, erano state ritrovate nel borsello- di nostro interesse-
lasciato da mano ignota sul taxi
nell’aprile 1979, oltre ad alcuni riferimenti a foto polaroid che avrebbero ritratto
l’On Moro prigioniero durante il sequestro: non è mai emerso con certezza se queste
ultime fossero identiche, oppure diverse, rispetto alle due foto ufficialmente
recapitate dai sequestratori nel 1978, rispettivamente il 18 marzo (unitamente
al comunicato BR n. 1) ed il 20 aprile (unitamente al “vero” comunicato n. 7 -
con il quale si smentiva l’esecuzione della statista annunciata dal falso
comunicato pari numero di due giorni prima- foto che raffigurava l’uomo
politico con in mano una copia del quotidiano “La Repubblica” ad attestare a
quella data la sua permanenza in vita, contrariamente a quanto aveva appunto
annunciato due giorni prima il comunicato falso).
In sostanza, una rivendicazione che sembrava volere tra l’altro apporre una
riconduzione inequivoca della mano e delle ragioni della rapina alla stessa
strategia che aveva caratterizzato la consegna di quel borsello avvenuta cinque
anni prima.
Come ho anticipato nell’introduzione, in questo scritto non mi occuperò del
contenuto del borsello, dei possibili messaggi contenuti nella documentazione
che fu ritrovata al suo interno (prima solo sommariamente accennata, e dunque
fatta salva ogni possibile ulteriore e migliore precisazione), né della
ricostruzione delle circostanze emerse in sede giudiziaria, o nella
pubblicistica, in base alle quali oggi si ritiene come fatto assodato che
l’autore del confezionamento del borsello e del suo particolare contenuto sia
stato Antonio Chichiarelli.
Tuttavia mi pare il caso di accennare al fatto che stando alle
testimonianze delle due persone a lui più vicine, cioè l’ex moglie Chiara
Zossolo e la sua compagna al momento dell’omicidio, Cristina Cirilli, è assai
dubbio che l’ideazione della consegna di quel borsello, il
progetto strategico-comunicativo cui lo stesso fu funzionale, possano
essere stati opera propria dello lo stesso Chichiarelli: il quale avrebbe cioè
corrisposto, in fase meramente esecutiva, alla strategia di altre “menti”.
E pur non intendendo occuparmi neppure delle possibili funzioni strategiche
che la consegna di quel borsello doveva svolgere, è certamente utile rilevare che,
rinviando anche alle brevi notazioni di cui sopra in ordine ai palesi segnali
di rivendicazione della assoluta volontarietà del gesto, dei quali fu ad
esempio tramite il quotidiano “Vita Sera”, la consegna del borsello deve essere
considerata a tutti gli effetti una storia nella storia, un enigma nell’enigma,
la cui collocazione, in una sorta ideale “matrioska”, all’interno di analoghi contenitori di
dimensioni “maggiori” per importanza che ne costituiscono il necessario
riferimento, esige comunque il pieno chiarimento come tassello utile, se non
necessario, ad una maggior generale comprensione del sequestro Moro e,
probabilmente, degli omicidi di Pecorelli, Varisco e Dalla Chiesa.
Nonché, ovviamente, di quello dello stesso Tony Chichiarellli.
Rinvio pertanto, in ordine al quadro generale appena delineato, ad
eventuali, ulteriori e più precisi approfondimenti (sia chiaro, non
necessariamente ad opera mia).
Come ho già precisato, cosa che ritengo opportuno ribadire al fine
agevolare il lettore nel mantenimento del filo del discorso, ciò che in questa
sede mi interessa analizzare sono esclusivamente i fatti delle prime ore del 14
aprile 1979.
E, avverto sin d’ora, la documentazione in merito è purtroppo, come si
vedrà, assai scarna.
Ragion per cui mi premuro di augurarmi che il lettore non resti deluso da
quanto sta per leggere.
III) IL FATTO. ROMA, 14 APRILE 1979. DALLE ORE 1.00 A.M. CIRCA IN POI.
Il fatto, in estrema sintesi, è quello che ho già riportato
nell’introduzione.
Esso è ricostruibile testualmente in base al rapporto redatto quello stesso
14 aprile per la Procura della Repubblica (Dott. Sica) dalla Legione
Carabinieri di Roma- Reparto Operativo, a firma del comandante del Reparto,
l’allora tenente-colonnello Antonio Cornacchia (oggi generale in pensione);
tra i molti, cfr. pag. 112 al link seguente (rapporto che comunque riproduco
per comodità per immagine. In ogni caso, cfr. anche ampiamente in CM-1, Vol.
122, pagg. 560 e segg.):
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf
Per riepilogare, i due studenti M.A. Gilberto e S. Pallas, ospitati nell’abitazione di Edoardo C. G. Almagià (del quale erano studenti presso l’Università Americana di Roma, sita nei pressi di Piazza di Spagna) in Via della Lungara n. 3, intorno all’una del mattino del 14 aprile 1979 avrebbero chiamato un taxi per recarsi nel locale notturno “Make Up” di Via Tagliamento, dove sarebbero giunti circa un quarto d’ora dopo.
Una volta giunti,
all’atto di scendere dal taxi, Gilberto avrebbe rinvenuto a bordo del
veicolo il borsello, portandoselo in discoteca, per aprirlo però poi una prima
volta solo all’uscita del locale.
Avendo rinvenuto
al suo interno una pistola, i due americani differirono l’apertura vera e
propria del borsello solo al loro rientro a casa, verso le 3.00, dove,
verificato il contenuto a dir poco “pericoloso”, su iniziativa di Almagià
decisero di andare subito a denunciare il fatto alla caserma dei carabinieri
Podgora, sita in quei pressi, in Trastevere.
Effettivo
rinvenitore del borsello, a quanto pare per puro caso, risulta M.A. Gilberto.
La signorina
Pallas – che per una ulteriore, curiosa, coincidenza tra le tante che colorano
di rosso sangue la storia di questo Paese, aveva il cognome identico al modello
di Citroen di Mino Pecorelli, a bordo della quale egli trovò suo malgrado la
morte:
la signorina
Pallas, dicevo, che nella vicenda assume contorni evidenti di testimone
secondario rispetto al suo amico Gilberto, in quanto avrebbe notato il borsello
solo allorchè, usciti dal taxi, si era accorta che Gilberto lo deteneva, stando
al rapporto riepilogativo per Sica confermò in sostanza la versione di costui.
Edoardo Almagià,
infine, citato per ultimo nel medesimo rapporto per la Procura ma con una
parziale inversione dell’ordine effettivo delle testimonianze- in quanto
egli era stato invece assunto a testimone per primo- si sarebbe in
sostanza limitato a consigliare ai suoi due studenti americani di portare
subito ai carabinieri il borsello ritrovato.
Infine, nel
rapporto si dava conto del fatto che, a seguito delle indagini immediatamente
attivate, era stato tempestivamente rintracciato il conducente del taxi, Bini
Mariano (in altri documenti sulla vicenda, indicato come “Marcello”), il quale
non aveva avuto nulla da riferire in merito alla presunta presenza sul proprio
taxi del borsello, che egli non aveva proprio notato.
IV) LE ANOMALIE
DELLA VERSIONE UFFICIALE DELLA VICENDA NEI DOCUMENTI DEI CARABINIERI E NELLE TESTIMONIANZE
DI ALMAGIA’, GILBERTO, PALLAS, E DEL TASSISTA.
Alle pagine 12 e
seguenti del link seguente: https://www.gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD23/0327_002.pdf?fbclid=IwY2xjawG4bLVleHRuA2FlbQIxMAABHcvyQcb5GIjRnnH_s-RsCrQebF7425PocY1gs5qM7hUVjotzukXf8KDAGQ_aem_wa7keR8KWx9FjWLm72JAvw, sono leggibili i verbali, citati nel rapporto alla
Procura poc’anzi riprodotto, delle deposizioni ai carabinieri dei tre protagonisti
del ritrovamento e della consegna del borsello, Edoardo C.G. Almagià e suoi due
studenti americani, da lui ospitati nel suo appartamento in Via della Lungara
3, M.A. Gilberto e S. Pallas, nonché del tassista Mariano Bini, tirato in ballo
in quanto è sul suo taxi che a detta dei due americani e di Almagià il borsello
sarebbe stato ritrovato al termine del breve viaggio che i due giovani
effettuarono, su quel taxi, per recarsi dall’appartamento di Almagià alla
discoteca “Make Up” di Via Tagliamento.
I documenti, in
parte già citati e che in parte segnalerò in seguito, restituiscono non poche
anomalie nella versione ufficiale della vicenda in esame.
In via preliminare
si può segnalare – ed è probabilmente la cosa meno rilevante - che mentre,
da un lato, sia il rapporto riepilogativo di cui sopra che i verbali delle
testimonianze, tacciano del tutto in ordine alle caratteristiche del borsello, queste vengono
descritte - di “cuoio marrone,
del tipo a libro, con portacarte interni e due borse laterali esterne - solo
nel verbale di sequestro del vario materiale rinvenuto, steso in seguito
nel corso della mattinata, verso le 9.30 circa, alla presenza del tassista
(cfr. link di cui sopra, doc. 557_16 cit, pag. 114); per quanto quel verbale
sia stato comunque allegato (all. n. 5) al rapporto per Sica, è singolare che
nessuno dei tre -Almagià, Gilberto e Pallas – in sede di deposizione non abbia
fatto cenno anche solo al colore del borsello.
Inoltre, non mi
consta agli atti alcuna fotografia, né una menzione di eventuali fotografie,
del borsello. Viceversa, è necessario rilevare che il borsello fu consegnato
(con quasi tutti i reperti in esso rinvenuti, tra i quali la pistola Beretta,
il caricatore vuoto per quell’arma, le 11 pallottole cal. 7,65, la cartuccia di
grosso calibro “Norma 45 A.C.P.”, i due cubi-flash per macchina fotografica, il
mazzo con nove chiavi, ecc. fatta eccezione per la testina rotante IBM, in
ordine alla quale rinvio a quanto ho scritto prima) alla Procura di Roma –
Ufficio corpi di reato, solamente il successivo 8 giugno: cfr. fascicolo
327_02 di cui al link da ultimo copiato, pag. 5.
I verbali delle deposizioni dei testimoni non recano alcuna
indicazione del nome o del grado, né alcuna sottoscrizione, di chi condusse
l’assunzione delle testimonianze.
Il verbale di
sequestro del materiale, senza una plausibile ragione, venne redatto alla
presenza del tassista, e non degli
effettivi rinvenitori del borsello.
E’ singolare,
infatti, la circostanza che alle 9.30 il verbale di sequestro del materiale
(pag. 21 e seg. del suddetto fascicolo 327_02) sia stato redatto esclusivamente
alla presenza del tassista, tanto più che egli nella propria deposizione delle
7.35 (pag. 17 e segg., fascicolo ult. cit.) si era dichiarato del tutto ignaro
perfino della presenza stessa del borsello sul suo taxi; e quindi è altrettanto
imprecisa l’affermazione di apertura del verbale da parte dell’ufficiale
redigente, allorchè viene riportata la circostanza inesatta che il borsello –
ed il suo contenuto- erano stati “consegnati” da Mariano Bini (pure
erroneamente indicato come Marcello).
Tant’è che quel
verbale di sequestro dovette essere opportunamente riaperto, verosimilmente a
seguito di rilettura da parte del tassista Mariano Bini, proprio per dare conto
del fatto che il borsello, ed il materiale in esso contenuto, erano per
l’appunto stati ritrovati e consegnati ai carabinieri di quell’ufficio dai due
giovani studenti americani e da Edoardo Almagià, e non dall’ignaro tassista.
Almeno, mi viene da dire, vivaddio uno scatto d’orgoglio da parte di Bini,
nell’ambito di una ricostruzione della vicenda forse fin troppo “ovattata” e
nella quale il predominante ruolo del “caso” è fin troppo stridente con la
gravità del contenuto di quel borsello e dell’importanza “comunicativa” che ad esso era stata con ogni
evidenza riconnessa da chi lo volle far ritrovare.
Uno degli aspetti anomali
di maggior spicco della ricostruzione ufficiale di questa storia è tuttavia il
“buco” temporale di circa tre ore di quel primo mattino del 19 aprile, tra
le ore 3.00 e le ore 6.00 (ora di inizio della verbalizzazione ufficiale
delle dichiarazioni di Almagià, il primo dei tre ad essere ascoltato) , arco
temporale nel quale – delimitato tra la consegna del borsello ai carabinieri e
l’inizio ufficiale delle deposizioni testimoniali- ciò che si vede è solo una
coltre di nebbia, senza che nulla si scorga su cosa sia accaduto dietro di
essa.
Si possono
prendere le mosse dal rapporto per il giudice Sica (il documento che ho citato
per primo e sopra riprodotto).
La prima notazione
meritevole di rilievo di quel rapporto è che Edoardo Almagià e i suoi due
ospiti americani si sarebbero presentati alla caserma
Podgora – sede della Legione carabinieri di Roma– per consegnare il
borsello e denunciarne il ritrovamento, con il suo contenuto, all’incirca
alle ore 6.00 del mattino.
Ma anche questa
affermazione è notevolmente imprecisa, perché in realtà – come in
sostanza ho poc’anzi anticipato – Almagià e i due studenti americani si
recarono alla caserma Podgora molto prima delle 6.00, verosimilmente in un
orario di poco successivo alle ore 3.00.
Già sul piano
delle dichiarazioni testimoniali, il presunto arrivo presso la caserma Podgora
alle ore 6 affermato dall’incipit del rapporto per la Procura è smentito dalla
circostanze riferita da Edoardo Almagià nella propria testimonianza, stando
alla quale: a) il rientro a casa dei due suoi giovani ospiti sarebbe
avvenuto alle 3.15 (con il borsello che essi gli dissero di
avere rinvenuto nel taxi utilizzato per recarsi alla discoteca “Make Up”); b)
una volta scoperto compiutamente il contenuto del borsello, egli ritenne di “dover
avvisare immediatamente gli organi di polizia e, previa
telefonata, mi portavo in questi uffici” (cioè la Legione Carabinieri di
Roma- Reparto Operativo).
Analogamente,
Gilberto (fascicolo 327_02 cit., cfr. link, pag. 12) nella propria deposizione
riferisce di avere controllato il materiale contenuto nel borsello con Almagià
appena rientrato a casa, “decidendo quindi di recarci immediatamente
presso il comando dei carabinieri…”.
Ma al di là delle
dichiarazioni testimoniali, la necessità di anticipare l’arrivo dei tre alla
caserma Podgora ad un orario assai anteriore a quello attestato dal
rapporto alla Procura deriva senza tema di smentita dagli stessi documenti
redatti da carabinieri.
Il verbale di
sequestro del materiale, di cui ho parlato poc’anzi, redatto alla presenza di
Mariano Bini, nella parte in cui esso, come ho evidenziato, viene riaperto per
precisare gli effettivi autori del ritrovamento del borsello, afferma
testualmente (fascicolo 327_02 cit., cfr. link, pag. 22):
“Si riapre il
presente p.v. per dare atto che il ritrovamento del suelencato materiale è
stato effettuato dalle sottonotate persone (cioè Gilberto, Almagià e Pallas: nda) che, alle ore 3.00 u.s.
hanno provveduto a consegnarlo ed a sporgere regolare denuncia presso
l'Ufficio della Legione Carabinieri di Roma che in seguito, per le
indagini del caso, ha interessato questo Reparto Operativo….”.
Non solo.
Agli atti della
seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e l’omicidio di
Aldo Moro (CM-2), esiste un fascicolo prodotto
dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri su richiesta della Commissione
stessa, e consegnato nel gennaio 2018 tramite l’ufficiale di collegamento con
l’organismo parlamentare, Col. Leonardo Pinnelli, che originariamente era stato
classificato come “riservato” e che, successivamente declassificato nel luglio
di quello stesso anno, si può richiedere al link:
Il 9 novembre 2017,
la CM-2 aveva richiesto tra l’altro al Comando Generale dell’arma copia della
eventuale documentazione esistente, ovviamente, anche presso il Comando
“Podgora”, in merito alla vicenda del borsello.
Il fascicolo cui
mi riferisco, numero “1223/1”, riporta appunto – oltre, nella seconda parte, a
materiale riguardante la vicenda della latitanza di Casimirri – la
documentazione consegnata alla CM-2 dagli Enti dell’Arma destinatari della
richiesta.
La documentazione
è in grandissima parte la riproduzione di quella nota e già agli atti della
CM-1 (si veda in proposito il già citato Vol. 122, CM-1), oltre ad alcune
richieste di indagine scambiatesi a metà anni ’90 di vari enti degli stessi
carabinieri su un’azienda agricola degli Almagià con sede din Roma, Piazza in
Lucina.
Tuttavia, per
quanto rileva ai nostri fini, il fascicolo contiene un paio di documenti, di
quello stesso 14 aprile 1979, redatti dal Comando Generale dell’Arma
in ordine alle notizie ricevute, appunto dalla Legione di Roma
(caserma Podgora), che non mi risultano – salve mie sviste- mai emersi prima
del 2018.
Nel primo
documento in ordine di impaginazione del fascicolo (pag. 8), il “Comando
Generale- Sala Operativa”, riporta che “Verso le ore 4.00
un professore universitario, cittadino americano (anche Almagià per inciso
è cittadino- anche – americano, nda) ha accompagnato presso la centrale
operativa della Legione Carabinieri un suo connazionale che, poco prima, a
bordo di un taxi preso a noleggio aveva rinvenuto un borsello…” (segue
contenuto ecc.)
Di seguito ad un
telex indirizzato a varie autorità - tra i quali i Ministeri degli Esteri e
dell’Interno, ecc. – (pag. 9, fascicolo in esame), è collocato un secondo
documento (pag. 10) , sempre del Comando Generale, che riporta una
telefonata ricevuta dalla Legione Roma alle ore 6.50 – l’orario è apposto in calce, tra i nomi dei due
sottufficiali dei rispettivi enti trasmittente e ricevente – con la quale la
Legione Roma (la caserma Podgora,
quindi) aveva comunicato al Comando
Generale il fatto del ritrovamento del borsello, collocando la consegna
da parte dei tre protagonisti alla caserma Podgora alle “ore
3.50”.
Alla luce di
questi elementi testimoniali e documentali, viene pertanto da chiedersi che
cosa accadde in quella forbice temporale di oltre due ore, in merito alla
quale non è mai emersa alcuna notizia.
E viene altresì da
chiedersi una volta di più perché il menzionato rapporto introduttivo dei
carabinieri alla Procura – documento che intuitivamente dovrebbe avere la
funzione di evidenziare subito alla magistratura i tratti essenziali, ma il più
possibile chiari, di ciò che è accaduto – abbia attestato un orario oggettivamente
impreciso, e – se ci si limita alla sola lettura di quel sommario
riepilogo - potenzialmente pure fuorviante, della consegna del borsello
alla caserma Podgora, collocandolo alle ore 6.00, anziché, come in
effetti avvenuto, tra le 3.00 e le 3.50.
Vale la pena
anticipare, in ordine ai rilievi appena svolti, il fatto che sicuramente non ha
giovato al dissipamento di questa nebbia la circostanza – di per sè abbastanza
incredibile (qualora non dipendesse da sviste o carenze delle mie ricerche) –
che nessuno dei tre protagonisti della vicenda risulta, almeno degli atti
liberamente fruibili in rete, mai ascoltato da un magistrato!
Per la verità,
dall’indice di alcuni atti del processo contro ignoti, sul ritrovamento del
borsello, che è situato nelle prime pagine del citato fascicolo 327_02 (cfr.
link, pag. 1 e segg.) sembra doversi evincere che proprio il tenente
colonnello Cornacchia, autore del primo rapporto alla Procura sulla vicenda
sopra riprodotto, ed in quelle ore in sostanza - quale comandante del reparto
operativo della Legione Roma - dominus della situazione che si stava
verificando in caserma, sia stato ascoltato come testimone (pag. 4,
fascicolo 327_02 cit.: cfr. il riferimento alla pagina “170” degli atti
indicizzati): però purtroppo la pagina “170”, cioè dire il verbale della
testimonianza di Cornacchia, non si rinviene in nessuno dei fascicoli di
libera consultazione acquisti e prodotti tanto dalla CM-1 che dalla CM-2.
Devo pertanto
limitarmi, mio malgrado, a formulare l’auspicio che qualche altro appassionato
ricercatore riesca, a differenza del sottoscritto, a rintracciare e rendere
disponibile quel verbale.
Tuttavia, forse a
causa dell’enormità stessa della vicenda Moro, che in modo osmotico tracimò in
varie altre vicende, come ad esempio quella che di cui sto scrivendo, talvolta
si verifica qualche fenomeno di incontinenza sia pure fugace, incidentale; come
se non sia possibile proprio fisicamente contenere del tutto la quantità di
materia, di intrecci, di legami, di rapporti, di cui questa tragedia italiana
si compone, in un unico, capiente e sicuro alveo; con il rischio immanente di inopinate
fuoriuscite, ora di un’illazione, talvolta di un dettaglio, altre volte di
“messaggi”.
E’ per l’appunto
il caso dell’ex colonnello Cornacchia che, ormai generale in pensione, è stato
audito per tre volte dalla CM-2, e le pur scarne parole che gli sono uscite in
quel consesso, in ben tre audizioni, sulla vicenda del borsello, quasi voce dal
sen fuggita a seguito di una domanda postagli da Miguel Gotor –
malauguratamente interrotto dal Presidente Fioroni con la promessa, che è
rimasta tale, di tornare a interrogare in seguito Cornacchia sulla questione –
meritano di essere confrontate, per il significato antitetico assunto nell’una
e nell’altra occasione, con le dichiarazioni che egli stesso aveva reso il 6
agosto 1982 nella sua audizione davanti alla CM-1.
Verso il termine
dell’audizione in CM-1 del 1982, il Presidente chiese incidentalmente a
Cornacchia (CM-1,Vol 10, pag. 164 del “pdf”), sul presupposto che in merito
all’omicidio Pecorelli girassero voci di una possibile responsabilità delle BR:
“…può dirci
qualcosa al riguardo di quel famoso borsello che i due stranieri avrebbero
lasciato nel taxi!” (il punto
esclamativo è testuale nella trascrizione dell’audizione).
Cornacchia rispose
che del borsello si era interessato il suo reparto, senza che fosse
emerso nulla.
Dietro insistenza
del senatore Sergio Flamigni, che ricordò a Cornacchia il contenuto del
borsello e dunque la potenziale rilevanza con la vicenda Moro e il falso
comunicato del Lago della Duchessa per via del ritrovamento nel borsello di una
testina IBM analoga a quella che aveva battuto i vari comunicati durante il
sequestro, compreso il fasullo n. 7, Cornacchia ribadiva di non essersi
interessato personalmente delle indagini sul borsello, rinviando ad un suo
imprecisato collaboratore.
Cornacchia
concludeva, in quella sede: “Mi
ricordo del borsello perché l’arma dei carabinieri si è interessata, io
personalmente non lo ricordo: mi ricordo del borsello, ma non i particolari e
le indagini che sono state svolte. Non saprei riferire al riguardo.”
Nel 1982, quindi,
Antonio Cornacchia, pur essendo stato firmatario del primo rapporto al
Procuratore dott. Sica, dichiarava in sostanza alla Commissione
Parlamentare di Inchiesta di non avere nulla da “riferire al riguardo”,
rinviando genericamente ad indagini dell’arma dei carabinieri delle quali,
per inciso, nulla risultava all’epoca, e nulla risulta ancora oggi (quasi che
egli fosse un corpo avulso dell’arma, o, nella migliore delle ipotesi, che
fosse stato coinvolto incidentalmente e suo malgrado “solo” quale comandante
del Reparto Operativo della Legione di Roma, alla quale, per un mero caso, i
tre protagonisti si erano rivolti per la consegna del borsello.).
Il pur fugace
cenno fatto da Cornacchia alla vicenda in risposta alla domanda del Senatore
Miguel Gotor davanti alla CM-2 è invece e clamorosamente di contenuto opposto.
Il generale in
pensione Antonio Cornacchia è stato audito dalla CM-2 in tre sedute successive,
il 5 ed il 12 ottobre, ed il 3 novembre, del 2016:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161005_%20sten105.pdf
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161012_%20sten106.pdf
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161103_%20sten109.pdf
Le sedute del 5
ottobre e del 3 novembre sono ininfluenti ai nostri fini: con le chiavi di
ricerca del software di google “taxi”, “borsello” Chichiarelli”, escono nella
prima audizione interessanti riferimenti al falsario che riguardano
essenzialmente la vicenda, pur interessante, e non chiarita, ma non di
specifico interesse di queste note, delle foto che sarebbero state rinvenute a
casa sua dopo il suo omicidio, ritraenti l’On. Moro prigioniero. Nella terza
audizione, non risulta addirittura alcunchè in merito a Chichiarelli.
Le affermazioni
rilevanti di Cornacchia sono nella seconda audizione, quella del 12 ottobre
2016.
E a mio avviso esse
contengono una contraddizione insanabile, che la CM-2 ha purtroppo mancato di
approfondire.
A pag. 13 del pdf
Cornacchia afferma, sia pure de relato, che Chichiarelli era un
confidente dei carabinieri e dei Servizi.
In risposta a una
specifica domanda di Gotor, Cornacchia conferma in sostanza che, nella sua
qualità di falsario di opere d’arte, Chichiarelli era in particolare in
contatto con un paio di carabinieri del nucleo tutela patrimonio artistico,
probabilmente Imondi e Solinas (pag. 14 del pdf).
Ma ciò che ci
interessa, è che, sempre a seguito dell’incalzare di Gotor, Cornacchia abbia
escluso radicalmente (sempre pag. 13 del pdf) non solo di avere contatti
personali egli stesso con Chichiarelli, ma anche di averlo mai conosciuto nel
modo più assoluto (testuale).
Arriviamo quindi
al momento topico (pag. 17 del pdf).
Spostatasi la
discussione sull’omicidio Pecorelli, il Senatore Gotor introduce la
questione del borsello, rivolgendosi così a Cornacchia: “Senta, nel
dicembre del 1979, mi sembra – ma non ne sono così sicuro a memoria – viene
trovato un borsello. A me risulta che lei abbia fatto delle indagini.”
(Poco dopo Gotor si corregge, dando atto di avere immediatamente verificato la
data esatta del ritrovamento, 14 aprile 1979: nda).
La risposta di
Cornacchia è di quelle che avrebbero meritato una specifica audizione dedicata:
“No, non nel dicembre, molto prima, forse l’anno precedente. Chichiarelli
me lo fece recapitare lui il borsello”.
Alla conseguente
richiesta di Gotor a Cornacchia se egli potesse approfondire, il presidente
Fioroni interveniva chiudendo il discorso: “No, finiamo, tanto proseguiremo
in altra seduta.”.
Come ho accennato,
purtroppo non ci sarà nessuna “prosecuzione” sul punto, né in quella stessa
seduta, né nella successiva ed ultima del novembre 2016. E la questione del
ritrovamento del borsello resterà ancora una volta avvolta nel mistero.
Restano quelle
poche parole di Cornacchia, le quali:
a) smentiscono
e contraddicono quanto da lui affermato in CM-1 nel 1982, di non sapere
nulla al riguardo;
b) smentiscono
e contraddicono, senza che nessuno in CM-2 gli abbia immediatamente contestato
l’evidente “virata”, l’affermazione fatta poco prima di non avere mai nulla
avuto a che fare con Chichiarelli.
Un fatto
essenziale, comunque necessariamente da rilevare, si interpone tra la sterile audizione
di Cornacchia in CM-1 del 1982, e quella di segno opposto del 2016 in CM-2: e
cioè che nel 1982 Chichiarelli era ancora vivo ed attivo.
Il generale Cornacchia
improvvisamente loquace- forse fin troppo- dei giorni nostri, ha tra l’altro di
recente fatto trasparire più che un’ipotesi che Chichiarelli agisse anche su
mandato dei servizi israeliani, cioè del Mossad: https://darksideitalia.it/tony-chichiarelli-e-il-mossad-una-nuova-luce-sul-caso-moro/
Forse fin troppo
loquace, dicevo: Cornacchia, assuntosi, ad esempio, la primogenitura dell’intervento
in Via Caetani il 9 maggio a dispetto di risalenti fonti documentali e
fotografiche, è un testimone al quale, con ogni evidenza – se ci riferiamo
anche solo alla giravolta sulla vicenda del borsello tra CM-1 e CM-2 – va fatta
opportunamente una “tara” (come peraltro ad altri testimoni tardivi sulla
vicenda Moro), in quanto, anche nei toni delle sue interviste degli ultimi
anni, non lesina di far trasparire un qual certo protagonismo.
Egli è tuttavia un
uomo che fu di sicuro dentro agli apparati e che quelle vicende ha vissuto e
conosce – direttamente o de relato da suoi fedeli ex colleghi, anche
dopo aver cambiato reparto- come pochi altri: è quindi difficile passare del
tutto sotto traccia l’affermazione resa in CM-2 in risposta a Miguel Gotor, e
rimasta purtroppo priva di qualsiasi seguito (se non per quanto da egli stesso
continuato a raccontare come riportato dall’articolo di “Darkside” disponibile
al link che ho poc’anzi indicato).
Anzi, proprio
perché Cornacchia ha detto ciò che ho riportato, e proprio perché quanto egli
ha detto non ha avuto alcun seguito, la “notizia” che egli sarebbe stato il
terminale della consegna di quel borsello da parte di Chichiarelli stesso, impone
una volta di più di continuare ad analizzare, come sto tentando di fare, le
anomalie testimoniali e documentali inerenti quanto avvenuto in quella
primissime ore del 14 aprile 1979.
Ed è quindi a
questo punto giunto il momento opportuno per analizzare più in dettaglio le
testimonianze di Almagià, Gilberto, Pallas, e del tassista Mariano Bini,
comparando le rispettive descrizioni, ove possibile, delle medesime circostanze
che caratterizzano i fatti di quella notte. Alle loro dichiarazioni, posso
aggiungere l’esame della deposizione di Alfio Carbone, centralinista del “Radio
Taxi” in servizio quella serata, sulla quale fino ad ora – salve mi sviste
- non mi risulta pubblicato alcun riferimento
e che ho finalmente reperito con l’ausilio degli altri componenti del gruppo di
studio “sedicIDImarzo” (e in particolare, del nostro coordinatore Franco
Martines) alla pag. 593 del seguente link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_018.pdf
Le deposizioni dei
tre principali protagonisti – Almagià, Gilberto e Pallas – presentano, prima di
tutto, due ordini di singolarità che le caratterizzano trasversalmente:
- in primo luogo,
in ordine cronologico il primo a deporre - stando al verbale, alle ore 6.00 –
fu Almagià, il quale tuttavia – sempre prestando fede alla versione ufficiale
che emerge dai documenti – non era presente nel momento topico del ritrovamento
del borsello e della prima sommaria verifica del suo contenuto, che i due suoi
ospiti avrebbero infatti svolto all’uscita dal “Make Up”. Non è quindi
chiaro perché l’ordine delle testimonianze non fu inverso, e non furono fatti
testimoniare per primi i due giovani americani;
- secondo poi, i
due giovani americani non parlavano affatto (Pallas) o non parlavano bene
(Gilberto) la lingua italiana; fu quindi assunto ad interprete lo stesso
Almagià, il quale però non solo rivestiva per l’appunto a sua volta la veste di
testimone, ma per di più aveva già deposto, e quindi non poteva presumersi
imparziale: Almagià, testimone egli stesso, non solo assistette, direi in
modo irrituale, all’assunzione di sommarie informazioni testimoniali degli
altri due, ma di costoro fu anche l’interprete. Il tutto senza che neppure
risulti un ammonimento da parte degli interroganti ad Almagià con
conseguente giuramento di adempiere fedelmente la sua funzione di
interprete.
In sostanza, gli
investigatori all’epoca dovettero fare, come del resto dovremmo fare noi oggi,
un atto di fede su quanto dichiarato da Gilberto e Pallas. Tuttavia, il
fatto che per gli inquirenti quelle modalità di acquisizione delle
testimonianze a quanto pare furono idonee, ciò non significa che esse debbano
essere ritenute soddisfacenti anche per i ricercatori.
Resta da chiedersi,
in ogni caso, come fu possibile che, in una situazione come quella, non si sia
attesa la disponibilità di un traduttore ufficiale imparziale per
raccogliere le deposizioni dei due americani.
Come ho già
rilevato, queste due circostanze (cronologica e linguistica) non risultano neppure
superate ed emendate a posteriori a seguito di una ripetizione delle
testimonianze davanti a un magistrato, poiché, a quanto mi risulta, nessuno
dei tre è stato mai ascoltato dall’autorità giudiziaria.
Faccio salve
alcune dichiarazioni di Almagià rese ai giorni nostri, su articoli di stampa
apparsi il 2 novembre 2024, stando alle quali egli sarebbe anche stato, in non
meglio precisate sedi, anche accusato di essere stato il custode della Renault
4 rossa nella quale fu rilasciato il cadavere di Moro. Ci tornerò più avanti.
Resto comunque, e
volentieri, a disposizione di chiunque sia eventualmente a conoscenza di
ulteriori atti processuali, anche solo in sede di istruttoria, che dovessero
emergere sui tre personaggi in questione, e che voglia utilmente contribuire
alla compiuta conoscenza storica di questo fatto.
(In ordine alla
cronologia ed alle modalità di assunzione, e in ogni caso al contenuto, delle
tre testimonianze, anche per quanto eventualmente affrontato in seguito, rinvio
di nuovo alle pagine da 12 a 16 del già citato link:
Tenendo presenti
questi limiti, si può tentare di comparare le varie testimonianze.
Quella di Almagià
è apparentemente del tutto asettica, per quanto riguarda il ritrovamento del
borsello, in quanto nel complesso limitata al racconto che gli sarebbe stato
fatto dai due giovani ospiti, e quindi non inerente a fatti osservati personalmente.
Tuttavia, alcune
circostanze riferite da Almagià sono di certo, almeno in linea teorica,
riferibili alla sua diretta conoscenza: a) in primo luogo, il fatto che i due
giovani americani sarebbero usciti di casa con un taxi verso l’una (Almagià
potrebbe benissimo avere collaborato alla chiamata del taxi); b) poi, il loro
rientro a casa verso le 3.15 con il borsello; c) inoltre, l’apertura del
borsello con la verifica del suo contenuto; d) infine, il fatto avere
immediatamente avvertito gli organi di polizia e di essersi recati alla caserma
Podgora.
Viceversa, non è
rilevante l’affermazione di Almagià secondo la quale i due americani si
sarebbero recati al “Make Up”: di ciò egli non poteva averne alcuna certezza e
avrebbe perciò dovuto affermare più correttamente - a differenza del resoconto
testuale del verbale della sua testimonianza dalla quale traspare una
conoscenza diretta del fatto - che questa circostanza gli era stata riferita
dai due.
Le testimonianze
di Gilberto e Pallas – ricordo, tradotte da Almagià, e successive alla
deposizione di costui- sono del tutto identiche, anche semanticamente, in
merito ai fatti della serata ed in particolare sugli orari, che finiscono
altresì per coincidere non solo l’uno con quanto dichiarato dall’altro, ma
anche con quelli dichiarati – prima di loro – da Almagià.
Infatti, Gilberto –
secondo a deporre, alle 6.15, e primo dei due giovani - afferma di essersi
voluto recare al locale verso le ore 1.00 insieme alla sua amica, giungendovi
verso l’1.15. Tralasciando per ora le circostanze di ritrovamento del borsello,
Gilberto afferma di averne controllato il contenuto solo verso le 3.00 “all’atto
dell’uscita dal locale”. Se si tiene presente il presunto tempo di
percorrenza occorso all’andata (un quarto d’ora), ecco che il rientro a casa
finisce per coincidere perfettamente con quanto dichiarato da Almagià, ovvero
le 3.15 circa. Anche se c’è un aspetto poco chiaro, di cui dirò tra poco.
Prima è il caso di
annotare quanto, sugli stessi punti, ha dichiarato la signorina Pallas, a
partire dalle ore 6.45.
Pallas ripete
esattamente gli stessi orari attestati da Almagià e Gilberto: i due amici si
sarebbero recati al locale partendo verso l’1.00; sarebbero arrivati verso
l’1.15; il primo controllo sommario del contenuto del borsello sarebbe avvenuto
“all’atto dell’uscita dal locale notturno e cioè verso le ore 3.00”.
Come si vede, le
parole utilizzate sono esattamente la copia di quelle di Gilberto.
Anche questa
testimonianza, fatti due conti per analogia con la durata del tragitto di
andata, sembra implicare la concordanza dell’arrivo a Via della Lungara n. 3,
verso le ore 3.15, con quanto dichiarato per primo da Almagià.
Tuttavia, nessuno
dei due studenti rende un’espressa dichiarazione sull’orario, neppure
approssimativo, di rientro a casa, né, a quanto si desume, nulla in merito gli
deve essere stato domandato.
Non solo. Entrambi
gli studenti, sia pure con formulazioni letterali leggermente diverse, lasciano
trasparire un lasso temporale tra il controllo del borsello “all’atto
dell’uscita dal locale, e l’arrivo del taxi chiamato per tornare a
casa. Non è quindi del tutto chiaro a che ora sarebbero saliti sul taxi per il
ritorno a casa, nè a che ora effettivamente sarebbero rientrati.
In ordine a questo
aspetto, si possono formulare un paio di ipotesi basandosi sulla testimonianza
del centralinista del Radio Taxi, Alfio Carbone, pag. 593 al link già citato e
che qui per comodità riporto:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_018.pdf
In merito a questa
testimonianza sulle chiamate di quella sera da lui ricevute al centralino,
tralascio per ora le chiamate attorno all’ora di partenza per il locale, e mi
limito a quelle effettuate specificamente dal “Make Up”.
La prima
chiamata segnalata in orario successivo alle 3.00, dunque troppo tardiva ai nostri fini, è una
chiamata alle 3.26.
Restano quindi,
come chiamate più papabili, una delle 2.25 e una delle 2.33 (per quanto
indicate dal testimone in ordine cronologico inverso, almeno stando al
verbale).
Se il tempo di
percorrenza fu effettivamente di 15 minuti (e così risulterebbe anche oggi da
google maps), i due sarebbero pertanto giunti a casa almeno mezz’ora prima
delle 3.15.
Ciò significa che al
“buco” informativo su che cosa accadde in caserma nel lasso compreso tra le due
e le tre ore, tra le 3.50-4.00 e le 6.00 (inizio del verbale di Almagià), si
dovrebbe aggiungere un “buco” informativo di circa un’ora su che cosa accadde
in casa di Almagià, tra le 2.45 circa e le 3.45 circa, considerando che da
Via della Lungara n. 3 alla caserma Podgora occorrono 4 minuti a piedi.
L’aspetto
investigativo non propriamente convincente, per usare un eufemismo - e che tra l’altro è quello che mi ha spinto
a ricercare negli atti, per un ormai istintivo moto di diffidenza verso le
“conclusioni” di rapporti di sommaria indagine preventiva, l’auspicata
esistenza del verbale di Alfio Carbone- è che nel correlativo rapporto alla
Procura del 21 aprile si afferma che dalla deposizione del centralinista “non
sono emersi elementi di rilievo”; cfr. pag. 122 al link
seguente:
https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf
Riepilogando
quanto sin qui illustrato:
a)
La tempistica dello svolgimento dei fatti viene fissata di fatto dalla
testimonianza di Almagià, ascoltato per primo nonostante che non fosse stato
neppure presente al momento del ritrovamento del borsello. Almagià fissa tanto
l’orario di partenza verso il “Make Up” (1.00) dei suoi due studenti, che
l’orario del loro rientro in casa (3.15);
b)
Almagià è egli stesso testimone; ciò nonostante assiste alle
testimonianze degli altri due protagonisti e, addirittura, funge da interprete
per la loro deposizione;
c)
Le testimonianze di Gilberto e
Pallas in ordine agli orari e al primo controllo sommario, da parte loro, del
contenuto del borsello sono sostanzialmente in fotocopia;
d)
L’orario presunto di rientro in casa si scontra con gli elementi di
dubbio, discendenti dagli orari delle chiamate dal “Make Up” di quella notte,
che scaturiscono dalla deposizione del centralinista del “Radio Taxi”, Alfio
Carbone.
A fronte di un verbale testimoniale del centralinista del Radio Taxi che-
ben lungi dall’essere privo di “elementi di rilievo” come invece
attestato dal rapporto dei carabinieri del 21 aprile – avrebbe meritato
approfonditi riscontri davanti a un magistrato, le testimonianze di Almagià,
Gilberto e Pallas, riguardo l’aspetto degli orari della vicenda, appaiono, a
mio parere, come le pagine di una sceneggiatura concordemente confezionata, uno
spartito stonato rispetto alle normali differenze di ricordi mnemonici che di
solito caratterizzano la definizione degli orari tra un teste e l’altro
(basterebbe confrontare queste tre dichiarazioni con quelle degli orari
dell’agguato di via Fani, ben più variamente indicati dai testi della vicenda).
Non risulta credibile, cioè, a mio parere, che tre testimoni indichino
senza alcuna forbice temporale, e senza alcun tentennamento, le ore 1.00 esatte
per la partenza dei due giovani da Via della Lungara, e le ore 3.15 per il loro
rientro a casa; quanto a quest’ultimo orario, peraltro, in sostanza smentiti
dalla testimonianza del centralinista del “Radio Taxi”, perché è evidente che,
per coerenza con la tempistica da essi dichiarata, essi non poterono prendere,
al “Make Up”, il taxi chiamato alle ore 3.26, bensì o alle 2.25 o, al massimo,
alle 2.33.
Bisogna aggiungere che la sensazione che si ricava dalle tre
testimonianze è che quella della signorina Pallas sia stata di mero contorno:
una testimonianza di cornice aggiunta esclusivamente per corroborare le
affermazioni degli altri due protagonisti.
Occorre, in proposito, soffermarsi sull’aspetto centrale, quello delle
presunte circostanze del ritrovamento del borsello.
Tralasciando la deposizione sul punto di Almagià, non rilevante, Gilberto
– il primo dei due giovani a deporre- afferma che appena giunti al locale, alle
1.15 circa, “nell’uscire dal mezzo ho urtato con i piedi contro un oggetto, rivelatosi poi un
borsello, che si trovava sul pavimento nel vano posteriore del veicolo. Ho
raccolto detto borsello, ritengo senza che se ne fosse accorto il conducente
del taxi e mi sono portato all’interno del
locale senza per il momento controllare il contenuto dello stesso”.
Verso la fine della deposizione, Gilberto precisa inoltre che: “della
presenza del borsello all’interno del taxi mi
sono accorto io solo ed all’atto di uscire, solo in un secondo tempo e perché
da me informata del fatto è venuta a conoscenza anche la sig.na Stephanie”.
La signorina Pallas – confermato, al minuto, l’orario di arrivo al “Make
Up dichiarato da Gilberto - riscontra il
ritrovamento del borsello da parte del collega di studi, con una leggerissima
differenza: “…dopo che io ero uscita dal mezzo, ho notato
che il sig. Gilberto posava a terra un borsello che non era di sua proprietà. Una
volta partito il taxi chiedevo al Gilberto dove avesse
trovato il borsello e apprendevo così che questo era stato rinvenuto sul
pavimento del vano posteriore del taxi. Sul momento non abbiamo controllato il contenuto del
borsello…”
Le due deposizioni sono identiche, di nuovo, sul piano testuale, riguardo
alla presunta collocazione del borsello “sul pavimento del vano posteriore” del taxi. La particolarità è nel fatto che
Gilberto depone, tradotto da Almagià, prima della Pallas ed afferma la
conoscenza diretta dell’ubicazione del borsello; poco dopo la Pallas,
ugualmente tradotta da Almagià, ripete testualmente il fatto, tuttavia con
l’accortezza di traslare la costruzione sintattica quale fruitrice passiva
dell’informazione riferitale da Gilberto.
Non fa una piega, non c’è che dire. Non c’è dubbio che tra le 3.50 e le
6.00, di tempo per acquisire correttamente le deposizioni potrebbe essercene stato
a sufficienza.
Ma in questa cornice di quasi assoluta perfezione, il dettaglio che
stona, e nel quale si usa dire che si nasconda il Diavolo, c’è.
Gilberto infatti, nel corso della sua precisazione, evidentemente
riduttiva del ruolo della Pallas, afferma, come si è visto, che costei
sarebbe venuta a conoscenza del fatto unicamente in quanto da lui stesso informata.
La Pallas, invece, stecca una nota dello spartito: afferma infatti di avere
notato lei stessa che Gilberto posava a terra un borsello.
I due sarebbero usciti insieme: è dunque secondaria la circostanza
rilevata dalla Pallas che il borsello non fosse di proprietà del Gilberto; la
Pallas, insomma, doveva ben sapere che
Gilberto non aveva con sé un borsello. In quale
altro luogo, quindi, Gilberto avrebbe
potuto reperirlo, se non sul taxi?
Il fatto, dunque, di far risultare la circostanza, di per
sé ridondante, che Gilberto a quanto pare abbia messo al corrente la Pallas di
aver ritrovato quel borsello sul taxi, suona con molta verosimiglianza come
un artificio dialettico per, al contempo, collocare la Pallas in quel luogo e
in quel “tempo” quale utile puntello testimoniale, e, altresì, conferirle un
ruolo – evidentemente a sua tutela (del genere: “tranquilla, testimone si, ma
fino a un certo punto”) - del tutto
secondario.
D’altronde, il vano posteriore di un normale veicolo non è
paragonabile ad un vasto volume colmo di oggetti.
Questo banale rilievo apre sostanziosi dubbi sulle modalità di
rinvenimento del borsello dichiarate dai due studenti americani.
Primo: non si capisce come sia stato possibile che Gilberto abbia
urtato contro il borsello solo all’atto di scendere, non accorgendosi della sua
presenza sul pavimento né al suo ingresso nel veicolo, né durante tutto il
viaggio, dato che intuitivamente il borsello dovette essere ubicato vicino ai
suoi piedi dall’inizio alla fine del viaggio.
Secondo: non si capisce come, in quel limitato spazio, la Pallas non
si sia a sua volta minimamente accorta durante il tragitto della presenza
del borsello.
La versione del ritrovamento raccontata dai due non mi pare, dunque,
minimamente credibile.
In tal senso depongono anche le altre circostanze del presunto
ritrovamento.
Prima di tutto, non ha alcuna logica il comportamento dei due americani.
Costoro si sarebbero resi responsabili di un fatto penalmente rilevante,
appropriandosi indebitamente del borsello. Ma la possibile rilevanza penale
del fatto passò evidentemente in secondo piano, davanti ai carabinieri, per la ben
diversa rilevanza del contenuto del borsello.
Non si capisce per quale ragione essi non avrebbero dovuto avvertire il
tassista della presenza del borsello, dato che tra l’altro, per quanto potevano
saperne, quel borsello ben avrebbe potuto appartenere proprio al tassista. Il
quale, comunque, se informato, avrebbe potuto attivarsi con l’aiuto della
propria centrale per cercare di rintracciare chi avrebbe dimenticato il
borsello sul taxi.
Ma al netto di ciò, è del tutto inaccettabile, perché priva
di ogni logica, anche la sola semplice idea che i due studenti avrebbero
conservato il borsello per quasi due ore all’interno del locale, senza avere
alcuna curiosità di verificarne il contenuto se non all’uscita (con il rischio, tra l’altro, di
smarrire o dimenticare il borsello, o di subirne il furto: eventi, questi
ultimi, che rendono per l’appunto inverosimile l’adozione, da parte di chi
intese far ritrovare quel borsello, di questa strana e curiosa modalità di
“consegna”).
Questa considerazione è tanto più
rafforzata dalla circostanza che la signorina Pallas, stando alla sua versione,
avrebbe appunto chiesto ragione a Gilberto, appena scesa dal taxi, del possesso
di quel borsello: è quindi del tutto inverosimile che i due non abbiano deciso, per logica
conseguenza di quel ritrovamento, come sarebbe stato ben più ovvio, di
verificarne subito il contenuto, o che non abbiano avuto alcuna discussione sul
da farsi, nell’immediatezza di quel ritrovamento.
E d’altra parte, sono solo le loro parole, e quelle peraltro
apparentemente de relato di Almagià (in realtà, lo ripeto, il primo a
rendere la propria versione attorno alla quale aderiscono poi quelle dei due
americani), a raccontarci di un ritrovamento del borsello sul taxi, e per di
più sul taxi del viaggio di andata e non su quello di ritorno, con la
conseguenza di creare quel buco inspiegabile di due ore prima che i due giovani
avvertissero la curiosità di guardare dento al borsello.
Il tassista Mariano Bini, infatti (cfr. il citato fascicolo CM-2, n. 327_02, pagg.
17 e segg., al link più volte sopra unito) rintracciato a fine turno ed
individuato come colui che aveva condotto i due giovani al “Make Up”, con il
proprio taxi denominato “Pisa-1”,
alle 7.35 dichiara che, al netto di un possibile controllo
superficiale, controllo che comunque egli era solito compiere, non aveva notato
alcun oggetto nel veicolo né al momento del ritiro del veicolo all’inizio del
turno, né successivamente durante il servizio.
Come sua mera sensazione personale, ma ammettendo di non avere alcun
elemento certo in proposito, dichiara che le persone che avrebbero potuto
abbandonare il borsello nel taxi avrebbero potuto essere “i due tedeschi”
che egli verso le 23.20 aveva condotto da un ristorante di Trastevere al locale
“make Up”, quindi ben prima di accompagnarvi anche i due americani. In ogni
caso va notato che dopo queste due persone “tedesche”, ma alle 23.45, quindi prima di prendere Gilberto e Pallas in Via della Lungara, Bini, assieme ad un suo collega, aveva fatto
salire una piccola comitiva di altri otto stranieri (quattro coppie, che a
suo dire si esprimevano in portoghese) nella zona del Teatro Quirino.
I “portoghesi” saliti, in particolare, sul suo taxi erano quattro: presumendo la regolare occupazione del veicolo, e
quindi con un solo passeggero davanti, ciò vuol dire che nello spazio
posteriore presero posto tre persone. In uno spazio reso più angusto,
intuitivamente, di quello avuto a disposizione in seguito dai due americani, è
abbastanza inspiegabile che nessuno dei tre “portoghesi” abbia urtato contro il
borsello o comunque nessuno si sia accorto della sua presenza.
L’affermazione più interessante, sul punto, resa da Bini è comunque
quella conclusiva della sua deposizione, e cioè di non essersi accorto,
durante il servizio di quella notte, che qualche cliente avesse raccolto
qualcosa all’interno del suo veicolo.
La descrizione dei propri viaggi di quella notte tra il 13 e il 14 aprile
fatta dal tassista non può purtroppo essere verificata mediante la comparazione
con la deposizione del centralinista del Radio Taxi, Alfio Carbone, perché
quest’ultimo, come si è visto, riporta in dettaglio solo la decina di chiamate
ricevute quella notte dal locale “Make UP”: salvo che per due eccezioni di cui
dirò tra breve.
La scansione riferita dal tassista non è sicuramente un esempio di
precisione svizzera: al netto di possibili, e forse probabili, errori di
trascrizione nella verbalizzazione, ad un certo punto da una chiamata delle
23.20 si retrocede di nuovo alle 23, per poi “risalire” alle 23.45. I viaggi a
partire dalle ore 23 circa assumono inoltre una frequenza quasi frenetica,
tenendo conto del fatto che si sta parlando di Roma e dei tempi che, per come
narrati, in alcuni tratti sono veramente stretti.
Ma l’elemento più stonato del verbale di Bini è l’orario indicato al
quale egli avrebbe preso a bordo i due americani in Via della Lungara, cioè le “00,05”
(mezzanotte e cinque minuti), e non quasi l’1.00 come testimoniato da
Almagià e dai due studenti.
Questa versione apre un problema, perché in effetti una delle due
eccezioni cui ho fatto cenno, nel verbale del centralinista Carbone, conferma
gli orari delle testimonianze di Almagià e dei due giovani americani.
Carbone infatti, a richiesta, precisa di avere mandato il taxi “Pisa-1”
(cioè Bini) a Via della Lungara, in risposta alla telefonata ricevuta proprio alle
00.50 (cioè l’una meno dieci, orario compatibile con le versioni dei tre
protagonisti), da parte di un cliente “il quale chiedeva un taxi che doveva
portarlo da via della Lungara al locale Mik-up (sic!)”.
Pertanto, l’orario che appare dichiarato da Bini alle “00,05” potrebbe
essere frutto di un banale errore di battitura con inversione delle due cifre
dei minuti.
Tuttavia va anche detto che a fronte di una descrizione assai serrata dei
viaggi compiuti tra le 22.30 circa in poi fino al momento in cui egli raccolse
i due americani (cioè dire, stando alla trascrizione, a mezzanotte e cinque), qualora
ci trovassimo effettivamente davanti ad un errore di trascrizione e al posto
delle 00,05 dovessimo dunque leggere le 00,50, si aprirebbe per converso un
singolare “buco” lavorativo, una cesura nell’attività, o quanto meno nelle
notizie in merito ad ulteriori trasporti eseguiti, di circa un’ora da parte del
tassista nel momento più intenso della sua serata, a partire dal momento in cui
condusse a destinazione i “portoghesi” in Via S. Lucio.
Purtroppo non aiuta a dirimere il dubbio il fatto che Bini non dica
praticamente mai a quali orari sarebbe giunto alle destinazioni richiestegli
dai clienti, bensì solo il presunto orario di raccolta. Ad esempio, per quanto
ci interessa, nella deposizione di Bini non risulta nulla né in ordine al
suddetto arrivo in va S. Lucio con gli ultimi clienti trasportati precedentemente
ai due americani, né in ordine all’arrivo al Make Up dei due americani, che
possa aiutare ad interpretare, in un senso o nell’altro, la trascrizione di
quell’orario di partenza da Via della Lungara.
Così come, analogamente, la mancata registrazione da parte di Carbone
delle destinazioni richieste da quella decina di clienti che chiamarono dal
locale non aiuta a definire con la maggior precisione possibile il reale – ed
altrettanto importante - orario di rientro a casa dei due. Orario che se non
altro, per quanto ho riscontrato proprio nella deposizione di Carbone, come ho
già detto mi sembra si possa comunque ragionevolmente anticipare di almeno
mezz’ora rispetto alle 3.15 circa attestate da Almagià e dai suoi due studenti.
Sta di fatto che se, come sembra dal rapporto di Cornacchia a Sica e
dalla scansione cronologica degli atti, Bini fu rintracciato quasi subito
(depone alle 7.35), e se il centralinista Carbone depone alle 10.25, fornendo
orari delle chiamate almeno in apparenza più affidabili, sarebbe stato quanto
meno opportuno rendersi conto della differenza di quasi un’ora tra quanto
attestato dal tassista (le 00.05) e quanto risultava al centralinista (00.50) ,
e richiedere sia all’uno che all’altro gli ulteriori chiarimenti del caso.
C’è tuttavia un quesito che rimane non esattamente soddisfatto, in base
almeno ai documenti qui citati (che sono quelli che poi per ora sono riuscito a
reperire):
e cioè, quando e come viene rintracciato il
tassista, visto che gli americani non ne ricordavano neppure la sigla?
Carbone infatti, che come detto viene tra l’altro ascoltato quasi tre
ore dopo che il tassista era già stato rintracciato e accompagnato in caserma, dopo avere indicato le
sigle dei taxi e in particolare il “Pisa-1” che si era recato a via della
Lungara alle 00.50, afferma tra le varie cose: “…né
posso specificarvi l’identificazione dei conducenti dei taxi, in quanto gli stessi sono
registrati presso l’ufficio amministrativo della cooperativa Radio Taxi sita in
via Sn Pio V nr. 20”.
Insomma, neppure Carbone, quando peraltro Bini ha ormai già deposto, può
riferire l’identità del conducente, e, anche nell’ambito della tempistica più
compatibile, cioè ancora alle 6 di mattina, i due studenti non sanno nulla
dell’identificativo del taxi.
Come si arriva, quindi, ad individuare Bini, alle 7 scarse di mattina?
E come mai, a parità delle difficoltà manifestate in proposito dal
centralinista, non si è arrivati invece ad identificare anche quella decina di
tassisti che furono chiamati dal “Make Up”?
Sono due domande alle quali purtroppo non so, al momento, dare una
risposta.
C’è poi un’altra singolarità nella deposizione di Alfio Carbone (il
centralinista). Rilevato che tra l’altro proprio la chiamata delle 00.50, alla
quale fornisce riscontro il taxi “Pisa-1” (Bini) è indicata come pervenuta da
Via della Lungara ma curiosamente senza indicazione del numero civico,
viceversa subito dopo – ed è la seconda eccezione cui mi riferivo innanzi in
ordine alle specificazioni rese sui luoghi di destinazione dei taxi, almeno
nella deposizione di Carbone – il centralinista riferisce di una ulteriore
chiamata pervenuta poco dopo sempre da Via della Lungara, questa volta con la
precisazione del numero civico 3 (cioè il medesimo del domicilio dichiarato da
Almagià e dai suoi due ospiti), per quanto si riesce a leggere sembra alle ore 1.18,
chiamata rimasta però senza seguito per abbandono da parte del cliente mentre
il centralinista stava reperendo un taxi.
La coincidenza, ammesso che sia tale, è sicuramente notevole, anche se purtroppo
temo che rimarrà senza alcun esito la curiosità di sapere chi altri, e perché,
chiamò un taxi in quegli stessi minuti da Via della Lungara n. 3, in quella
notte di inganni e sotterfugi.
Eppure si tratta di un aspetto assolutamente interessante e meritevole di
approfondimento, se si tiene presente la filologia della deposizione del
centralinista Carbone.
Infatti, la parte centrale della sua testimonianza è, come ho già
rilevato, incentrata sulla decina di chiamate che sarebbero partite quella
notte dal locale “make Up”: in sostanza, chi interrogava stava chiaramente
cercando di far emergere il nesso delle chiamate con quel locale.
Carbone, come si è visto, precisa di non avere avuto contezza della
destinazione dei clienti raccolti presso il locale da quei dieci taxi, e subito
dopo aggiunge, dopo aver chiarito di avere controllato “minuziosamente”
tutte le registrazioni inerenti il suo turno di servizio, che dal “Make UP” vi
erano state “soltanto le chiamate di cui sopra”.
Improvvisamente, rispondendo a specifica domanda (il cui contenuto è
ignoto in quanto il verbale riporta solo la risposta a seguire della formula
burocratica “A.D.R.”), egli, appunto, precisa che verso le 00.50 era anche
giunta una chiamata (da Via della Lungara, senza indicazione del civico) per
recarsi al “Make Up”, proseguendo di getto con l’aggiunta, in quello stesso
frangente sintattico descrittivo, dell’ulteriore chiamata in argomento (da Via
Lungara civico 3) che suona per l’appunto come resa fuori contesto, priva com’è
dell’indicazione della destinazione richiesta dal potenziale cliente, e troncata
di netto durante la ricerca del taxi.
In altre parole, se il parametro che aveva caratterizzato l’assunzione
del teste era quello dei tragitti (soprattutto) da e (in un solo caso) verso il
Make Up, è chiaro che occorre chiedersi perché Carbone, nonostante non abbia
fornito alcuna indicazione sulla destinazione richiesta, abbia inserito
l’aggiunta della seconda chiamata, giunta alle ore 1.18 proprio da Via della
Lungara 3, in quel contesto che faceva riferimento al Make Up.
E sarebbe stato interessante sapere, oltre alla possibile destinazione,
come mai quel cliente rimasto misterioso abbandonò di netto la telefonata con
il Radio Taxi.
Tirando le fila sulla deposizione del centralista, il suo contenuto offre
spunti tutt’altro che di scarso o nessun rilievo, come invece affermato dal
rapporto di accompagnamento dei carabinieri alla Procura.
In primo luogo, anche a voler tenere per buona la versione ufficiale del
ritrovamento del borsello, non torna l’orario di ritorno a casa dei due
americani che, a presumibile parità di durata del tragitto rispetto a quello di
andata, va probabilmente anticipato di almeno mezz’ora rispetto alle 3.15
dichiarate da Almagià e dai due giovani.
Secondo poi, non si capisce, se non nell’ottica di
voler canalizzare l’attenzione sul racconto del viaggio di andata verso il Make Up, il fatto che mentre si riuscì a
rintracciare- a quanto pare – con una tempestività di cui, come ho detto,
sfuggono le circostanza, il proprietario del taxi “Pisa-1”, e ad interrogarlo
già alle 7.35, non furono rintracciati invece i proprietari del 10 taxi
indicati da Carbone come quelli che in quelle ore notturne erano stati chiamati
dal locale.
Nessuno di costoro risulta rintracciato, e dunque nessuno risulta
interrogato; ecco dunque che la versione ufficiale, il racconto di quella notte
e del ritrovamento del borsello, viene costruita, e vi rimane ancora oggi
posizionata, lungo un asse portante del tutto sbilanciato sulla prima metà del
racconto, cioè sulla versione secondo la
quale il borsello sarebbe stato casualmente rinvenuto al termine del viaggio di
andata al locale notturno.
Una versione monca, non c’è che dire, se non altro perché priva di
qualsiasi riscontro da parte dell’anonimo tassista che avrebbe accompagnato a
casa i due americani dal Make Up: tanto per essere ancora più chiari, priva di
qualsiasi riscontro non su un dettaglio qualsiasi, ma su un elemento centrale
della versione, e cioè se effettivamente un po' prima delle 3 di mattina i
passeggeri in questione avessero con sé effettivamente un borsello all’uscita
dal locale.
Certo, la valutazione del redattore del rapporto per la Procura (capitano
Antonino Tomaselli) che accompagnava-
tra l’altro – il verbale testimoniale di Carbone, indicandola come priva di “elementi
di rilievo” non deve avere sollecitato molto- per usare un eufemismo- l’interesse e gli sforzi dei magistrati; però
forse – così credo- sarebbe bastato
leggere quel verbale (allegato ovviamente al rapporto) per farsi venire lo
scrupolo o la banale curiosità di voler individuare ed ascoltare quei 10
tassisti.
Purtroppo, almeno nei limiti di una libera ricerca on line su
fonti aperte, non mi risulta alcuna citazione a testimoniare, né tanto meno
un’assunzione effettiva, davanti ad un magistrato, neppure del centralinista Alfio
Carbone; così come, peraltro, di uno qualsiasi di quei tassisti, o del tassista
Bini, di Almagià o dei due americani.
V) ALCUNI ALTRI ELEMENTI SUL BORSELLO. DAGLI ANNI ’90 AI GIORNI NOSTRI.
V-A) L’ufficiale dei carabinieri Raffaele Vacca.
In due deposizioni assunte il 15 ed il 27 marzo 1995, davanti al Pubblico
Ministero del processo sull’omicidio Pecorelli, pendente a Perugia, deponeva
l’allora Tenente Colonnello dei carabinieri Raffaele Vacca.
Egli stesso, ripercorrendo sommariamente in quelle sedi la propria
carriera, ricordava di essere stato – all’epoca, con il grado di capitano – in
servizio al Centro Sisde di Roma dal 1° aprile 1979 al 31 dicembre 1982, e
ancor prima, tra il 1971 e il 1976 presso il Nucleo Operativo di Roma a
Trastevere, tra il 1971 e il 1976, senza celare di essere stato in contatto,
durante il servizio a Trastevere, sia pure per motivi di servizio e cioè al
fine di raccogliere ogni possibile informazione utile, con Franco Giuseppucci,
uno dei capi riconosciuti della “Banda della Magliana”, noto con il soprannome
di “negro” (e divenuto noto soprattutto nella versione romanzata e
cinematografica del suo personaggio come “il libanese”) nonché con Danilo
Abbruciati ed Enrico “Renatino” De Pedis, omologhi del “negro” in quel consesso
criminale (cfr. alle pagine 214 e
seguenti al link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_035.pdf).
Medio tempore, il 18 marzo dello stesso anno, in un verbale di sommarie
informazioni come persona informata dei fatti innanzi il ROS- sezione
anticrimine dei carabinieri di Roma, Vacca dava atto di avere recapitato a
quell’Ente, per farne consegna alla Procura di Perugia, delle proprie agende
personali relative, tra gli altri, all’anno 1979 (pag. 219, link sopra unito.).
Nella seconda deposizione del 27 marzo di quell’anno davanti al PM di
Perugia, a Vacca veniva chiesto espressamente conto di una specifica
annotazione riportata alla data del 14 aprile 1979 nella propria agenda (pag.
221 del link sopra unito):
L’estratto
delle agende con le varie annotazioni sulle quali il P.M. interrogò Vacca
relative a tutti gli anni dal 1979 al 1982, si caratterizzano per la
particolarità che l’unica annotazione apparentemente di carattere privato
risulta proprio quella dell’acquisto di quel borsello. Tralascio gli anni
successivi (il tutto comunque disponibile alle pagg. 229 e seguenti del link
sopra unito), e riproduco qui per comodità l’estratto del 1979:
Non mi risulta che la deposizione sul punto di Vacca abbia avuto alcun
seguito.
Certo, al netto del colore del borsello (nero, mentre quello attestato nei
rapporti – ma non nelle testimonianze- del 14 aprile 1979 a quanto pare era
marrone; si veda sopra) e fermo restando che se, per mera ipotesi, Vacca fosse
stato compartecipe di quel “disegno”, l’avere indicato nella propria agenda un
colore diverso di quello effettivo mi parrebbe proprio – mi scuso con il
lettore per la sintesi brutale, ma che spero sia efficace - il minimo
sindacale per un agente del SISDE, rimane la singolarità di un’annotazione
di carattere tanto privato nell’ambito di una serie di annotazioni –
comprendendo anche quelle fino al 1982, per le quali rinvio al link - con tutta evidenza di natura, invece,
professionale.
Due rilievi sono comunque necessari, dei quali l’interrogante o non si è
avveduto, oppure ha deliberatamente lasciato nel “non detto” presupposto alle
domande poste a Vacca.
- a) Primo rilievo: l’annotazione dell’acquisto in
data 14 aprile ovviamente deve far presumere un acquisto avvenuto, in quella
data, a negozi aperti, e dunque ben dopo l’orario in cui il ritrovamento del
borsello sarebbe avvenuto secondo la versione ufficiale, e ben dopo le 6 di
mattina, orario intorno al quale i testimoni stavano deponendo davanti ai
carabinieri – peraltro ex colleghi di Vacca - di Trastevere; quindi di per sé
quell’annotazione non può essere collegata direttamente al borsello ritrovato
in quelle prime ore del giorno 14 aprile. Il punto non risulta purtroppo
approfondito in sede di escussione dell’ufficiale, e, a ben vedere, delle
due l’una:
o quell’argomento non avrebbe dovuto neppure essere trattato, se si ritenne di non approfondirlo in ragione
dell’evidenza che l’acquisto da parte di Vacca del suo borsello non poteva che
essere avvenuto dopo il ritrovamento di quello oggetto dell’oscura
vicenda;
oppure, se l’annotazione dell’agenda di Vacca fu affrontata perché
ritenuta fortemente sospetta, il meno che si può dire è che l’approfondimento
svolto non fu di certo coerente con quel sospetto;
- b) secondo rilievo: non è stato approfondito l’attributo apposto tra
parentesi (vero) riferito al borsello. Non è chiaro se si riferisse al
materiale (ad esempio: pelle) che comunque Vacca ben avrebbe potuto esplicitare
nell’ambito di un’annotazione così apparentemente privata, per completare la
descrizione dell’oggetto acquistato. Il significato di quella precisazione
resta dunque neutro, se non ambiguo, non potendosi riferire ad alcun elemento
in qualche modo connesso al borsello, posto che andando per esclusione logica e
filologica, il suo opposto, cioè un borsello “falso”, sarebbe con ogni
evidenza un concetto privo di qualsiasi significato concreto. Anche su
questo punto, purtroppo, è mancata la richiesta da parte del P.M. di Perugia di
qualsiasi precisazione.
Forse, combinando i dubbi di cui sopra, l’inquirente – se sospettava,
come è evidente, di quella annotazione -
avrebbe anche dovuto porsi, e porre all’ufficiale, ed ulteriormente verificare
con altri elementi, la domanda se l’annotazione riportata nella sua agenda ed
in particolare l’uso del predicato di avere “comprato” (un borsello nero (vero)”) , tenuto conto
anche dell’inquadramento nel Sisde, non rispondesse per caso ad una espressione
gergale in uso al servizio per indicare l’avvenuta condotta a termine di
un’operazione.
Oltre questo, non è possibile spingersi, e mi limito dunque a porre le considerazioni appena
svolte, auspicando che possano essere un utile punto di partenza per eventuali
approfondimenti.
V-B) Perché il Sisde chiese notizie al FBI
su Almagià e i due americani ancora nel 1984 (e con Chichiarelli ancora vivo)?
Risulta dagli atti che ancora cinque anni dopo la vicenda del borsello, e
con Tony Chichiarelli ancora vivo e non ancora sospettato – almeno non
pubblicamente – di essere l’esecutore materiale del confezionamento e della
“consegna” del borsello con le modalità ancora oggi ufficialmente accettate e
condivise sia in sede giudiziaria che nella pubblicistica (ma non in questo
articolo), il Sisde stava con ogni evidenza compiendo indagini su Edoardo
Almagià, Gilberto e Pallas, al punto di chiedere informazioni al FBI americano
(cfr. per tutto quanto di seguito, il fascicolo 557_24 della CM-2 a questo
link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_024.pdf).
Il 4 febbraio 1994, Cardella, PM di Perugia per l'omicidio Pecorelli,
chiede vari atti sull'omicidio e sulla rivista OP al Sisde (rif. deduttivo
nella risposta Sisde a pag. 353 del link poc’anzi unito).
Nella risposta del Sisde al magistrato del 24 marzo 1994, nell'ambito di
uno degli allegati, in indice c'è l'indicazione sintetica, tra i vari atti,
della nota della FBI n. 163 del 10 MAGGIO 1984 indirizzata alla Direzione SISDE;
cfr. pag. 361 link citato:
Come si vede, ancora nel 1994 (dieci anni dopo gli scambi informativi tra
i due enti), si trattava tra l’altro di materiale “classificato”.
Con ogni evidenza, quella risposta seguiva ad una richiesta del Sisde al
FBI protocollata con nota Sisde di un mese prima, n. 2/1492 del 9 APRILE 1984;
cfr. pag. 359 link citato:
Non è chiaro chi fosse lo “Stefano” indicato quale destinatario- presumo
per conoscenza – della nota che, in base al numero identificativo, come vedremo
è quella inviata appunto al FBI.
Con nota del 22 aprile 1994 (pagg. 693 e segg., documento e link cit.),
il Sisde integrava la risposta alle richieste di Cardella del precedente 4
febbraio, inviando tra l’altro in allegato:
Ammesso che questa richiesta di “riservatezza” da parte dell’”Ente
estero originatore” fosse stata
all’origine della “classificazione” del documento sopra accennata, l’aspetto
tragicomico è che già nella precedente risposta al magistrato del 24 marzo
(poc’anzi menzionata) quell’”Ente estero” era stato clamorosamente
svelato dal Sisde stesso, poiché in essa si indicava chiaramente tra gli
allegati, come si è visto, proprio la fonte della “nota del 10 maggio 1984”,
cioè l’FBI.
Tralasciando quest’ultima considerazione, che comunque può essere utile
in generale per comprendere come un modus operandi caratterizzato da un
eccesso di rimandi documentali possa in realtà condurre a creare confusione
negli stessi depositari del segreto e a rivelare inopinatamente ciò che non si
vorrebbe o dovrebbe, questa seconda nota integrativa del Sisde per il dott. Cardella
avrebbe dovuto condurre a chiedere ragione delle motivazioni per le quali la
FBI non gradiva, per così dire, comparire come latore della risposta alle
richieste del Sisde; cosa tanto più oscura alla luce del fatto, come vedremo
tra poco, che quella risposta consisteva in un sostanziale “nulla di fatto”.
La nota in questione dell’”Ente estero” è collocata a pag. 791 del
documento in esame e al link di cui sopra, e la riproduco per comodità:
Dai rispettivi numeri di protocollo dei “files” indicati
nell’”oggetto” del documento – rispettivamente 163 e 2/1492 – scorrendo a
ritroso le note a ritroso del Sisde, di cui ho poc’anzi dato conto, emerge
senza possibilità di dubbio alcuno – ancorchè non risulti nel testo di
quest’ultimo documento alcun riferimento all’”Ente estero originatore” –
e a dispetto dell’intestazione in epigrafe su carta del Sisde, che questo
documento datato 10 maggio 1984 è per l’appunto la risposta – n. 163 - inviata
dal FBI al Sisde in risposta alla richiesta n. 2/1492 del precedente 9
aprile, e che il Sisde semplicemente si limitò a ritrascrivere su propria
carta intestata per non rivelare, appunto, detto ente estero; in realtà, come
detto, già ampiamente rivelato, se solo si fossero ricomposti i pezzi del
“puzzle” comunicativo inviato all’autorità giudiziaria richiedente.
Il fatto che nel testo in inglese il mese
sia indicato “aprile” anziché “april”, può essere pertanto derubricato a
mio avviso senza patemi ad un errore di battitura nella trascrizione
dell’originale inglese nel “finto” originale intestato Sisde in doppia lingua.
In ogni caso, sulla sequenza non possono sussistere dubbi: la certezza si
ricava, oltre che dalla scansione temporale delle rispettive note del Sisde (9
aprile) e del FBI (10 maggio), che non possono che corrispondere per sequenza
anche logica ad una richiesta che di necessità precedette la risposta, anche da
alcuni riferimenti linguistici e testuali:
-
Il file del mittente (“our”, cioè nostro) è per l’appunto il 163,
che lo stesso Sisde il 24 marzo si era lasciato “scappare” essere una nota del
FBI;
-
la forma della scrittura delle date, sia della datazione del documento,
che di quella della richiesta Sisde cui la FBI stava rispondendo, è quella
tipica in uso negli Stati Uniti, e cioè prima il mese e poi il giorno;
-
inoltre, anche dal punto di vista filologico, l’apposizione per primo del
testo in inglese indica con chiarezza che quel testo era l’originale, e quella
in calce era solo la traduzione ad uso interno degli inquirenti italiani.
Il Sisde dunque, nella primavera 1984, poco dopo la rapina alla Brink’s
Securmak e con Chichiarelli ancora vivo e attivo, ma dopo ben cinque anni
dall’episodio che ci occupa, stava ancora compiendo indagini – l’oggetto recato
dall’epigrafe è chiaro - su Almagià, Pallas e Gilberto, tutti e tre cittadini
statunitensi, incluso Almagià per nascita anche se con doppia cittadinanza.
Come ho più volte rilevato, non risulta che queste indagini abbiano avuto
un seguito in sede giudiziaria, neppure in sede istruttoria, almeno non per
questa vicenda (viste le successive traversie giudiziarie personali sia in
Italia che negli USA vissute da Almagià, e che giungono fino ai nostri
giorni, per accuse di presunti traffici
illeciti di reperti artistici e archeologici).
Piuttosto, non posso omettere di far notare come, a fronte dell’esito
negativo delle ricerche esperite dal FBI, si pongano evidenti errori
nell’indicazione dei nomi delle tre persone su cui si voleva indagare, se si
confronta questo documento con il rapporto e i verbali delle testimonianze
prodotti dai carabinieri; e precisamente, nell’ordine di menzione: Gilberto
viene chiamato come “Michel Antony”, anziché come “Michael Anthony”,
Pallas viene indicata come “Stephany”, anziché Stephanie”, e
soprattutto Almagià viene trascritto, quanto al nome, come “Carlo Gustavo
Edoardo” anziché “Edoardo” come primo nome, e, quanto al cognome, come “Almogia”
(ovvero sia con la “o” e senza accento), anziché Almagià.
Non so dire quale sia stata l’origine di questi errori, e se essi abbiano
avuto riflessi sul mancato riscontro di dati negli atti del FBI a loro nome.
Tuttavia, questa constatazione mi conduce direttamente ad evidenziare il vero convitato di pietra, il fantasma di questo scambio documentale,
che sarebbe stato assai utile conoscere per capire le ragioni sottese alla
prosecuzione delle indagini sui tre anche dopo cinque anni il fatto: non si rinviene, cioè, purtroppo, il
testo completo della richiesta formulata dal Sisde di informazioni al FBI, né
risulta se l’autorità giudiziaria ne abbia chiesto o meno l’acquisizione (con la conseguenza, tra l’altro, che non è per l’appunto possibile stabilire se quegli
errori di trascrizione dei nomi sia stato indotto dal Sisde, o se viceversa sia
stato frutto di errato recepimento da parte del FBI).
V- C) La versione tardiva di Almagià su quella notte. Sue vicende nei
decenni successivi fino ai giorni nostri e una sua recente sconcertante
dichiarazione.
Edoardo
Almagià, in epoca più recente, ed in uno luogo che si presume più meditato,
qual è il proprio sito internet, quindi in una sua tranquilla descrizione
unilaterale degli eventi, ha reso una descrizione del fatto di quelle prime ore
del 14 aprile 1979 differente da quanto
risulta accertato nei verbali, tra i quali quello della sua stessa
testimonianza, raccolto a caldo dai carabinieri in quelle stesse ore.
Almagià scrive infatti, tra l’altro, sul sito:
https://almagia.it/cenni-biografici-biografia/prime-esperienze-lavorative-tra-washington-napoli-e-roma/:
Tornato a Roma, sono stato chiamato dal direttore della American
University of Rome, dove ho insegnato Storia dell’Arte antica. Si chiamava
David Colin, dell’accademico aveva poco e ho sempre sospettato fosse stato un
agente dei servizi segreti. Avendo a disposizione tutti i musei e i
monumenti di Roma, oltre che Pompei, Villa Adriana, Cerveteri ed altri siti,
non ho mai dato una lezione in classe. Volevo che gli alunni toccassero le cose
e le vedessero con i propri occhi. Per chi si avvicinava all’arte non vi poteva
essere esperienza migliore.
Per arrotondare lo stipendio che non era dei più lauti, affittavo qualche
volta la seconda stanza da letto che avevo nel mio appartamento di Via della
Lungara e ogni tanto a tempo perso mi occupavo di antiquariato.
Di questo periodo voglio ricordare un episodio dei più curiosi.
Una sera stavo aspettando a casa un
gruppo di studenti per passare insieme qualche ora piacevole. Giunti da me mi
mostrano una cartella da ufficio e mi chiedono di guardarci dentro. La poso sul tavolo e la svuoto. Ne
esce fuori una rivoltella, alcuni proiettili, un certo numero di schede, pagine
di elenco telefonico con nomi sottolineati, la testata di una macchina da
scrivere ed un’insieme (sic) di carte da collegare alle Brigate Rosse e alla faccenda Mino
Pecorelli. Chiedo come ne fossero venuti in
possesso. Mi dicono di essere saliti in un taxi per venire da me e al
momento di pagare la corsa si sono accorti di questa cartella. Usciti
dalla macchina, vi hanno dato un’occhiata e hanno pensato bene di farmi
esaminare il contenuto.
Dopo avere ispezionato attentamente
tutto il materiale e rendendomi conto che sui nomi menzionati poteva forse pendere una
minaccia di morte, ho raccolto il materiale insieme agli studenti e li ho
portati alla stazione dei Carabinieri di Largo Cristina di Svezia.
Consegnata la borsa e descritte le modalità del
ritrovamento, siamo stati tenuti lì ed interrogati per alcune
ore. Il
materiale recuperato, in particolare la testata della macchina da scrivere, era
tutto da ricollegare al rapimento Moro. Chi ancora ricorda i fatti sarà
sicuramente al corrente della storia della famosa testata.
Quando ho raccontato la storia ad un
anziano giornalista di mia conoscenza, sono quasi stato rimproverato. Mi ha
detto che in Italia non ci si può comportare da inglesi, che mi sono infilato
in un vespaio, che il mio nome sarebbe finito negli elenchi dei servizi segreti
e che come ricompensa sarei stato messo sotto sorveglianza, pedinato e con il telefono sotto
controllo.
Parto dalla
fine: Almagià è stato oggetto di pesanti accuse dalla autorità sia statunitensi
che italiane, fin dagli anni ’90, sui suoi presunti traffici illeciti di opere
artistiche-archeologiche. Non sorprende pertanto l’excusatio non petita
di essere finito sotto osservazione per la vicenda del borsello, per la
quale in realtà non pare sia mai stato interrogato da alcun magistrato.
Si veda a
puro titolo esemplificativo al link seguente dove è possibile scaricare
gratuitamente, previa semplice registrazione, un saggio del 2009 del noto
giornalista del “Messaggero” di Roma, e saggista, Fabio Isman: https://www.academia.edu/25009821/I_predatori_dellarte_perduta_Skira_2009_text
Arriverò tra poco all’ultimissima vicenda in merito, rilevante prima di tutto perché vi si
rinviene una dichiarazione alla stampa del nostro a dir poco inaudita.
In queste
“memorie”, Almagià rende le “descritte modalità del ritrovamento” (del
borsello: nda) in modo del tutto opposto a quelle da lui stesso dichiarate ai
carabinieri nel 1979.
E’ perfino
superfluo sottolineare come in queste righe egli
attesti il ritrovamento da parte dei suoi amici al termine di un viaggio in
taxi verso casa sua (e non al termine del viaggio verso il locale “Make UP”, che in queste
note non viene neppure citato di striscio). La
tempistica del ritrovamento è qui attestata quindi in modo diametralmente
opposto a quella dichiarata il 14 aprile 1979.
Egli inoltre fa riferimento ad “un
gruppo di studenti “ (e non a due sole
persone) che egli stava aspettando, per l’appunto a casa sua, e non ad un
rientro in casa di due soli studenti dopo un paio d’ore trascorse nel locale
notturno.
Il borsello
viene inoltre descritto come una “cartella da ufficio”, che è cosa diversa da un borsello.
Rimane la costante del presunto ritrovamento dell’oggetto alla discesa dal taxi, e
dell’apprensione illegittima del medesimo oggetto da parte degli “studenti”.
Almagià
ammette infine quanto ho evidenziato in precedenza: e cioè l’evidente lasso di
tempo durante il quale egli e i suoi ospiti sarebbero stati “tenuti
lì ed interrogati per alcune ore”: perché,
dunque, nulla è dato sapere ufficialmente su quelle 2-3 ore tra l’arrivo alla
caserma e l’inizio delle verbalizzazioni?
I tre verbali, come ho già rilevato, sono lunghi a mala pena poco più di una pagina
ciascuno, e ripetono come un disco rotto la
stessa versione “al minuto”.
Cosa è successo in caserma, a
Trastevere, tra le 4 e le 6 del mattino?
Fu forse concordata una versione plausibile, e
sostanzialmente immune da eventuali dubbi dell’autorità inquirente, in
quanto abilmente imperniata sulla “casualità” del ritrovamento dell’oggetto?
Non è credibile che, nel momento in cui in un luogo meditato di sue memorie personali
come il proprio sito, Almagià ripercorra- peraltro legittimamente – questo
particolare episodio, che ben avrebbe potuto evitare di citare, egli non
ricordi correttamente gli eventi di cui sarebbe stato protagonista, in una
vicenda così rilevante della storia giudiziaria, e della cronaca, italiana
recente: l’alternativa in ordine al momento del ritrovamento del borsello da
parte dei suoi “studenti” andrebbe quindi risolto, una volta per tutte: o al
momento del viaggio verso il “Make Up”, o, all’opposto, al momento dell’arrivo
a casa sua.
La differenza
è fondamentale, anche sotto il profilo della logica sottostante alle due
versioni. Perché quella ufficiale, del ritrovamento all’1.15
circa all’arrivo al “Make Up”, proprio non sta in piedi.
Resterebbe quindi quella attestata ai
giorni nostri sul sito di Almagià, cioè del ritrovamento della “cartella da
ufficio” al rientro a casa del “gruppo” di studenti. Versione in
ordine alla quale non constano iniziative da parte dell’autorità giudiziaria
per dirimere l’evidente conflitto con quella ufficiale risultante dai rapporti
e dai verbali del 14 aprile 1979.
In ordine
alle vicende personali di Almagià quale- adotto volutamente una formula
sintetica- mercante d’arte, che ne hanno caratterizzato la sua vita personale
da decenni, ho fatto già cenno e rinvio, oltre che al menzionato saggio di
Fabio Isman, al materiale liberamente fruibile in rete.
Vale però
assolutamente la pena di evidenziare l’ultima notizia apparsa su di lui,
proprio a giorni nostri, ad inizio dello scorso novembre 2024, rinvenibili tra
i molti al link seguente: https://www.open.online/2024/11/03/storia-edoardo-almagia-antiquario-tesori-trafugati-mandato-arresto-usa/
In questa notizia,
che riguarda Almagià per un recentissimo mandato di arresto delle autorità USA
per presunto traffico illecito di opere artistico-archeologiche del valore di
milioni di dollari (accusa che segue quelle precedenti già della fine del
secolo scorso) , e prescindendo ovviamente dal merito delle accuse, la parte
che mi preme evidenziare è la seguente:
“In un’intervista a Repubblica, Almagià si è descritto come «una vittima
di persecuzione». «Mi hanno accusato di aver
nascosto la Renault rossa in cui è stato ucciso Aldo Moro o di essere in contatto con la banda
della Magliana – dice – Vengo messo in mezzo perché ho deciso di combattere
questo sistema», afferma il mercante, respingendo le accuse. E sul mandato di
arresto nei suoi confronti, Almagià afferma di «essere caduto dalle nuvole: me
lo ha detto il giornalista del Nyt. Ma io – continua – non ho fatto nulla, non
ho mai avuto una galleria, un negozio».”
L’affermazione di Almagià che ho sottolineato è di gravità quanto mai
inaudita, nel senso letterale del termine, poiché non mi consta, come ho più volte
sottolineato, per quanto io abbia ricercato, alcun atto giudiziario su di lui a
seguito della vicenda del borsello oggetto di questo saggio; tanto meno alcun
atto giudiziario che ne abbia trattato
negli strettissimi termini evidenziati, quale presunto custode addirittura
della Renault 4 rossa che fu la prima bara di Moro in Via Caetani:“acciambellato
in quella sconcia stiva “, come ne scrisse il Poeta Mario Luzi.
Oltre due mesi
sono passati, mentre scrivo, da quell’affermazione: eppure essa è passata come
acqua sull’olio, nell’indifferenza più totale e senza alcuna reazione – almeno
per quanto consta pubblicamente- degli organi inquirenti di questo Paese.
Purtroppo, anche i cronisti che hanno raccolto questa affermazione non sono
stati in grado, a quanto pare, di dare il giusto seguito a queste rilevanti
parole.
Edoardo
Almagià (e famiglia) era in effetti proprietario (anche) di immobili in Via/Piazza
di Monte Savello n. 30 (strada e piazza sono in effetti un tutt’uno), a margine
della Sinagoga e al liminare di uno dei lati di quel trapezio irregolare che
delimita il quartiere noto come il “Ghetto” ebraico di Roma, uno dei siti più
belli, tra i i più belli, della magnifica Capitale, tra resti millenari e
palazzi rinascimentali di alcune tra le famiglie (come la famiglia Orsini) tra
le più nobili e ricche di Storia della città.
In quello slargo latistante il Lungotevere, secondo Valerio Morucci la
mattina del 9 maggio 1978 la Renault 4 rossa con il cadavere di Moro condotta
da Moretti e Maccari, proveniente dall’improbabile prigione di Via Montalcini, si sarebbe
incontrata per l’ultima tappa con l’auto - in attesa in quei pressi- che doveva
fungere da battistrada per le ultime centinaia di metri fino a Via Caetani,
condotta dallo stesso Morucci e da Bruno Seghetti.
Mi chiedo, e chiedo, se per caso Edoardo Carlo Gustavo Almagià, nato a
New York a seguito dell’emigrazione della famiglia israelita in conseguenza delle
criminali “leggi razziali” emanate dal regime fascista, ed emerso in questa
storia unicamente come domiciliato in Via della Lungara n. 3, ma proprietario “inaspettato” anche di
immobili in Via di Monte Savello 30, non abbia voluto lanciare un qualche
“messaggio” ad orecchie più sensibili di quelle rimaste apparentemente sorde in
questo mese e mezzo dall’apparizione della notizia di cui sopra.
Nessuno
meglio di lui potrebbe attestare se, e in quali sedi, egli sia effettivamente
mai stato fatto oggetto anche solo di un’illazione come quella, gravissima, da
egli stesso riferita alla stampa lo scorso inizio di novembre 2024.
VI) CONCLUSIONI.
E’ giunto il
momento di riassumere opportunamente le fila del lungo discorso che ho tentato
di articolare.
Immaginando
un percorso argomentativo circolare, faccio ritorno al “prologo” introduttivo,
per ripercorrere poi schematicamente i punti dubbi sollevati.
L’analisi
istituzionale e pubblicistica della vicenda del presunto ritrovamento del
“borsello” (o “cartella da ufficio”?) su un taxi il 14 aprile 1979 si è
adagiata sulla “casualità” del ritrovamento, senza avvedersi che in tal modo si
potrebbe ben vanificare la stessa prospettiva di indagine che ha posto al
centro, con evidente sbilanciamento dell’asse portante della ricostruzione
della storia, il disegno ricattatorio-comunicativo pur giustamente riconnesso
al contenuto di quell’oggetto, disegno che peraltro ancora oggi non si può dire
concordemente e pacificamente definito (ricatto a chi? Messaggio a chi? Da
parte di chi?).
Se il
ritrovamento di quell’oggetto è, infatti, con tutta evidenza, la prima ed
essenziale fase di funzionamento di quel disegno, rimettere il rinvenimento
alla pura casualità significherebbe dover ammettere il suo esatto opposto, e cioè
che in virtù dello stesso “motore”, cioè il fato, quel borsello avrebbe pure
potuto non essere mai ritrovato (per dispersione, furto, distruzione,
abbandono, ecc.).
La logica ci conduce ad affermare esattamente l’opposto: e cioè che
proprio la verosimile riferibilità almeno sul piano esecutivo ad un “marchio di
fabbrica” affidabile e sperimentato, quale fu Tony Chichiarelli, impone di
ritenere le modalità di ritrovamento di quel borsello tutto
meno casuali, bensì come parte esse stesse del progetto – quale che fu – cui il contenuto
di quel “borsello” doveva corrispondere.
In proposito,
l’analisi dei documenti disponibili, per quanto scarni, e senza che ovviamente
si possa dire individuata una prova provata dell’artificiosità della versione
ufficiale, consente di evidenziare i punti deboli che ho tentato di enucleare e
che qui riassumo:
- A) i due studenti, se stiamo a quanto
appurato, si resero protagonisti di un reato. Ciò che più conta, rimane del
tutto inverosimile ed illogico:
1) che
Gilberto si sia accorto del borsello solo al momento di scendere dal taxi;
2) che essi
non abbiano ritenuto di consegnare al tassista quell’oggetto;
3) che essi abbiano portato all’interno del
locale per circa due ore quell’oggetto senza mostrare alcuna immediata curiosità
di verificarne il contenuto;
4) che essi
abbiano corso il rischio che l’oggetto venisse loro sottratto, o andasse
smarrito, all’interno del locale (o successivamente);
- B) l’orario
indicato per il rientro a casa deve essere anticipato di almeno mezz’ora, alla
luce della deposizione del centralinista del radio taxi Alfio Carbone;
- C) il
tassista del loro viaggio di andata verso il “Make Up” non è stato in grado di
affermare alcunchè in ordine alla presenza di quel borsello sul taxi;
- D) il tassista
stesso, Bini, è l’unico rintracciato dai carabinieri;
- E) non è
dato sapere come egli sia stato rintracciato immediatamente alla fine del
servizio, cioè entro le 7 di mattina, dal momento che i due studenti americani
affermano di non ricordare la sigla del taxi, e che il centralinista Carbone,
tre ore dopo, abbia affermato che non era in grado di collegare alle sigle dei
taxi i rispettivi titolari;
- F) nessuno
dei dieci tassisti indicati dal centralinista Carbone come inviati al locale
“Make Up” in quella notte è mai stato ascoltato, in particolare i due chiamati
alle 2.25 e alle 2.33: non si ha perciò nessun riscontro alle affermazioni dei
due giovani americani né in ordine al rientro a casa, né in ordine al fatto che
avessero con loro un borsello;
- G)
nell’ordine delle testimonianze, Almagià, pur non essendo stato presente al
momento del ritrovamento né testimone dei due viaggi dei suoi ospiti, viene
ascoltato per primo;
-H) le
testimonianze dei due studenti, quanto agli orari e alla descrizione dei fatti,
ricalcano quanto previamente affermato da Almagià e sono l’una in identica
sincronia con l’altra;
- I) le
testimonianze dei due studenti vengono raccolte alla presenza di Almagià e con
la traduzione, senza alcun giuramento, di entrambe le loro dichiarazioni da
parte di costui, in palese, potenziale conflitto di interessi;
- L) le copie
disponibili dei tre verbali non recano né il nome, né alcuna sottoscrizione,
neppure in sigla, di un verbalizzante dei carabinieri;
- M) tra
l’orario dell’arrivo dei tre alla caserma Podgora, oscillante tra le 3.30 e le
4.00 del mattino, e l’inizio della verbalizzazione della deposizione di Almagià
alle ore 6.00, trascorrono oltre due ore nelle quali è ignoto cosa sia
accaduto. Ciò è tanto più sospetto alla luce della consistenza dei tre
rispettivi verbali testimoniali, che constano ognuno di poco più di una pagina,
con dichiarazioni, in sostanza, in fotocopia;
- N) la
tardiva ed incidentale dichiarazione di Cornacchia in risposta alla domanda di
Miguel Gotor in CM-2 (improvvidamente interrotto dal presidente Fioroni)
afferma senza mezzi termini che il borsello gli fu fatto avere da Chichiarelli:
è rimasto privo di qualsiasi sviluppo che cosa il generale in pensione abbia
inteso dire esattamente con quelle parole, fermo restando che l’affermazione
rinvia comunque ad una diretta azione di Chichiarelli volta a consegnargli –
quale all’epoca responsabile del Reparto Operativo di Roma – quel borsello,
direttamente o per un qualche consapevole intermediario;
- O) la
versione fornita da Almagià sul proprio sito in anni recenti, inverte l’ordine
di ritrovamento del borsello spostandolo al momento del termine del viaggio
verso casa sua, per passare una serata insieme, da parte di un imprecisato
“gruppo di studenti”; scompare qualunque riferimento al locale notturno, e i
suoi due ospiti dell’epoca si confondono in un indistinto gruppo di più
persone. Non è verosimile che Almagià non ricordi i dettagli di una vicenda
così grave e particolare e ne dia, senza apparente ragione, una versione
diversa da quella testimoniata ai carabinieri:
- P) i
magistrati di Perugia non effettuarono nessun particolare approfondimento sulla
singolare annotazione contenuta nell’agenda dell’allora capitano Vacca alla
data del 14 aprile 1979 in ordine all’acquisto di un borsello in quella data.
Non è quindi possibile fare alcuna ulteriore ipotesi su quell’annotazione,
salvo rilevare che, per accontentarsi di una risposta scontata come quella data
dall’ufficiale- già in servizio al Sisde nel 1979, e negli anni precedenti al
reparto Operativo di Roma - nella sua
escussione, forse tanto valeva la pena non porsi proprio il problema.
Quello che,
al momento, non sono riuscito a verificare, è l’esistenza di rapporti di
conoscenza personale tra Almagià e Chichiarelli, questione meritevole comunque
di ulteriori ricerche, vista la frequentazione del mondo dell’arte che
caratterizzava entrambi.
In
conclusione, la mia personale convinzione è che la versione ufficiale del
ritrovamento del “borsello” sul taxi la notte del 14 aprile 1979, quale cioè
evento dovuto ad una mera casualità, sia artificiosa e smentita dalla logica e
dai dubbi emergenti dalla ricostruzione dei documenti disponibili.
L’opinione
ormai comunemente accettata e da sempre data per scontata, di un ritrovamento
casuale del borsello, ha finito per amputare la ricostruzione complessiva della
vicenda, privando la legittima ricerca delle finalità insite nel contenuto di
quel “borsello” dell’individuazione della stessa origine di quel “disegno” e
quindi, a seguire, del suo svolgimento: e cioè a chi e come esso doveva essere consegnato per divenire di pubblico dominio e raggiungere il
suo scopo ricattatorio-comunicativo. Al punto che ancora oggi le ipotesi sul
“messaggio” insito nel contenuto del borsello non sono né chiare, né pacifiche,
né condivise.
Ulteriore elemento che meriterebbe approfondimento, è infine la recente
dichiarazione di Almagià di essere stato a suo tempo anche “accusato” di avere
custodito la Renault 4 rossa che fu, per dirla con il Poeta, la “sconcia
stiva” in cui fu consegnato “acciambellato” il cadavere di Aldo
Moro.
Nota: tutti i link citati e riprodotti nell’articolo sono risultati
attivi alla data del giorno 11 gennaio 2025.
Michael Anthony Gilberto died prematurely in 2005, of a terminal disease. He is survived by his brother Brent, to whom Mike had told the handbag story back then, more or less in the known terms. Nothing re Almagiá though. It makes me think that possibly, probably, Mike really happened to be in that taxi that night - why would he lie to his own bro ? But : somebody must have planted the handbag inside there just before Mike got on it. Mike never told his bro much more about his Rome stay - it was kind of a mystery for Brent. Looks as if Mike was framed - I suspect it was Almagià who set him up, but finding evidence will be tough. Key to this affair might be Mrs Pallas, but she´s nowhere to be found and Brent has never heard of her. I do not even know if she´s still alive, but from what I gather from the SSDI, she should be.
RispondiEliminaMike´s family was your average middle-of-the-road Italian-American affair, on his father´s side (Gilberto) : his dad ran a tobacco store, which is now being managed by Brent. His mother´s maiden name was Hassan, which might either be Arabic or Jewish (Hazan in Hebrew means singer, synagogue singer). No involvement apparently, in dirty or murky dealings of any kind.
Mike was the smart one, and he became an arts impresario, much beloved in his field. A very very nice guy apparently.
I hope this helps.
Hi Crow, thank you so much for your very interesting news. Can you write us to our mail (sedicidimarzo@gmail.com) just in case of any possible addendum? Thank you again very much in advance. Franco Martines f. SEDICidiMARZO
RispondiEliminaLe origini storiche dell´AUR portano a due ebrei su 3 fondatori : David Tyrone Colin, ex agente OSS, aveva americanizzato il suo originale cognome ebraico Cohen. L´altro è Giorgio Alfredo Tesoro, professore di economia sotto il fascismo, che pur avendo sottoscritto il giuramento di fedeltà imposto nel ´31, fu poi estromesso nel ´38 dalle leggi razziali ed emigrò negli USA, dove fu accolto a braccia aperte e finanziato da Rockefeller, fino ad assumere prestigiosi incarichi governativi a carattere economico ma pure di intelligence, dato il bagaglio di conoscenze sull´Italia che si portava appresso. Furono questi due ebrei a fondare l´AUR nel ´69 (guarda caso, l´anno d´inzio della strategia della tensione), insieme con un´aristocratica nonebrea ma di altissimo rango di nome Lisa Sergio, la quale prima fu progandista principe dell´eiar, poi per motivi mai chiariti emigrò negli USA pure lei diventando ufficialmente antifascista.
RispondiEliminaColin-Cohen aveva lavorato pure per l´Olivetti, altro clan importante nel caso Moro per via di Roberto di Monte Savello associabile sa ad Almagià sia ad una delle tappe del tassista del borsello prima degli americani.
Le altissime connessioni di questi 3 con l´establishment americano coprono anche il CISA di Caetani 32. Altro consulente alle origini dell´AUR fu il politico italo-americano Emilio Daddario, anche lui guarda combinatzione, ex OSS.
L´intima connessione di Colin con il clan Almagià nasce ben prima dei ´70 : Colin/Cohen era molto amico dell´ebreo Edoardo Volterra, noto esperto di diritto romano e figlio del matematico Vito. E la famiglia Volterra era fusa con gli Almagià. I due s´erano conosciuti a Roma durante la guerra, e Colin portava ai Volterra-Almagià, con la copertura dell´OSS, beni quasi introvabili in guerra e nel primo dopoguerra, quali gelato e scarpe di pelle.
Roberto Almagià, noto geografo, insegnò all´AUR diversi anni : egli era parente di Edoardo in linea materna. Un altro consanguineo di Edoardo Almagià, Stefano, fu studente AUR dal ´75. E naturalmente, Edoardo fu visiting professor all´AUR, però si direbbe di scienze politiche non di arte, per cui non si comprende bene a questo punto, la connessione con Gilberto.
In pratica, Almagià era di casa all´AUR da sempre, e conosceva benissimo Colin e le sue radici OSS, a differenza di quel che va cianciando sul suo sito.
Errata corrige : il Roberto Almagià che insegnò all´AUR era un altro, non il geografo che era morto nel ´62.
EliminaVorrei aggiungere altra cosa importante : io non sarei così innocentista come il primo commento qui sopra, su Gilberto e Pallas : da 2 o 3 anni ormai, più di uno studioso ha osservato che la versione ufficiale del ritrovamento del borsello è del tutto assurda. Perché sospetto anche (oltre che di Almagià naturalmente) anche dei due studenti ? Per via del cosiddetto "mito dell´AUR" - che mito non è, almeno in buona sostanza è realtà documentata. Mi spiego : l´AUR esiste da 56 anni ormai, e di generazione in generazione, gli studenti e lo staff (non dico tutti, ma parte) si tramandano questo : che fin dalle origini nel 1969, l´AUR nasca come paravento dei servizi americani. Che Colin fosse una spia OSS (sezione R&A, research and analysis, cioè raccolta ed analisi informazioni) è documentato e non ci piove. Lo scopo del mandarlo a Roma a fondare l´AUR, secondo appunto il cosiddetto "mito dell´AUR", fu quello di spiare le sinistre. Insomma, una Hyperion ante litteram, una continuazione o estensione dell´Usis e simili.
RispondiEliminaMa attenzione : il sergente OSS Colin/Cohen non era soltanto uno spione da scrivania, in giacca e cravatta : egli partecipò anche ad operazioni stay behind, cioè di infiltrazione dietro le linee nemiche, a fine ´44 nel Nord : gli andò male e fu internato in Germania. Insomma, anche se la sua specializzazione era, diciamo, "giornalistica", non gli mancavano certo doti ed esperienze alla Tullio Moscardi per intenderci.
Ma torno al "mito dell´AUR" : siccome i corsi AUR duravano solo 4 mesi, la spiegazione vociferata era che i professori/spie dovevano tornare ogni 4 mesi nelle loro basi militari USA a rapporto ed analisi (R&A...).
Colin aveva contatti ai più alti livelli in Italia, e portava gli studenti con la scusa dei viaggi d´istruzione, nel cuore della politica e dell´economia industriale, profittandone per carpire segreti da passare alla CIA.
E qui arrivo al punto fondamentale da cui sono partito : il "mito dell´AUR" vuole che non solo lo staff o parte di esso, ma anche alcuni studenti fossero giovani spie tirocinanti : fu questo il caso di Gilberto e Pallas ? Mentore Almagià ? Che poi Gilberto abbia fatto nella vita, l´impresario di artisti, posso accettarlo : ma pure Moscardi si occupava di prefabbricati, oltre che della strage di via Fani.
Non voglio farla troppo lunga, ma concludo chiedendomi : fu un caso se la prima sede per studenti AUR (dormitorio e mensa, le lezioni si facevano inizialmente, nello splendido appartamento di Colin presso Piazza di Spagna), fu il CIVIS, organizzazione per studenti stranieri fondata dall´ex agente SOE John Felice, patrono pure della Loyola ?
Che Gilberto abbia raccontato al fratello la storia del borsello in sintesi "ufficiale", senza dettagli, posso crederlo : ma qua sono i dettagli che contano, e non reggono.
Avevano una beretta Cal 9 ma i proiettili Cal 7,65 ??!
RispondiEliminaBuongiorno. Il contenuto del borsello, che come ho scritto comunque non costituiva oggetto specifico della mia analisi, così come non ne ha costituito elemento il messaggio che, facendolo ritrovare, si volle veicolare (quale che fosse, un messaggio dovette certamente esserci) , evidentemente - almeno credo personalmente - non fu strutturato in termini di coerenza tra i singoli oggetti: intendo dire che ovviamente poteva ben avere un qualche significato il fatto di far ritrovare una pistola con proiettili incongruenti. Non era il nesso tra quella specifica arma, cioè, e quei proiettili, a formare il veicolo (uno dei veicoli) della "comunicazione" che si voleva far giungere. Naturalmente è da mettere in conto che la sua osservazione possa essere tenuta in debito conto nell'ambito di una futura - e diversa, per quanto ho detto - ricerca, non necessariamente da parte mia, riguardante proprio il materiale lasciato nel borsello. Grazie per la sua lettura dell'articolo.
EliminaUN PRECEDENTE
RispondiEliminaQuello che appare plausibilmente come un precedente del borsello, sta in CM 112, 621 : il 1 aprile ´78 la Delta 22 si porta in via Cipro altezza distributore AGIP, dove un postino aveva rinvenuto merce sospetta.
Si trattava di una busta di plastica contenente altra busta di plastica, con dentro oggetti che richiamano il caso Moro, il borsello di Chichiarelli di poco più di un anno dopo, e le cose lasciate dal medesimo alla brink´s nell´84 :
- una catena con 2 lucchetti e due chiavi, richiamante le 9 chiavi del borsello e le 7 piccole catene e 7 chiavi della brink´s (oltre che, naturalmente, le catene o frammenti ritrovate a De Bustis e nelle vetture della fuga il 16, 17 e 19 marzo ;
- 9 proiettili per pistola 38 special WW, richiamanti le 11 + 1 pallottole del borsello ed i 7 proiettili della brink´s, e la cifra 9 delle 9 chiavi del borsello ;
- un pezzo di stagnola con stampato "Marlboro", richiamante il pacchetto di Muratti del borsello ;
- un lembo di bustina impermeabile, tipo quelle contenenti fazzolettini di carta imbevuti di profumo o deodorante, più un fazzolettino sporco dello stesso tipo : richiamanti il pacchetto di tovagliolini marca Paloma del borsello.
Abbiamo poi altri oggetti che pur non trovando corrispondenza in borsello e Brink´s, tuttavia richiamano notizie (vere o false) sul caso Moro :
- siringa, ago, batuffolo di ovatta sporco e resti di sedativo Tolofen in fiala da 50 mg, quasi a far credere che Moro sia stato narcotizzato : questo richiama la testimonianza (con ogni probabilità, falsa e depistante) di Buttazzo sul panno bianco tenuto premuto in faccia al tizio che si dimena, tenuto in mezzo nella 132 sulla Trionfale il 16 marzo, ed il pezzo di asciugamano bianco repertato nella 132 a Calvo.
Il titolare del distributore dice che fino a 3 o 4 giorni prima, quella busta non c´era nel luogo dove il postino la ritrova : quindi probabilmente, vi fu lasciata tra il 27 marzo ed il 1 aprile 1978, 2 settimane dopo strage e sequestro.