mercoledì 15 gennaio 2025

UN “CASUALE” RITROVAMENTO SU UN TAXI DI ROMA.

 


PRIMAVERA 1979- GLI OMICIDI DI MORO E PECORELLI, UN BORSELLO, UN FALSARIO, TRE AMERICANI, UN MERCANTE D’ARTE E UN COLONNELLO DEI CARABINIERI.


di Andrea Guidi 


INTRODUZIONE.

Il 14 aprile 1979 il ventottenne Edoardo Almagià, qualificatosi come insegnante presso
L’Università Americana di Roma, e due suoi studenti americani, Michael Anthony Gilberto e Stephanie Pallas, entrambi ventenni, in quel momento suoi ospiti nell’appartamento occupato da Almagià a Trastevere, in Via della Lungara n.3, si recarono presso la Caserma Podgora dei Carabinieri, sede del Comando Operativo della Legione di Roma dell’arma sita nello stesso quartiere di Trastevere poco distante dal domicilio dei tre, denunciando il ritrovamento casuale di un borsello, da parte dei due studenti, sul taxi che attorno all’una di notte li stava portando al locale notturno “Make Up” (ex Piper) di via Tagliamento.

I tre coabitanti, ascoltati dai carabinieri in sede di sommarie informazioni testimoniali, sostennero la versione secondo la quale, trovato incidentalmente quel borsello all’atto di scendere dal taxi all’arrivo al locale, verso l’una e un quarto (cioè nelle primissime ore del 14 aprile), i due studenti americani lo avrebbero trattenuto- peraltro senza spiegabile ragione – portandoselo all’interno del locale per circa due ore, e, solo all’uscita, verso le tre, avrebbero sommariamente controllato il contenuto, rinvenendo al suo interno, in quella prima immediata ispezione, una pistola.

Tornati a casa, dove sarebbero giunti verso le 3.15, avrebbero deciso solo in quella sede di controllare dettagliatamente il contenuto del borsello insieme ad Edoardo Almagià, il quale,

verificato il materiale a dir poco sospetto, avrebbe suggerito di recarsi subito, previa telefonata alla menzionata caserma dell’arma, per denunciare il fatto.

Il borsello-è storia nota– oltra alla pistola Beretta calibro 9, conteneva vario materiale che, nel corso dei decenni, è stato oggetto di analisi toriche e giudiziarie che si sono sedimentate adagiandosi su una ricostruzione che vorrebbe questa vicenda principalmente collegata al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro e a quello del giornalista Carmine Pecorelli, che era stato assassinato meno di un mese prima, il 20 marzo precedente.

Limitandomi a fare qui una descrizione assolutamente sommaria (sommarietà della quale dirò tra breve le ragioni) del contenuto del borsello, al suo interno vennero rinvenuti, oltre alla Beretta, undici proiettili calibro 7,65, una cartuccia di grosso calibro “Norma 45”, una confezione di fazzoletti “Paloma”, due flash a cubo marca “Silvania”, alcune chiavi, un pacchetto di sigarette Muratti quasi vuoto, alcune carte geografiche raffiguranti una zona del Lazio fuori Roma che avrebbe rimandato alla zona del Lago della Duchessa (luogo indicato come sepoltura di Moro dal falso comunicato BR del 18 aprile, durante il sequestro), un frammento di un biglietto per la linea di traghetto dello stretto di Messina (senza che ovviamente si leggesse la targa di un’eventuale auto imbarcata) e alcuni documenti, recanti l’emblema delle “Brigate Rosse”, che riproducevano presunti testi ideologici dell’organizzazione e inducevano a pensare al progetto di alcuni imminenti agguati, tra i quali quello a Pietro Ingrao, Presidente della Camera.

Le schede sui personaggi che apparivano oggetto di “inchieste” prodromiche all’effettuazione di possibili agguati erano quattro: oltre a quella su Ingrao, ce n’erano altre tre riguardanti rispettivamente il figlio del Giudice Gallucci, l’Avv. Prisco di Milano, e, in particolare, il giornalista Mino Pecorelli: la scheda che lo riguardava recava – dopo una sorta di rapporto sulle sue recenti abitudini e la conclusione “da eliminare” – l’annotazione che l’operazione era andata in porto.

Infatti Mino Pecorelli era stato assassinato – come ho poc’anzi accennato - appena tre settimane prima – il 20 marzo 1979- del ritrovamento di quel borsello. Per i riferimenti in ordine al verbale di “inventariazione” del contenuto del borsello, si veda più avanti.

Anche, forse, per il concorso della natura fortemente “evocativa” del materiale rinvenuto all’interno di quel borsello, questa storia, e cioè la storia del suo ritrovamento, ha finito per interessare coloro che se ne sono occupati a vario titolo esclusivamente per il contenuto e la funzione comunicativo-ricattatoria ad esso riconnessa, finendo per elidere dall’orizzonte dell’indagine storica e giudiziaria il problema delle modalità, cioè dell’origine stessa, di quel ritrovamento.

Non è infatti per mera semplificazione che ho utilizzato – in apertura di queste note – l’aggettivo “casuale”, per descrivere l’atteggiamento acquisito in sede storiografica e giudiziaria in ordine al ritrovamento del borsello, e neppure per assuefazione alla narrazione di questo episodio, ancora oggi comunque oscuro, scaturita dalle testimonianze dei tre protagonisti.

L’ho fatto, bensì, a ragion veduta, proprio per sottolineare come sia assurto a vulgata comune, anche in qualificate sedi istituzionali, l’acquisizione del ritrovamento del borsello come fatto puramente accidentale, dovuto ad una mera casualità: precisamente, ad un impatto accidentale su quell’oggetto da parte di un giovane al momento di scendere da un taxi; che cosa si vorrebbe pretendere di più chiaro e lineare, si direbbe? Perché perderci tempo, allora?

Tuttavia, la mancanza di approfondimento sulle modalità effettive del ritrovamento si giustifica ancor meno una volta che viene data per assodata – nelle stesse sedi di cui sopra  - l’attribuzione a Tony Chichiarelli se non dell’ideazione, quanto meno della materiale esecuzione (comprensiva del confezionamento stesso del materiale inserito nel borsello) del disegno comunicativo-ricattatorio che si era voluto conferire a quell’azione.

L’attribuzione a Chichiarelli della partecipazione a questa vicenda è in particolare data per assodata in sostanza a partire dal momento in cui qualcuno a settembre 1984 lo assassinò.

Quell’omicidio scoperchiò “un mondo” sulla sua (si direbbe apprezzata ) attività di falsario e il milieu di legami  che egli aveva intessuto con il mondo della malavita, anche politica, ma non solo con la malavita; così come del resto è da epoca successiva a quella sua fine violenta, per quanto probabilmente non imprevedibile, che fa data l’attribuzione allo stesso Chichiarelli della predisposizione del famosissimo “falso Comunicato n. 7” delle BR – cjui ho parimenti poco sopra fatto cenno - che, durante il sequestro Moro, era stato fatto ritrovare  il 18 aprile 1978  in concomitanza oggettivamente sinergica con la scoperta, in quella stessa mattinata, del covo brigatista di Via Gradoli, indotta anch’essa da un apparente accidentalità, in questo caso di tipo domestico-idraulico (la casualità è a quanto pare una costante immanente di queste vicende).

Per un utile quadro sintetico della riconduzione all’operato di Chichiarelli del ritrovamento  - tra l’altro – del borsello di cui tratto in questa sede, faccio rinvio, èer non appesantire l’esposizione, ad un paio di testi, e precisamente:

- all’audizione del Giudice Alberto Macchia, (già Istruttore del processo per l’omicidio Chichiarelli e la rapina alla Brink’s Securmark di cui il falsario era stato – pacificamente – uno degli ideatori ed esecutori), resa dall’ex magistrato il 14 aprile 2015 davanti la seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul  sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (di seguito, d’ora in avanti, CM-2):

https://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/html/68/audiz2/audizione/2015/04/14/stenografico.0031.html;

- nonché alla stessa sentenza di proscioglimento istruttorio del giudice Monastero degli imputati Carminati, Fioravanti, Gelli e Viezzer nell’ambito del processo per l’omicidio Pecorelli, nella quale si legge, tra l’altro (cfr. al link https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_049.pdf, pag. 198):

“…Ulteriori spunti investigativi si traevano inoltre dal p.p. n. 3927/84A, relativo al rinvenimento di un borsello avvenuto il 14/4/1979 contenente - tra l'altro - la scheda relativa all'esecuzione del defunto giornalista: la predetta evenienza infatti, pur autonoma rispetto ai principali filoni d'indagine così come sopra delineati, presentava notevoli punti di convergenza con gli episodi che qui ci occupano non solo e non tanto per il fatto storico in sé ma soprattutto per l'accertata riconducibiIità di tale borsello alle indagini relative al caso MORO - e, in particolare al famoso memoriale di via Montenevoso ed a1 cd . "comunicato della Duchessa" - su cui PECORELLI si era spesso soffermato con approfondite analisi di situazioni e fatti forse non lontani dalla verità.”

Da pag. 226 del pdf al link appena citato, la sentenza si sofferma sulla vicenda de “Il borsello di Chichiarelli (p.p. 3927/84A)” (testuale) , affermando tra l’altro (sottolineatura mia):

“L'ignoto manovratore di così oscure trame aveva pertanto la precisa volontà di far conoscere il contenuto dei suoi messaggi, di divulgarne il contenuto (cfr ., sul punto anche la lettera di accompagnamento alle schede fatte rinvenire i l 17/11/1979 – su cui appresso: nda - nella quale si intravede la preoccupazione che il contenuto del borsello del precedente 14 potesse non essere stato divulgato) peraltro nell'assoluta certezza che mai gli inquirenti sarebbero risaliti alla "paternità" del borsello che avrebbe comportato la possibilità di acquisire la viva voce di colui che andava tessendo così intricata tela.”

Sul punto, la sentenza in argomento coglie correttamente un aspetto che è coessenziale ai fini dell’opinione che intendo sostenere con questo saggio, e che vale quindi la pena evidenziare subito, e cioè che è evidente che quel borsello, nelle intenzioni degli ideatori di questa messinscena, dovesse necessariamente essere fatto ritrovare.

A pag. 229, si legge poi l’asserzione caratteristica che sto qui evidenziando: quel borsello era “il borsello di Chichiarelli (come peraltro titolava il paragrafo dedicato della sentenza in esame)

“Le indagini istruttorie accertavano, senza ombra di dubbio, che il CHICHIARELLI era stato l'organizzatore ed uno dei coautori materiali della rapina alla Brink's del 24/3/1984, che era il proprietario del borsello che qui ne occupa (e che, a ben guardare, richiama in modo pressoché univoco, vicende legate al sequestro dell'on. MORO), che era l'autore delle manoscritture apposte sulla scheda di PECORELLI e dell'altrettanto "famoso" comunicato BR n. 7 del 18/4/1978 (c.d. del Lago della Duchessa).

Con quali reali modalità Chiachiarelli abbia voluto far ritrovare quel borsello – evenienza ritenuta pur necessaria dalla sentenza stessa, si veda sopra – resta un aspetto ancora oggi confinato negli assai esigui confini delimitati dalla versione ufficiale di quanto avvenne in quella notte tra il 13 e il 14 aprile 1979, quale emerge dagli scarni documenti disponibili dei carabinieri, e sembra proprio non avere rivestito alcun particolare interesse né per le istituzioni, né per la pubblicistica che pure ha di volta in volta fatto vari cenni alla vicenda.

Ciò nonostante, va al contrario posto in adeguato rilievo che è evidente che se si imputa a un personaggio dell’importanza (anche) criminale quale Chichiarelli la partecipazione, quanto meno nella fase esecutiva, ad un progetto di sicuro torbido – quale che fosse – come quello imperniato sulla consegna di quel borsello, e che implicava per sua essenza- come correttamente evidenziato dalla sentenza citata - che quel borsello ed il suo contenuto dovessero diventare di pubblico dominio, non si può accettare di disinnescare totalmente le modalità di ritrovamento, derubricando cioè a frutto di mera casualità l’innesco stesso di quel processo comunicativo-ricattatorio, cioè gli accorgimenti, le soluzioni, che per logica si deve presumere siano stati adottati per far ritrovare con certezza quell’oggetto – onde perseguire gli scopi desiderati.

Purtroppo, paradossalmente l’attribuzione proprio a Chichiarelli del confezionamento di quel borsello, peraltro come ho detto tardiva rispetto alla data del ritrovamento in quanto riferibile al periodo successivo al suo omicidio, conferendo alla vicenda una sorta di “patente d’autore” molto suggestiva, non ha fatto altro, a mio avviso, che contribuire ulteriormente a sbilanciare totalmente l’analisi di questa storia unicamente sul versante della ricerca - per di più ancora oggi dagli esiti come minimo incerti o non consolidati-  del possibile significato ricattatorio-comunicativo che quel borsello doveva assumere, a totale discapito dell’indagine sulle possibili, effettive modalità del suo ritrovamento.

In altre parole, l’effetto contraddittorio raggiunto da questa impostazione sulla ricostruzione di assieme della storia che sto affrontando, la quale ha omesso l’indagine prima di tutto sulle modalità stesse del rinvenimento di quel borsello, è stato quello di amputare l’indagine sul disegno -quale che sia stato – effettivamente perseguito dagli ideatori e dal probabile esecutore della consegna del borsello con il suo carico comunicativo-ricattatorio.

Mi pare infatti evidente che se non ci si interroga sulle realistiche modalità che chi progettò quel ritrovamento volle verosimilmente attuare per assicurarsi che il ritrovamento del borsello avvenisse, limitandosi invece a rimettere il rinvenimento ad una mera casualità, si finisce per dover ammettere che quel borsello, sempre per un gioco del caso, avrebbe potuto anche non essere mai ritrovato.

In sostanza, si potrebbe perfino dover affermare per coerenza logica che quello che ancora oggi è vissuto come uno degli eventi più oscuri della Repubblica, possa essere stato semplicemente il portato dell’azione fine a sé stessa di un banale mitomane.

Ma sappiamo bene, appunto, che così non è: quell’azione non fu frutto dell’opera di un mitomane; e ciò per almeno due ragioni: una intrinseca, e cioè che appunto è difficile oggettivamente dubitare, in base agli elementi acquisiti in sede giudiziaria dopo il suo omicidio, dell’attribuibilità a un personaggio qual è Tony Chichiarelli quanto meno dell’esecuzione del confezionamento e rilascio di quel borsello; la seconda, estrinseca, è che un mitomane si sarebbe accontentato verosimilmente di  far ritrovare quel borsello ad un qualsiasi commissariato di polizia o caserma dei carabinieri, e non invece appositamente al comandante del reparto operativo della legione dei carabinieri di Roma, Antonio Cornacchia, nel 1979 notoriamente uno dei principali inquirenti sugli eventi del sequestro Moro e sull’omicidio Pecorelli, e la cui personalità di lì a non molto sarebbe emersa anche per gli aspetti oscuri del ritrovamento del suo nome nelle liste della Loggia massonica occulta P2 (annoto per dovere che l’interessato ha sempre smentito di averne fatto parte volontariamente, affermando bensì  di essersi trovato iscritto a quel consesso eversivo “a sua insaputa”, per così sintetizzare).

No, non si può quindi derubricare – se la logica conta ancora qualcosa- a mero frutto del caso il ritrovamento di quel borsello nella primavera del 1979, neanche un mese dopo l’omicidio di Mino Pecorelli.

Pertanto, per quanto ho sin qui ho esposto, ho prescelto di affrontare questa storia concentrandomi unicamente sul perimetro delle fondamenta su cui essa poggia: e cioè proprio e unicamente trattando dell’aspetto delle modalità di ritrovamento di quel borsello.

Mi scuserà, quindi, il lettore, se non troverà riferimenti e rinvii puntuali e raffinati sul contenuto del borsello e sulle possibili finalità comunicative-ricattatorie delle quali esso fu veicolo, in merito alle quali, vale la pena ribadirlo, ancora oggi non esiste una conclusione pacifica e condivisa: e ciò anche perché, ipotizzo, per l’appunto tanto poco ci si è interrogati sui modi di vera e propria consegna (perché, a mio parere, di ciò si trattò) di quel borsello.

I) ANTEFATTO.

L’antefatto è noto, ne ho già fatto cenno e vale la pena riportarlo.

Il 20 marzo 1979 veniva chiusa per sempre, ad opera di uno o più killer ancora oggi ignoti, la bocca fin troppo parlante del giornalista Carmine (detto Mino) Pecorelli.

La descrizione dell’omicidio che ho scelto non è casuale, meramente retorica, romanzesca; non risponde ad una esigenza edonistica, estetico-letteraria: la bocca di Mino Pecorelli viene letteralmente fatta bersaglio specifico dei colpi di arma da fuoco del suo killer.

Stare qui a disquisire, come assai meglio fatto altrove, se con questa modalità dell’omicidio si sia voluto lasciare ai posteri un “messaggio”, appare, più che superfluo, perfino una perdita di tempo.

Chiunque sia non addentro alla questione, può agevolmente trovare ampi riferimenti in rete sulla figura, la bibliografia, la persona e l’attività del noto giornalista. E sui processi seguiti al suo omicidio che condussero in un primo momento giudiziario alla condanna, quale mandante dell’omicidio, dell’uomo politico più potente della Repubblica, Giulio Andreotti, poi assolto definitivamente dalle pesanti accuse.

Basti qui osservare in estrema sintesi che il giornalista aveva adottato quale sua cifra comunicativa professionale l’invio, attraverso la sua rivista “OP- Osservatore Politico”, di messaggi, comprensibili a qualificati destinatari politici e militari, i quali, solo banalizzando la sua attività, potrebbero ascriversi alla categoria del ricatto; ma in particolare, durante e dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, egli non aveva avuto remora di mostrarsi informato di fatti e documenti inerenti il sequestro che sarebbero emersi solo successivamente alla loro scoperta ufficiale, tanto durante il sequestro che posteriormente l’assassinio dell’uomo politico:  in particolare, egli si era mostrato assai informato su alcuni documenti riportati in superficie dai “fondali limacciosi” (per mutuare la nota espressione recata dal già citato “falso comunicato BR n. 7”) della vicenda solo dopo il doppio ritrovamento del cosiddetto “Memoriale” dello statista sequestrato - da intendersi comprensivo, si badi bene, anche di varie lettere indirizzate dall’uomo politico all’esterno della sua prigione durante il sequestro, non tutte ufficialmente recapitate - rinvenuto dalle forze dell’ordine a Via Montenevoso a Milano, in una prima parziale versione esclusivamente dattiloscritta nell’ottobre 1978 (quindi prima dell’omicidio di Pecorelli), e in seguito, nell’unica versione più ampia della precedente ad oggi conosciuta, esclusivamente in fotocopia di manoscritto, ma verosimilmente anch’essa parziale, dodici anni dopo, nell’ottobre 1990, scoperta in un’intercapedine, rimasta a quanto pare celata per tutti quegli anni, durante la ristrutturazione del medesimo appartamento che era stato l’ex covo Br già oggetto della scoperta e perquisizione del 1978.

II)  DOPO IL FATTO. LA FIGURA DI TONY (ANTONIO GIUSEPPE) CHICHIARELLI IN BREVE.

La storia ci rimanda al secondo protagonista indiretto di queste note, come ho già accennato.

Si tratta del falsario romano (di adozione; abruzzese di nascita) Antonio Giuseppe Chichiarelli, detto Tony.

La sua figura nell’ambito della storia criminale romana degli anni ’70 e della prima metà degli anni ’80 del secolo scorso è talmente articolata e dibattuta che, per ragioni di sintesi, a beneficio del lettore faccio rinvio a questa sua biografia liberamente fruibile in rete: https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Chichiarelli

La sua attività non procede oltre la prima metà degli anni ’80, anzi a rigore neppure vi giunge, in quanto nel settembre del 1984 Tony Chichiarelli si infrange suo malgrado contro alcune palle di piombo che ne spezzano la vita mentre rincasava, a Roma.

Anche quelle palle di piombo (ancora oggi resta il legittimo sospetto che ad eiettarle furono più mani) hanno un’origine rimasta ignota: sorte analoga a quella di Mino Pecorelli.

Nell’agguato, rimane gravemente ferita, ma sopravvive, la sua compagna (Cristina Cirilli), mentre per fortuna rimane illeso il figlio neonato Dante, anch’egli in quel momento nell’abitacolo dell’auto dei genitori.

Riepilogando quanto anticipato nell’introduzione di queste note, in estrema sintesi Tony Chichiarelli è stato ritenuto (in sede giudiziaria, ed in varia pubblicistica conforme) artefice, pur senza alcuna prova oggettiva definitiva, ma con buona verosimiglianza per varie dichiarazioni testimoniali e riscontri calligrafici sulle note apposte a mano sulle schede trovate nel borsello che ci occupa:

a) del menzionato noto falso comunicato delle BR n. 7 fatto ritrovare durante il sequestro Moro il 18 aprile 1978 in concomitanza con la scoperta a Roma dell’importante covo Br di Via Gradoli 96;

b) del così detto “Comunicato in codice n. 10” delle BR, che fu fatto ritrovare dopo l’uccisione di Moro al quotidiano “Il Messaggero”; comunicato che una volta decifrato rivelò contenere progetti di agguati a vari esponenti politici e della magistratura, rivelatisi poi artefatti;

c) del confezionamento del borsello, oggetto di queste note.

Richiamando la sommaria descrizione – volutamente sommaria- del contenuto del borsello fatta nell’introduzione, meritano comunque di essere segnalati alcuni episodi, per così dire, collaterali.

Con una telefonata anonima al quotidiano “Vita Sera” il 17 aprile 1979- cioè tre giorni dopo il ritrovamento del borsello – alla quale si riferisce il passaggio della sentenza istruttoria che prima ho trascritto, vennero fatte ritrovare in una cabina telefonica in Via Cernaia a Roma, altre copie dei documenti già lasciati in quell’oggetto, ad attestare la precisa volontà di farlo ritrovare, potendosi così escludere anche solo l’astratta ipotesi di un suo smarrimento casuale; cfr. pag. 118 del link seguente:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf

Si badi bene: il passaggio della sentenza del giudice Monastero che ho riportato compie un corretto riferimento al conseguimento della certezza della “divulgazione – da parte degli autori della telefonata e del rilascio a “Vita Sera” – del ritrovamento del borsello e del suo contenuto; aspetto tenuto, e da tenere, ben distinto, dal fatto in sé e per sé dell’avvenuta consegna.

E’ intuitivo infatti che il rilascio di un documento ad un terminale istituzionale- nella fattispecie il comando operativo della legione di Roma dei carabinieri – può assicurare con assoluta certezza l’acquisizione del documento, ma non ne assicura di per sé sola la divulgazione pubblica, se quest’ultima è il fine che si vuole conseguire.

Voglio dire cioè che le due modalità esecutive- consegna ai carabinieri e telefonata all’organo di stampa con replica dei doppioni dei documenti contenuti nel borsello – non solo non si escludono, bensì si integrano, posto che la seconda, se preceduta dal mero rilascio rimesso al caso in un qualsiasi luogo pubblico (come un taxi), avrebbe potuto essere perfettamente inutile, se quel borsello fosse andato smarrito, gettato nei rifiuti, distrutto, disperso, ecc.

Un fatto ulteriore, avvenuto il successivo 19 aprile, contribuisce senz’altro ad addensare, attorno a quel borsello,  una coltre di mistero che, se ancora oggi non compiutamente decifrata e difficilmente decifrabile se non mediante la formulazioni avanzata a vario titolo di ipotesi suggestive o meritevoli di approfondimento ma prive tuttora di riscontri certi, attesta che quel ritrovamento apparentemente banale e casuale dovette raggiungere le antenne sensibili cui era destinato, e meriterebbe, come merita, ancora oggi di essere sviscerato: mi riferisco ad un’anonima e falsa rivendicazione dell’omicidio dell’agente della Digos di Milano Andrea Campagna, ucciso appunto a Milano quel 19 aprile 1979.

Quello stesso giorno, la redazione romana del quotidiano “Vita Sera”– ancora una volta quel quotidiano, già destinatario di telefonate anonime recanti tra l’altro la consegna di alcune lettere di Moro durante il sequestro, e da ritenere quindi per qualche oscura ragione un destinatario di particolare elezione per protagonisti e comprimari di questa vicenda - ricevette una telefonata di rivendicazione dell’omicidio di Campagna che, per quanto falsa, richiamava espressamente il contenuto del borsello ritrovato il giorno 14 sul taxi e, pur affermando falsamente che il povero agente Campagna era stato ucciso con proiettili calibro 7.65 come quelli ritrovati nel borsello (in realtà l’agente risultò ucciso da proiettili calibro 357 magnum), recava l’inquietante conoscenza della circostanza, da parte dell’anonimo telefonista, che il borsello era stato ritrovato sul taxi n. 1427 di Roma. Il telefonista aveva infatti testualmente riferito l’omicidio all’uso di proiettili “che la Digos ha recuperato grazie alla soffiata del tassista n. 1427”; si veda a pag. 127 del link seguente:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf

(per la cronaca, per l’omicidio dell’agente Campagna fu condannato all’ergastolo, tra gli altri, come esecutore materiale, il noto Cesare Battisti).

Chi telefonò facendo riferimento a quel numero di codice del taxi, doveva essere a conoscenza, al di fuori ed oltre qualunque intuibile segreto investigativo, di ciò che era accaduto a Roma la notte del 14 aprile.

Occorre infatti qui rilevare che l’individuazione del taxi con il “numero 1427” è indicata nel rapporto della Questura di Roma, al quale ho poc’anzi fatto riferimento, quale frutto di un avvenuto precedente accertamento non meglio precisato e del quale, negli atti disponibili, salve mie sviste, non ho trovato però un qualche espresso riferimento. Dobbiamo quindi, sul punto, attestarci su questo accertamento dato, de relato, per avvenuto.  

Come vedremo tra breve, gli unici documenti disponibili liberamente sul punto sono infatti i rapporti dei carabinieri e la testimonianza dello stesso tassista in questione, dai quali si evince solo la sigla “Pisa-1” del taxi, e non l’ulteriore dato del numero 1427.

Chi fece quella telefonata di presunta rivendicazione a “Vita Sera” dell’omicidio del povero Campagna, doveva pertanto essere in ogni caso a conoscenza di riservati rapporti di indagine della polizia, sul ritrovamento del borsello, intervenuti in soli cinque giorni tra il 14 e il 19 aprile 1979, ed ancora oggi non reperibili – ripeto: salve mie sviste - negli atti liberamente disponibili.

Merita inoltre di essere segnalata la circostanza, che può apparire oggi come un incidentale ma significativo testimone dei legami – talvolta, ma non sempre -  casuali che uniscono i mille rivoli di sangue che hanno caratterizzato la storia di questo Paese in un’unica grande e tragica scia,  che la testina rotante della IBM trovata nel borsello fu consegnata il 18 aprile, per ordine del Giudice Sica, alla Questura di Roma per le successive indagini tecniche, nella persona dell’allora Tenente di Polizia Francesco Straullu (prima Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, di seguito sempre CM-1, Vol. 122, pag. 589), il quale due anni dopo sarebbe stato letteralmente massacrato a Acilia (sobborgo di Roma) a colpi di fucili d’assalto da un commando dei neofascisti dei NAR, con uno scempio tale del suo corpo – e di quello del suo sfortunato collega, Ciriaco Di Romache perfino uno dei killers ebbe remora di guardare da vicino, alla fine, la scena del massacro:

https://spazio70.com/anni-70/nar-e-spontaneismo-armato/la-barbara-esecuzione-del-capitano-straullu/

Vanno comunque evidenziati alcuni altri aspetti della breve vita e carriera di Tony Chichiarelli:

- egli fu un abilissimo ed apprezzato falsario anche nel mondo dell’arte (la ex moglie Chiara Zossolo era una gallerista professionista), ambiente nel quale egli era apprezzato anche (ma non solo) per falsi “palesi”, cioè conclamati e non truffaldini quale falsi di “autore” negoziati come tali;

- egli sarebbe risultato in contatto non solo con gli ambienti della sinistra extra parlamentare (quale frequentatore ad esempio dei collettivi di Autonomia Operaia in Via dei Volsci a Roma), ma anche con ambienti legati ai Servizi e alla Banda della Magliana, oltre che con ambienti dell’estrema destra;

- soprattutto, come già accennato in uno degli stralci della sentenza di Monastero che ho riportato, egli fu l’artefice, con vari complici, a marzo 1984 – cioè sei mesi circa prima di finire suo malgrado la propria vita – della così detta “rapina del secolo”, quella alla “banca sindoniana” Brink’s Securmark sulla Via Aurelia a Roma, fruttata- al netto delle oscillazioni delle cifre riportate nelle varie fonti disponibili – circa 35 (trentacinque) miliardi delle allora Lire italiane.

Una interessante particolarità della rapina, al di là della cifra di denaro impressionante (anche) per l’epoca, fu che, secondo alcuni rapporti e la stessa testimonianza della ex moglie di Chichiarelli, la menzionata Chiara Zossolo, resa alla seconda commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro (CM-2), i criminali avrebbero cercato anche cassette di sicurezza di personaggi di primo piano contenenti imprecisati documenti; al link seguente, la deposizione alla CM-2 di Chiara Zossolo:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B171/1198_003.pdf

Un seguito del tutto particolare di quella rapina consistette nella circostanza che due giorni dopo, il 26 marzo 1984, con una telefonata anonima al quotidiano “Il Messaggero” di Roma che rivendicava alle BR la rapina alla banca “sindoniana”, furono fatti ritrovare - per chi vi crede, in virtù di una curiosa e statisticamente anomala bizzarria del caso; e a non volervi credere, invece, per una precisa scelta strategica e comunicativa - nello stesso cestino dei rifiuti in Piazza Belli a Trastevere dove il 18 aprile 1978 era stato fatto ritrovare il falso comunicato BR n. 7, alcuni documenti inerenti la rapina e, soprattutto, le schede originali sulle personalità oggetto di ipotesi di agguato che, in copia, erano state ritrovate nel borsello- di nostro interesse-  lasciato da mano ignota sul taxi nell’aprile 1979, oltre ad alcuni riferimenti a foto polaroid che avrebbero ritratto l’On Moro prigioniero durante il sequestro: non è mai emerso con certezza se queste ultime fossero identiche, oppure diverse, rispetto alle due foto ufficialmente recapitate dai sequestratori nel 1978, rispettivamente il 18 marzo (unitamente al comunicato BR n. 1) ed il 20 aprile (unitamente al “vero” comunicato n. 7 - con il quale si smentiva l’esecuzione della statista annunciata dal falso comunicato pari numero di due giorni prima- foto che raffigurava l’uomo politico con in mano una copia del quotidiano “La Repubblica” ad attestare a quella data la sua permanenza in vita, contrariamente a quanto aveva appunto annunciato due giorni prima il comunicato falso).

In sostanza, una rivendicazione che sembrava volere tra l’altro apporre una riconduzione inequivoca della mano e delle ragioni della rapina alla stessa strategia che aveva caratterizzato la consegna di quel borsello avvenuta cinque anni prima.

Come ho anticipato nell’introduzione, in questo scritto non mi occuperò del contenuto del borsello, dei possibili messaggi contenuti nella documentazione che fu ritrovata al suo interno (prima solo sommariamente accennata, e dunque fatta salva ogni possibile ulteriore e migliore precisazione), né della ricostruzione delle circostanze emerse in sede giudiziaria, o nella pubblicistica, in base alle quali oggi si ritiene come fatto assodato che l’autore del confezionamento del borsello e del suo particolare contenuto sia stato Antonio Chichiarelli.

Tuttavia mi pare il caso di accennare al fatto che stando alle testimonianze delle due persone a lui più vicine, cioè l’ex moglie Chiara Zossolo e la sua compagna al momento dell’omicidio, Cristina Cirilli, è assai dubbio che l’ideazione della consegna di quel borsello, il progetto strategico-comunicativo cui lo stesso fu funzionale, possano essere stati opera propria dello lo stesso Chichiarelli: il quale avrebbe cioè corrisposto, in fase meramente esecutiva, alla strategia di altre “menti”.

E pur non intendendo occuparmi neppure delle possibili funzioni strategiche che la consegna di quel borsello doveva svolgere, è certamente utile rilevare che, rinviando anche alle brevi notazioni di cui sopra in ordine ai palesi segnali di rivendicazione della assoluta volontarietà del gesto, dei quali fu ad esempio tramite il quotidiano “Vita Sera”, la consegna del borsello deve essere considerata a tutti gli effetti una storia nella storia, un enigma nell’enigma, la cui collocazione, in una sorta ideale “matrioska”,  all’interno di analoghi contenitori di dimensioni “maggiori” per importanza che ne costituiscono il necessario riferimento, esige comunque il pieno chiarimento come tassello utile, se non necessario, ad una maggior generale comprensione del sequestro Moro e, probabilmente, degli omicidi di Pecorelli, Varisco e Dalla Chiesa.

Nonché, ovviamente, di quello dello stesso Tony Chichiarellli.

Rinvio pertanto, in ordine al quadro generale appena delineato, ad eventuali, ulteriori e più precisi approfondimenti (sia chiaro, non necessariamente ad opera mia).

Come ho già precisato, cosa che ritengo opportuno ribadire al fine agevolare il lettore nel mantenimento del filo del discorso, ciò che in questa sede mi interessa analizzare sono esclusivamente i fatti delle prime ore del 14 aprile 1979.

E, avverto sin d’ora, la documentazione in merito è purtroppo, come si vedrà, assai scarna.

Ragion per cui mi premuro di augurarmi che il lettore non resti deluso da quanto sta per leggere.

III) IL FATTO. ROMA, 14 APRILE 1979. DALLE ORE 1.00 A.M. CIRCA IN POI.

Il fatto, in estrema sintesi, è quello che ho già riportato nell’introduzione.

Esso è ricostruibile testualmente in base al rapporto redatto quello stesso 14 aprile per la Procura della Repubblica (Dott. Sica) dalla Legione Carabinieri di Roma- Reparto Operativo, a firma del comandante del Reparto, l’allora tenente-colonnello Antonio Cornacchia (oggi generale in pensione); tra i molti, cfr. pag. 112 al link seguente (rapporto che comunque riproduco per comodità per immagine. In ogni caso, cfr. anche ampiamente in CM-1, Vol. 122, pagg. 560 e segg.):

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf

 

Per riepilogare, i due studenti M.A. Gilberto e S. Pallas, ospitati nell’abitazione di Edoardo C. G. Almagià (del quale erano studenti presso l’Università Americana di Roma, sita nei pressi di Piazza di Spagna) in Via della Lungara n. 3, intorno all’una del mattino del 14 aprile 1979  avrebbero chiamato un taxi per recarsi nel locale notturno “Make Up” di Via Tagliamento, dove sarebbero giunti circa un quarto d’ora dopo.

Una volta giunti, all’atto di scendere dal taxi, Gilberto avrebbe rinvenuto a bordo del veicolo il borsello, portandoselo in discoteca, per aprirlo però poi una prima volta solo all’uscita del locale.

Avendo rinvenuto al suo interno una pistola, i due americani differirono l’apertura vera e propria del borsello solo al loro rientro a casa, verso le 3.00, dove, verificato il contenuto a dir poco “pericoloso”, su iniziativa di Almagià decisero di andare subito a denunciare il fatto alla caserma dei carabinieri Podgora, sita in quei pressi, in Trastevere.

Effettivo rinvenitore del borsello, a quanto pare per puro caso, risulta M.A. Gilberto.

La signorina Pallas – che per una ulteriore, curiosa, coincidenza tra le tante che colorano di rosso sangue la storia di questo Paese, aveva il cognome identico al modello di Citroen di Mino Pecorelli, a bordo della quale egli trovò suo malgrado la morte:

 https://www.autoscout24.it/annunci/citroen-ds-23-ie-pallas-asi-targhe-e-libretto-d-epoca-benzina-blu-azzurro-8df7fcbf-8426-4d50-b390-7e9569d35a41?sort=standard&desc=0&lastSeenGuidPresent=false&cldtidx=1&position=1&search_id=11s8axw2ih1&source_otp=t30&ap_tier=t30&source=listpage_search-results&order_bucket=5&new_taxonomy_available=false- 

la signorina Pallas, dicevo, che nella vicenda assume contorni evidenti di testimone secondario rispetto al suo amico Gilberto, in quanto avrebbe notato il borsello solo allorchè, usciti dal taxi, si era accorta che Gilberto lo deteneva, stando al rapporto riepilogativo per Sica confermò in sostanza la versione di costui.

Edoardo Almagià, infine, citato per ultimo nel medesimo rapporto per la Procura ma con una parziale inversione dell’ordine effettivo delle testimonianze- in quanto egli era stato invece assunto a testimone per primo- si sarebbe in sostanza limitato a consigliare ai suoi due studenti americani di portare subito ai carabinieri il borsello ritrovato.

Infine, nel rapporto si dava conto del fatto che, a seguito delle indagini immediatamente attivate, era stato tempestivamente rintracciato il conducente del taxi, Bini Mariano (in altri documenti sulla vicenda, indicato come “Marcello”), il quale non aveva avuto nulla da riferire in merito alla presunta presenza sul proprio taxi del borsello, che egli non aveva proprio notato.

IV) LE ANOMALIE DELLA VERSIONE UFFICIALE DELLA VICENDA NEI DOCUMENTI DEI CARABINIERI E NELLE TESTIMONIANZE DI ALMAGIA’, GILBERTO, PALLAS, E DEL TASSISTA.

Alle pagine 12 e seguenti del link seguente: https://www.gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD23/0327_002.pdf?fbclid=IwY2xjawG4bLVleHRuA2FlbQIxMAABHcvyQcb5GIjRnnH_s-RsCrQebF7425PocY1gs5qM7hUVjotzukXf8KDAGQ_aem_wa7keR8KWx9FjWLm72JAvw, sono leggibili i verbali, citati nel rapporto alla Procura poc’anzi riprodotto, delle deposizioni ai carabinieri dei tre protagonisti del ritrovamento e della consegna del borsello, Edoardo C.G. Almagià e suoi due studenti americani, da lui ospitati nel suo appartamento in Via della Lungara 3, M.A. Gilberto e S. Pallas, nonché del tassista Mariano Bini, tirato in ballo in quanto è sul suo taxi che a detta dei due americani e di Almagià il borsello sarebbe stato ritrovato al termine del breve viaggio che i due giovani effettuarono, su quel taxi, per recarsi dall’appartamento di Almagià alla discoteca “Make Up” di Via Tagliamento.

I documenti, in parte già citati e che in parte segnalerò in seguito, restituiscono non poche anomalie nella versione ufficiale della vicenda in esame.

In via preliminare si può segnalare – ed è probabilmente la cosa meno rilevante - che mentre, da un lato, sia il rapporto riepilogativo di cui sopra che i verbali delle testimonianze, tacciano del tutto in ordine alle  caratteristiche del borsello, queste vengono descritte   - di “cuoio marrone, del tipo a libro, con portacarte interni e due borse laterali esterne - solo nel verbale di sequestro del vario materiale rinvenuto, steso in seguito nel corso della mattinata, verso le 9.30 circa, alla presenza del tassista (cfr. link di cui sopra, doc. 557_16 cit, pag. 114); per quanto quel verbale sia stato comunque allegato (all. n. 5) al rapporto per Sica, è singolare che nessuno dei tre -Almagià, Gilberto e Pallas – in sede di deposizione non abbia fatto cenno anche solo al colore del borsello.

Inoltre, non mi consta agli atti alcuna fotografia, né una menzione di eventuali fotografie, del borsello. Viceversa, è necessario rilevare che il borsello fu consegnato (con quasi tutti i reperti in esso rinvenuti, tra i quali la pistola Beretta, il caricatore vuoto per quell’arma, le 11 pallottole cal. 7,65, la cartuccia di grosso calibro “Norma 45 A.C.P.”, i due cubi-flash per macchina fotografica, il mazzo con nove chiavi, ecc. fatta eccezione per la testina rotante IBM, in ordine alla quale rinvio a quanto ho scritto prima) alla Procura di Roma – Ufficio corpi di reato, solamente il successivo 8 giugno: cfr. fascicolo 327_02 di cui al link da ultimo copiato, pag. 5.

I verbali delle deposizioni dei testimoni non recano alcuna indicazione del nome o del grado, né alcuna sottoscrizione, di chi condusse l’assunzione delle testimonianze.

Il verbale di sequestro del materiale, senza una plausibile ragione, venne redatto alla presenza del tassista, e non degli effettivi rinvenitori del borsello.

E’ singolare, infatti, la circostanza che alle 9.30 il verbale di sequestro del materiale (pag. 21 e seg. del suddetto fascicolo 327_02) sia stato redatto esclusivamente alla presenza del tassista, tanto più che egli nella propria deposizione delle 7.35 (pag. 17 e segg., fascicolo ult. cit.) si era dichiarato del tutto ignaro perfino della presenza stessa del borsello sul suo taxi; e quindi è altrettanto imprecisa l’affermazione di apertura del verbale da parte dell’ufficiale redigente, allorchè viene riportata la circostanza inesatta che il borsello – ed il suo contenuto- erano stati “consegnati” da Mariano Bini (pure erroneamente indicato come Marcello).

Tant’è che quel verbale di sequestro dovette essere opportunamente riaperto, verosimilmente a seguito di rilettura da parte del tassista Mariano Bini, proprio per dare conto del fatto che il borsello, ed il materiale in esso contenuto, erano per l’appunto stati ritrovati e consegnati ai carabinieri di quell’ufficio dai due giovani studenti americani e da Edoardo Almagià, e non dall’ignaro tassista. Almeno, mi viene da dire, vivaddio uno scatto d’orgoglio da parte di Bini, nell’ambito di una ricostruzione della vicenda forse fin troppo “ovattata” e nella quale il predominante ruolo del “caso” è fin troppo stridente con la gravità del contenuto di quel borsello e dell’importanza  “comunicativa” che ad esso era stata con ogni evidenza riconnessa da chi lo volle far ritrovare.

Uno degli aspetti anomali di maggior spicco della ricostruzione ufficiale di questa storia è tuttavia il “buco” temporale di circa tre ore di quel primo mattino del 19 aprile, tra le ore 3.00 e le ore 6.00 (ora di inizio della verbalizzazione ufficiale delle dichiarazioni di Almagià, il primo dei tre ad essere ascoltato) , arco temporale nel quale – delimitato tra la consegna del borsello ai carabinieri e l’inizio ufficiale delle deposizioni testimoniali- ciò che si vede è solo una coltre di nebbia, senza che nulla si scorga su cosa sia accaduto dietro di essa.

Si possono prendere le mosse dal rapporto per il giudice Sica (il documento che ho citato per primo e sopra riprodotto).

La prima notazione meritevole di rilievo di quel rapporto è che Edoardo Almagià e i suoi due ospiti americani si sarebbero presentati alla caserma Podgora – sede della Legione carabinieri di Roma– per consegnare il borsello e denunciarne il ritrovamento, con il suo contenuto, all’incirca alle ore 6.00 del mattino.

Ma anche questa affermazione è notevolmente imprecisa, perché in realtà – come in sostanza ho poc’anzi anticipato – Almagià e i due studenti americani si recarono alla caserma Podgora molto prima delle 6.00, verosimilmente in un orario di poco successivo alle ore 3.00.

Già sul piano delle dichiarazioni testimoniali, il presunto arrivo presso la caserma Podgora alle ore 6 affermato dall’incipit del rapporto per la Procura è smentito dalla circostanze riferita da Edoardo Almagià nella propria testimonianza, stando alla quale: a) il rientro a casa dei due suoi giovani ospiti sarebbe avvenuto alle 3.15 (con il borsello che essi gli dissero di avere rinvenuto nel taxi utilizzato per recarsi alla discoteca “Make Up”); b) una volta scoperto compiutamente il contenuto del borsello, egli ritenne di “dover avvisare immediatamente gli organi di polizia e, previa telefonata, mi portavo in questi uffici” (cioè la Legione Carabinieri di Roma- Reparto Operativo).

Analogamente, Gilberto (fascicolo 327_02 cit., cfr. link, pag. 12) nella propria deposizione riferisce di avere controllato il materiale contenuto nel borsello con Almagià appena rientrato a casa, “decidendo quindi di recarci immediatamente presso il comando dei carabinieri…”.

Ma al di là delle dichiarazioni testimoniali, la necessità di anticipare l’arrivo dei tre alla caserma Podgora ad un orario assai anteriore a quello attestato dal rapporto alla Procura deriva senza tema di smentita dagli stessi documenti redatti da carabinieri.

Il verbale di sequestro del materiale, di cui ho parlato poc’anzi, redatto alla presenza di Mariano Bini, nella parte in cui esso, come ho evidenziato, viene riaperto per precisare gli effettivi autori del ritrovamento del borsello, afferma testualmente (fascicolo 327_02 cit., cfr. link, pag. 22):

“Si riapre il presente p.v. per dare atto che il ritrovamento del suelencato materiale è stato effettuato dalle sottonotate persone (cioè Gilberto, Almagià e Pallas: nda) che, alle ore 3.00 u.s. hanno provveduto a consegnarlo ed a sporgere regolare denuncia presso l'Ufficio della Legione Carabinieri di Roma che in seguito, per le indagini del caso, ha interessato questo Reparto Operativo….”.

Non solo.

Agli atti della seconda Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro (CM-2),  esiste un fascicolo prodotto dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri su richiesta della Commissione stessa, e consegnato nel gennaio 2018 tramite l’ufficiale di collegamento con l’organismo parlamentare, Col. Leonardo Pinnelli, che originariamente era stato classificato come “riservato” e che, successivamente declassificato nel luglio di quello stesso anno, si può richiedere al link:

https://archivio.camera.it/commissione/commissione-parlamentare-inchiesta-sul-rapimento-e-sulla-morte-aldo-moro-2014-2018?leg=XVII%20Legislatura

Il 9 novembre 2017, la CM-2 aveva richiesto tra l’altro al Comando Generale dell’arma copia della eventuale documentazione esistente, ovviamente, anche presso il Comando “Podgora”, in merito alla vicenda del borsello.

Il fascicolo cui mi riferisco, numero “1223/1”, riporta appunto – oltre, nella seconda parte, a materiale riguardante la vicenda della latitanza di Casimirri – la documentazione consegnata alla CM-2 dagli Enti dell’Arma destinatari della richiesta.

La documentazione è in grandissima parte la riproduzione di quella nota e già agli atti della CM-1 (si veda in proposito il già citato Vol. 122, CM-1), oltre ad alcune richieste di indagine scambiatesi a metà anni ’90 di vari enti degli stessi carabinieri su un’azienda agricola degli Almagià con sede din Roma, Piazza in Lucina.

Tuttavia, per quanto rileva ai nostri fini, il fascicolo contiene un paio di documenti, di quello stesso 14 aprile 1979, redatti dal Comando Generale dell’Arma in ordine alle notizie ricevute, appunto dalla Legione di Roma (caserma Podgora), che non mi risultano – salve mie sviste- mai emersi prima del 2018.

Nel primo documento in ordine di impaginazione del fascicolo (pag. 8), il “Comando Generale- Sala Operativa”, riporta che “Verso le ore 4.00 un professore universitario, cittadino americano (anche Almagià per inciso è cittadino- anche – americano, nda) ha accompagnato presso la centrale operativa della Legione Carabinieri un suo connazionale che, poco prima, a bordo di un taxi preso a noleggio aveva rinvenuto un borsello…” (segue contenuto ecc.)

Di seguito ad un telex indirizzato a varie autorità - tra i quali i Ministeri degli Esteri e dell’Interno, ecc. – (pag. 9, fascicolo in esame), è collocato un secondo documento (pag. 10) , sempre del Comando Generale, che riporta una telefonata ricevuta dalla Legione Roma alle ore 6.50 – l’orario è  apposto in calce, tra i nomi dei due sottufficiali dei rispettivi enti trasmittente e ricevente – con la quale la Legione Roma (la caserma  Podgora, quindi)  aveva comunicato al Comando Generale il fatto del ritrovamento del borsello, collocando la consegna da parte dei tre protagonisti alla caserma Podgora alle “ore 3.50”.

Alla luce di questi elementi testimoniali e documentali, viene pertanto da chiedersi che cosa accadde in quella forbice temporale di oltre due ore, in merito alla quale non è mai emersa alcuna notizia.

E viene altresì da chiedersi una volta di più perché il menzionato rapporto introduttivo dei carabinieri alla Procura – documento che intuitivamente dovrebbe avere la funzione di evidenziare subito alla magistratura i tratti essenziali, ma il più possibile chiari, di ciò che è accaduto – abbia attestato un orario oggettivamente impreciso, e – se ci si limita alla sola lettura di quel sommario riepilogo - potenzialmente pure fuorviante, della consegna del borsello alla caserma Podgora, collocandolo alle ore 6.00, anziché, come in effetti avvenuto, tra le 3.00 e le 3.50.

Vale la pena anticipare, in ordine ai rilievi appena svolti, il fatto che sicuramente non ha giovato al dissipamento di questa nebbia la circostanza – di per sè abbastanza incredibile (qualora non dipendesse da sviste o carenze delle mie ricerche) – che nessuno dei tre protagonisti della vicenda risulta, almeno degli atti liberamente fruibili in rete, mai ascoltato da un magistrato!

Per la verità, dall’indice di alcuni atti del processo contro ignoti, sul ritrovamento del borsello, che è situato nelle prime pagine del citato fascicolo 327_02 (cfr. link, pag. 1 e segg.) sembra doversi evincere che proprio il tenente colonnello Cornacchia, autore del primo rapporto alla Procura sulla vicenda sopra riprodotto, ed in quelle ore in sostanza - quale comandante del reparto operativo della Legione Roma - dominus della situazione che si stava verificando in caserma, sia stato ascoltato come testimone (pag. 4, fascicolo 327_02 cit.: cfr. il riferimento alla pagina “170” degli atti indicizzati): però purtroppo la pagina “170”, cioè dire il verbale della testimonianza di Cornacchia, non si rinviene in nessuno dei fascicoli di libera consultazione acquisti e prodotti tanto dalla CM-1 che dalla CM-2.

Devo pertanto limitarmi, mio malgrado, a formulare l’auspicio che qualche altro appassionato ricercatore riesca, a differenza del sottoscritto, a rintracciare e rendere disponibile quel verbale.

Tuttavia, forse a causa dell’enormità stessa della vicenda Moro, che in modo osmotico tracimò in varie altre vicende, come ad esempio quella che di cui sto scrivendo, talvolta si verifica qualche fenomeno di incontinenza sia pure fugace, incidentale; come se non sia possibile proprio fisicamente contenere del tutto la quantità di materia, di intrecci, di legami, di rapporti, di cui questa tragedia italiana si compone, in un unico, capiente e sicuro alveo; con il rischio immanente di inopinate fuoriuscite, ora di un’illazione, talvolta di un dettaglio, altre volte di “messaggi”.

E’ per l’appunto il caso dell’ex colonnello Cornacchia che, ormai generale in pensione, è stato audito per tre volte dalla CM-2, e le pur scarne parole che gli sono uscite in quel consesso, in ben tre audizioni, sulla vicenda del borsello, quasi voce dal sen fuggita a seguito di una domanda postagli da Miguel Gotor – malauguratamente interrotto dal Presidente Fioroni con la promessa, che è rimasta tale, di tornare a interrogare in seguito Cornacchia sulla questione – meritano di essere confrontate, per il significato antitetico assunto nell’una e nell’altra occasione, con le dichiarazioni che egli stesso aveva reso il 6 agosto 1982 nella sua audizione davanti alla CM-1.

Verso il termine dell’audizione in CM-1 del 1982, il Presidente chiese incidentalmente a Cornacchia (CM-1,Vol 10, pag. 164 del “pdf”), sul presupposto che in merito all’omicidio Pecorelli girassero voci di una possibile responsabilità delle BR:

“…può dirci qualcosa al riguardo di quel famoso borsello che i due stranieri avrebbero lasciato nel taxi!” (il punto esclamativo è testuale nella trascrizione dell’audizione).

Cornacchia rispose che del borsello si era interessato il suo reparto, senza che fosse emerso nulla.

Dietro insistenza del senatore Sergio Flamigni, che ricordò a Cornacchia il contenuto del borsello e dunque la potenziale rilevanza con la vicenda Moro e il falso comunicato del Lago della Duchessa per via del ritrovamento nel borsello di una testina IBM analoga a quella che aveva battuto i vari comunicati durante il sequestro, compreso il fasullo n. 7, Cornacchia ribadiva di non essersi interessato personalmente delle indagini sul borsello, rinviando ad un suo imprecisato collaboratore.

Cornacchia concludeva, in quella sede: “Mi ricordo del borsello perché l’arma dei carabinieri si è interessata, io personalmente non lo ricordo: mi ricordo del borsello, ma non i particolari e le indagini che sono state svolte. Non saprei riferire al riguardo.”

Nel 1982, quindi, Antonio Cornacchia, pur essendo stato firmatario del primo rapporto al Procuratore dott. Sica, dichiarava in sostanza alla Commissione Parlamentare di Inchiesta di non avere nulla da “riferire al riguardo”, rinviando genericamente ad indagini dell’arma dei carabinieri delle quali, per inciso, nulla risultava all’epoca, e nulla risulta ancora oggi (quasi che egli fosse un corpo avulso dell’arma, o, nella migliore delle ipotesi, che fosse stato coinvolto incidentalmente e suo malgrado “solo” quale comandante del Reparto Operativo della Legione di Roma, alla quale, per un mero caso, i tre protagonisti si erano rivolti per la consegna del borsello.).

Il pur fugace cenno fatto da Cornacchia alla vicenda in risposta alla domanda del Senatore Miguel Gotor davanti alla CM-2 è invece e clamorosamente di contenuto opposto.

Il generale in pensione Antonio Cornacchia è stato audito dalla CM-2 in tre sedute successive, il 5 ed il 12 ottobre, ed il 3 novembre, del 2016:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161005_%20sten105.pdf

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161012_%20sten106.pdf

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD047123/20161103_%20sten109.pdf

Le sedute del 5 ottobre e del 3 novembre sono ininfluenti ai nostri fini: con le chiavi di ricerca del software di google “taxi”, “borsello” Chichiarelli”, escono nella prima audizione interessanti riferimenti al falsario che riguardano essenzialmente la vicenda, pur interessante, e non chiarita, ma non di specifico interesse di queste note, delle foto che sarebbero state rinvenute a casa sua dopo il suo omicidio, ritraenti l’On. Moro prigioniero. Nella terza audizione, non risulta addirittura alcunchè in merito a Chichiarelli.

Le affermazioni rilevanti di Cornacchia sono nella seconda audizione, quella del 12 ottobre 2016.

E a mio avviso esse contengono una contraddizione insanabile, che la CM-2 ha purtroppo mancato di approfondire.

A pag. 13 del pdf Cornacchia afferma, sia pure de relato, che Chichiarelli era un confidente dei carabinieri e dei Servizi.

In risposta a una specifica domanda di Gotor, Cornacchia conferma in sostanza che, nella sua qualità di falsario di opere d’arte, Chichiarelli era in particolare in contatto con un paio di carabinieri del nucleo tutela patrimonio artistico, probabilmente Imondi e Solinas (pag. 14 del pdf).

Ma ciò che ci interessa, è che, sempre a seguito dell’incalzare di Gotor, Cornacchia abbia escluso radicalmente (sempre pag. 13 del pdf) non solo di avere contatti personali egli stesso con Chichiarelli, ma anche di averlo mai conosciuto nel modo più assoluto (testuale).

Arriviamo quindi al momento topico (pag. 17 del pdf).

Spostatasi la discussione sull’omicidio Pecorelli, il Senatore Gotor introduce la questione del borsello, rivolgendosi così a Cornacchia: “Senta, nel dicembre del 1979, mi sembra – ma non ne sono così sicuro a memoria – viene trovato un borsello. A me risulta che lei abbia fatto delle indagini.” (Poco dopo Gotor si corregge, dando atto di avere immediatamente verificato la data esatta del ritrovamento, 14 aprile 1979: nda).

La risposta di Cornacchia è di quelle che avrebbero meritato una specifica audizione dedicata: “No, non nel dicembre, molto prima, forse l’anno precedente. Chichiarelli me lo fece recapitare lui il borsello”.

 

Alla conseguente richiesta di Gotor a Cornacchia se egli potesse approfondire, il presidente Fioroni interveniva chiudendo il discorso: “No, finiamo, tanto proseguiremo in altra seduta.”.

Come ho accennato, purtroppo non ci sarà nessuna “prosecuzione” sul punto, né in quella stessa seduta, né nella successiva ed ultima del novembre 2016. E la questione del ritrovamento del borsello resterà ancora una volta avvolta nel mistero.

Restano quelle poche parole di Cornacchia, le quali:

a) smentiscono e contraddicono quanto da lui affermato in CM-1 nel 1982, di non sapere nulla al riguardo;

b) smentiscono e contraddicono, senza che nessuno in CM-2 gli abbia immediatamente contestato l’evidente “virata”, l’affermazione fatta poco prima di non avere mai nulla avuto a che fare con Chichiarelli.

Un fatto essenziale, comunque necessariamente da rilevare, si interpone tra la sterile audizione di Cornacchia in CM-1 del 1982, e quella di segno opposto del 2016 in CM-2: e cioè che nel 1982 Chichiarelli era ancora vivo ed attivo.

Il generale Cornacchia improvvisamente loquace- forse fin troppo- dei giorni nostri, ha tra l’altro di recente fatto trasparire più che un’ipotesi che Chichiarelli agisse anche su mandato dei servizi israeliani, cioè del Mossad: https://darksideitalia.it/tony-chichiarelli-e-il-mossad-una-nuova-luce-sul-caso-moro/

Forse fin troppo loquace, dicevo: Cornacchia, assuntosi, ad esempio, la primogenitura dell’intervento in Via Caetani il 9 maggio a dispetto di risalenti fonti documentali e fotografiche, è un testimone al quale, con ogni evidenza – se ci riferiamo anche solo alla giravolta sulla vicenda del borsello tra CM-1 e CM-2 – va fatta opportunamente una “tara” (come peraltro ad altri testimoni tardivi sulla vicenda Moro), in quanto, anche nei toni delle sue interviste degli ultimi anni, non lesina di far trasparire un qual certo protagonismo.

Egli è tuttavia un uomo che fu di sicuro dentro agli apparati e che quelle vicende ha vissuto e conosce – direttamente o de relato da suoi fedeli ex colleghi, anche dopo aver cambiato reparto- come pochi altri: è quindi difficile passare del tutto sotto traccia l’affermazione resa in CM-2 in risposta a Miguel Gotor, e rimasta purtroppo priva di qualsiasi seguito (se non per quanto da egli stesso continuato a raccontare come riportato dall’articolo di “Darkside” disponibile al link che ho poc’anzi indicato).

Anzi, proprio perché Cornacchia ha detto ciò che ho riportato, e proprio perché quanto egli ha detto non ha avuto alcun seguito, la “notizia” che egli sarebbe stato il terminale della consegna di quel borsello da parte di Chichiarelli stesso, impone una volta di più di continuare ad analizzare, come sto tentando di fare, le anomalie testimoniali e documentali inerenti quanto avvenuto in quella primissime ore del 14 aprile 1979.

Ed è quindi a questo punto giunto il momento opportuno per analizzare più in dettaglio le testimonianze di Almagià, Gilberto, Pallas, e del tassista Mariano Bini, comparando le rispettive descrizioni, ove possibile, delle medesime circostanze che caratterizzano i fatti di quella notte. Alle loro dichiarazioni, posso aggiungere l’esame della deposizione di Alfio Carbone, centralinista del “Radio Taxi” in servizio quella serata, sulla quale fino ad ora – salve mi sviste - non mi risulta  pubblicato alcun riferimento e che ho finalmente reperito con l’ausilio degli altri componenti del gruppo di studio “sedicIDImarzo” (e in particolare, del nostro coordinatore Franco Martines) alla pag. 593 del seguente link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_018.pdf

Le deposizioni dei tre principali protagonisti – Almagià, Gilberto e Pallas – presentano, prima di tutto, due ordini di singolarità che le caratterizzano trasversalmente:

- in primo luogo, in ordine cronologico il primo a deporre - stando al verbale, alle ore 6.00 – fu Almagià, il quale tuttavia – sempre prestando fede alla versione ufficiale che emerge dai documenti – non era presente nel momento topico del ritrovamento del borsello e della prima sommaria verifica del suo contenuto, che i due suoi ospiti avrebbero infatti svolto all’uscita dal “Make Up”. Non è quindi chiaro perché l’ordine delle testimonianze non fu inverso, e non furono fatti testimoniare per primi i due giovani americani;

- secondo poi, i due giovani americani non parlavano affatto (Pallas) o non parlavano bene (Gilberto) la lingua italiana; fu quindi assunto ad interprete lo stesso Almagià, il quale però non solo rivestiva per l’appunto a sua volta la veste di testimone, ma per di più aveva già deposto, e quindi non poteva presumersi imparziale: Almagià, testimone egli stesso, non solo assistette, direi in modo irrituale, all’assunzione di sommarie informazioni testimoniali degli altri due, ma di costoro fu anche l’interprete. Il tutto senza che neppure risulti un ammonimento da parte degli interroganti ad Almagià con conseguente giuramento di adempiere fedelmente la sua funzione di interprete.

In sostanza, gli investigatori all’epoca dovettero fare, come del resto dovremmo fare noi oggi, un atto di fede su quanto dichiarato da Gilberto e Pallas. Tuttavia, il fatto che per gli inquirenti quelle modalità di acquisizione delle testimonianze a quanto pare furono idonee, ciò non significa che esse debbano essere ritenute soddisfacenti anche per i ricercatori.

Resta da chiedersi, in ogni caso, come fu possibile che, in una situazione come quella, non si sia attesa la disponibilità di un traduttore ufficiale imparziale per raccogliere le deposizioni dei due americani.

Come ho già rilevato, queste due circostanze (cronologica e linguistica) non risultano neppure superate ed emendate a posteriori a seguito di una ripetizione delle testimonianze davanti a un magistrato, poiché, a quanto mi risulta, nessuno dei tre è stato mai ascoltato dall’autorità giudiziaria.

Faccio salve alcune dichiarazioni di Almagià rese ai giorni nostri, su articoli di stampa apparsi il 2 novembre 2024, stando alle quali egli sarebbe anche stato, in non meglio precisate sedi, anche accusato di essere stato il custode della Renault 4 rossa nella quale fu rilasciato il cadavere di Moro. Ci tornerò più avanti.

Resto comunque, e volentieri, a disposizione di chiunque sia eventualmente a conoscenza di ulteriori atti processuali, anche solo in sede di istruttoria, che dovessero emergere sui tre personaggi in questione, e che voglia utilmente contribuire alla compiuta conoscenza storica di questo fatto.

(In ordine alla cronologia ed alle modalità di assunzione, e in ogni caso al contenuto, delle tre testimonianze, anche per quanto eventualmente affrontato in seguito, rinvio di nuovo alle pagine da 12 a 16 del già citato link:

https://www.gerograssi.it/cms2/file/casomoro/DVD23/0327_002.pdf?fbclid=IwY2xjawG4bLVleHRuA2FlbQIxMAABHcvyQcb5GIjRnnH_s-RsCrQebF7425PocY1gs5qM7hUVjotzukXf8KDAGQ_aem_wa7keR8KWx9FjWLm72JAvw).

Tenendo presenti questi limiti, si può tentare di comparare le varie testimonianze.

Quella di Almagià è apparentemente del tutto asettica, per quanto riguarda il ritrovamento del borsello, in quanto nel complesso limitata al racconto che gli sarebbe stato fatto dai due giovani ospiti, e quindi non inerente a fatti osservati personalmente.

Tuttavia, alcune circostanze riferite da Almagià sono di certo, almeno in linea teorica, riferibili alla sua diretta conoscenza: a) in primo luogo, il fatto che i due giovani americani sarebbero usciti di casa con un taxi verso l’una (Almagià potrebbe benissimo avere collaborato alla chiamata del taxi); b) poi, il loro rientro a casa verso le 3.15 con il borsello; c) inoltre, l’apertura del borsello con la verifica del suo contenuto; d) infine, il fatto avere immediatamente avvertito gli organi di polizia e di essersi recati alla caserma Podgora.

Viceversa, non è rilevante l’affermazione di Almagià secondo la quale i due americani si sarebbero recati al “Make Up”: di ciò egli non poteva averne alcuna certezza e avrebbe perciò dovuto affermare più correttamente - a differenza del resoconto testuale del verbale della sua testimonianza dalla quale traspare una conoscenza diretta del fatto - che questa circostanza gli era stata riferita dai due.

Le testimonianze di Gilberto e Pallas – ricordo, tradotte da Almagià, e successive alla deposizione di costui- sono del tutto identiche, anche semanticamente, in merito ai fatti della serata ed in particolare sugli orari, che finiscono altresì per coincidere non solo l’uno con quanto dichiarato dall’altro, ma anche con quelli dichiarati – prima di loro – da Almagià.

Infatti, Gilberto – secondo a deporre, alle 6.15, e primo dei due giovani - afferma di essersi voluto recare al locale verso le ore 1.00 insieme alla sua amica, giungendovi verso l’1.15. Tralasciando per ora le circostanze di ritrovamento del borsello, Gilberto afferma di averne controllato il contenuto solo verso le 3.00 “all’atto dell’uscita dal locale”. Se si tiene presente il presunto tempo di percorrenza occorso all’andata (un quarto d’ora), ecco che il rientro a casa finisce per coincidere perfettamente con quanto dichiarato da Almagià, ovvero le 3.15 circa. Anche se c’è un aspetto poco chiaro, di cui dirò tra poco.

Prima è il caso di annotare quanto, sugli stessi punti, ha dichiarato la signorina Pallas, a partire dalle ore 6.45.

Pallas ripete esattamente gli stessi orari attestati da Almagià e Gilberto: i due amici si sarebbero recati al locale partendo verso l’1.00; sarebbero arrivati verso l’1.15; il primo controllo sommario del contenuto del borsello sarebbe avvenuto “all’atto dell’uscita dal locale notturno e cioè verso le ore 3.00”.

Come si vede, le parole utilizzate sono esattamente la copia di quelle di Gilberto.

Anche questa testimonianza, fatti due conti per analogia con la durata del tragitto di andata, sembra implicare la concordanza dell’arrivo a Via della Lungara n. 3, verso le ore 3.15, con quanto dichiarato per primo da Almagià.

Tuttavia, nessuno dei due studenti rende un’espressa dichiarazione sull’orario, neppure approssimativo, di rientro a casa, né, a quanto si desume, nulla in merito gli deve essere stato domandato.

Non solo. Entrambi gli studenti, sia pure con formulazioni letterali leggermente diverse, lasciano trasparire un lasso temporale tra il controllo del borsello “all’atto dell’uscita dal locale, e l’arrivo del taxi chiamato per tornare a casa. Non è quindi del tutto chiaro a che ora sarebbero saliti sul taxi per il ritorno a casa, nè a che ora effettivamente sarebbero rientrati.

In ordine a questo aspetto, si possono formulare un paio di ipotesi basandosi sulla testimonianza del centralinista del Radio Taxi, Alfio Carbone, pag. 593 al link già citato e che qui per comodità riporto:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_018.pdf

In merito a questa testimonianza sulle chiamate di quella sera da lui ricevute al centralino, tralascio per ora le chiamate attorno all’ora di partenza per il locale, e mi limito a quelle effettuate specificamente dal “Make Up”.

La prima chiamata segnalata in orario successivo alle 3.00, dunque troppo tardiva ai nostri fini, è una chiamata alle 3.26.

Restano quindi, come chiamate più papabili, una delle 2.25 e una delle 2.33 (per quanto indicate dal testimone in ordine cronologico inverso, almeno stando al verbale).

Se il tempo di percorrenza fu effettivamente di 15 minuti (e così risulterebbe anche oggi da google maps), i due sarebbero pertanto giunti a casa almeno mezz’ora prima delle 3.15.

Ciò significa che al “buco” informativo su che cosa accadde in caserma nel lasso compreso tra le due e le tre ore, tra le 3.50-4.00 e le 6.00 (inizio del verbale di Almagià), si dovrebbe aggiungere un “buco” informativo di circa un’ora su che cosa accadde in casa di Almagià, tra le 2.45 circa e le 3.45 circa, considerando che da Via della Lungara n. 3 alla caserma Podgora occorrono 4 minuti a piedi.

L’aspetto investigativo non propriamente convincente, per usare un eufemismo - e che tra l’altro è quello che mi ha spinto a ricercare negli atti, per un ormai istintivo moto di diffidenza verso le “conclusioni” di rapporti di sommaria indagine preventiva, l’auspicata esistenza del verbale di Alfio Carbone- è che nel correlativo rapporto alla Procura del 21 aprile si afferma che dalla deposizione del centralinista “non sono emersi elementi di rilievo; cfr. pag. 122 al link seguente:

https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_016.pdf

Riepilogando quanto sin qui illustrato:

a)    La tempistica dello svolgimento dei fatti viene fissata di fatto dalla testimonianza di Almagià, ascoltato per primo nonostante che non fosse stato neppure presente al momento del ritrovamento del borsello. Almagià fissa tanto l’orario di partenza verso il “Make Up” (1.00) dei suoi due studenti, che l’orario del loro rientro in casa (3.15);

b)   Almagià è egli stesso testimone; ciò nonostante assiste alle testimonianze degli altri due protagonisti e, addirittura, funge da interprete per la loro deposizione;

c)     Le testimonianze di Gilberto e Pallas in ordine agli orari e al primo controllo sommario, da parte loro, del contenuto del borsello sono sostanzialmente in fotocopia;

d)   L’orario presunto di rientro in casa si scontra con gli elementi di dubbio, discendenti dagli orari delle chiamate dal “Make Up” di quella notte, che scaturiscono dalla deposizione del centralinista del “Radio Taxi”, Alfio Carbone.

A fronte di un verbale testimoniale del centralinista del Radio Taxi che- ben lungi dall’essere privo di “elementi di rilievo” come invece attestato dal rapporto dei carabinieri del 21 aprile – avrebbe meritato approfonditi riscontri davanti a un magistrato, le testimonianze di Almagià, Gilberto e Pallas, riguardo l’aspetto degli orari della vicenda, appaiono, a mio parere, come le pagine di una sceneggiatura concordemente confezionata, uno spartito stonato rispetto alle normali differenze di ricordi mnemonici che di solito caratterizzano la definizione degli orari tra un teste e l’altro (basterebbe confrontare queste tre dichiarazioni con quelle degli orari dell’agguato di via Fani, ben più variamente indicati dai testi della vicenda).

Non risulta credibile, cioè, a mio parere, che tre testimoni indichino senza alcuna forbice temporale, e senza alcun tentennamento, le ore 1.00 esatte per la partenza dei due giovani da Via della Lungara, e le ore 3.15 per il loro rientro a casa; quanto a quest’ultimo orario, peraltro, in sostanza smentiti dalla testimonianza del centralinista del “Radio Taxi”, perché è evidente che, per coerenza con la tempistica da essi dichiarata, essi non poterono prendere, al “Make Up”, il taxi chiamato alle ore 3.26, bensì o alle 2.25 o, al massimo, alle 2.33.

Bisogna aggiungere che la sensazione che si ricava dalle tre testimonianze è che quella della signorina Pallas sia stata di mero contorno: una testimonianza di cornice aggiunta esclusivamente per corroborare le affermazioni degli altri due protagonisti.

Occorre, in proposito, soffermarsi sull’aspetto centrale, quello delle presunte circostanze del ritrovamento del borsello.

Tralasciando la deposizione sul punto di Almagià, non rilevante, Gilberto – il primo dei due giovani a deporre- afferma che appena giunti al locale, alle 1.15 circa, nell’uscire dal mezzo ho urtato con i piedi contro un oggetto, rivelatosi poi un borsello, che si trovava sul pavimento nel vano posteriore del veicolo. Ho raccolto detto borsello, ritengo senza che se ne fosse accorto il conducente del taxi e mi sono portato all’interno del locale senza per il momento controllare il contenuto dello stesso”.

Verso la fine della deposizione, Gilberto precisa inoltre che: della presenza del borsello all’interno del taxi mi sono accorto io solo ed all’atto di uscire, solo in un secondo tempo e perché da me informata del fatto è venuta a conoscenza anche la sig.na Stephanie”.

La signorina Pallas – confermato, al minuto, l’orario di arrivo al “Make Up dichiarato da Gilberto  - riscontra il ritrovamento del borsello da parte del collega di studi, con una leggerissima differenza: “…dopo che io ero uscita dal mezzo, ho notato che il sig. Gilberto posava a terra un borsello che non era di sua proprietà. Una volta partito il taxi chiedevo al Gilberto dove avesse trovato il borsello e apprendevo così che questo era stato rinvenuto sul pavimento del vano posteriore del taxi. Sul momento non abbiamo controllato il contenuto del borsello…”

Le due deposizioni sono identiche, di nuovo, sul piano testuale, riguardo alla presunta collocazione del borsello “sul pavimento del vano posteriore”  del taxi. La particolarità è nel fatto che Gilberto depone, tradotto da Almagià, prima della Pallas ed afferma la conoscenza diretta dell’ubicazione del borsello; poco dopo la Pallas, ugualmente tradotta da Almagià, ripete testualmente il fatto, tuttavia con l’accortezza di traslare la costruzione sintattica quale fruitrice passiva dell’informazione riferitale da Gilberto.

Non fa una piega, non c’è che dire. Non c’è dubbio che tra le 3.50 e le 6.00, di tempo per acquisire correttamente le deposizioni potrebbe essercene stato a sufficienza.

Ma in questa cornice di quasi assoluta perfezione, il dettaglio che stona, e nel quale si usa dire che si nasconda il Diavolo, c’è.

Gilberto infatti, nel corso della sua precisazione, evidentemente riduttiva del ruolo della Pallas, afferma, come si è visto, che costei sarebbe venuta a conoscenza del fatto unicamente in quanto da lui stesso informata.

La Pallas, invece, stecca una nota dello spartito: afferma infatti di avere notato lei stessa che Gilberto posava a terra un borsello.

I due sarebbero usciti insieme: è dunque secondaria la circostanza rilevata dalla Pallas che il borsello non fosse di proprietà del Gilberto; la Pallas, insomma,  doveva ben sapere che Gilberto non aveva con sé un borsello. In quale altro luogo, quindi,  Gilberto avrebbe potuto reperirlo, se non sul taxi?

Il fatto, dunque, di far risultare la circostanza, di per sé ridondante, che Gilberto a quanto pare abbia messo al corrente la Pallas di aver ritrovato quel borsello sul taxi, suona con molta verosimiglianza come un artificio dialettico per, al contempo, collocare la Pallas in quel luogo e in quel “tempo” quale utile puntello testimoniale, e, altresì, conferirle un ruolo – evidentemente a sua tutela (del genere: “tranquilla, testimone si, ma fino a un certo punto”) -  del tutto secondario.

D’altronde, il vano posteriore di un normale veicolo non è paragonabile ad un vasto volume colmo di oggetti.

Questo banale rilievo apre sostanziosi dubbi sulle modalità di rinvenimento del borsello dichiarate dai due studenti americani.

Primo: non si capisce come sia stato possibile che Gilberto abbia urtato contro il borsello solo all’atto di scendere, non accorgendosi della sua presenza sul pavimento né al suo ingresso nel veicolo, né durante tutto il viaggio, dato che intuitivamente il borsello dovette essere ubicato vicino ai suoi piedi dall’inizio alla fine del viaggio.

Secondo: non si capisce come, in quel limitato spazio, la Pallas non si sia a sua volta minimamente accorta durante il tragitto della presenza del borsello.

La versione del ritrovamento raccontata dai due non mi pare, dunque, minimamente credibile.

In tal senso depongono anche le altre circostanze del presunto ritrovamento.

Prima di tutto, non ha alcuna logica il comportamento dei due americani. Costoro si sarebbero resi responsabili di un fatto penalmente rilevante, appropriandosi indebitamente del borsello. Ma la possibile rilevanza penale del fatto passò evidentemente in secondo piano, davanti ai carabinieri, per la ben diversa rilevanza del contenuto del borsello.

Non si capisce per quale ragione essi non avrebbero dovuto avvertire il tassista della presenza del borsello, dato che tra l’altro, per quanto potevano saperne, quel borsello ben avrebbe potuto appartenere proprio al tassista. Il quale, comunque, se informato, avrebbe potuto attivarsi con l’aiuto della propria centrale per cercare di rintracciare chi avrebbe dimenticato il borsello sul taxi.

Ma al netto di ciò, è del tutto inaccettabile, perché priva di ogni logica, anche la sola semplice idea che i due studenti avrebbero conservato il borsello per quasi due ore all’interno del locale, senza avere alcuna curiosità di verificarne il contenuto se non all’uscita (con il rischio, tra l’altro, di smarrire o dimenticare il borsello, o di subirne il furto: eventi, questi ultimi, che rendono per l’appunto inverosimile l’adozione, da parte di chi intese far ritrovare quel borsello, di questa strana e curiosa modalità di “consegna”).

Questa considerazione è tanto più rafforzata dalla circostanza che la signorina Pallas, stando alla sua versione, avrebbe appunto chiesto ragione a Gilberto, appena scesa dal taxi, del possesso di quel borsello: è quindi del tutto inverosimile che i due non abbiano deciso, per logica conseguenza di quel ritrovamento, come sarebbe stato ben più ovvio, di verificarne subito il contenuto, o che non abbiano avuto alcuna discussione sul da farsi, nell’immediatezza di quel ritrovamento.

E d’altra parte, sono solo le loro parole, e quelle peraltro apparentemente de relato di Almagià (in realtà, lo ripeto, il primo a rendere la propria versione attorno alla quale aderiscono poi quelle dei due americani), a raccontarci di un ritrovamento del borsello sul taxi, e per di più sul taxi del viaggio di andata e non su quello di ritorno, con la conseguenza di creare quel buco inspiegabile di due ore prima che i due giovani avvertissero la curiosità di guardare dento al borsello.

Il tassista Mariano Bini, infatti (cfr. il citato fascicolo CM-2, n. 327_02, pagg. 17 e segg., al link più volte sopra unito) rintracciato a fine turno ed individuato come colui che aveva condotto i due giovani al “Make Up”, con il proprio taxi denominato “Pisa-1”,  alle 7.35 dichiara che, al netto di un possibile controllo superficiale, controllo che comunque egli era solito compiere, non aveva notato alcun oggetto nel veicolo né al momento del ritiro del veicolo all’inizio del turno, né successivamente durante il servizio.

Come sua mera sensazione personale, ma ammettendo di non avere alcun elemento certo in proposito, dichiara che le persone che avrebbero potuto abbandonare il borsello nel taxi avrebbero potuto essere “i due tedeschi” che egli verso le 23.20 aveva condotto da un ristorante di Trastevere al locale “make Up”, quindi ben prima di accompagnarvi anche i due americani. In ogni caso va notato che dopo queste due persone “tedesche”, ma alle 23.45, quindi prima di prendere  Gilberto e Pallas in Via della Lungara, Bini, assieme ad un suo collega, aveva fatto salire una piccola comitiva di altri otto stranieri (quattro coppie, che a suo dire si esprimevano in portoghese) nella zona del Teatro Quirino.

I “portoghesi” saliti, in particolare, sul suo taxi erano quattro: presumendo la regolare occupazione del veicolo, e quindi con un solo passeggero davanti, ciò vuol dire che nello spazio posteriore presero posto tre persone. In uno spazio reso più angusto, intuitivamente, di quello avuto a disposizione in seguito dai due americani, è abbastanza inspiegabile che nessuno dei tre “portoghesi” abbia urtato contro il borsello o comunque nessuno si sia accorto della sua presenza.

L’affermazione più interessante, sul punto, resa da Bini è comunque quella conclusiva della sua deposizione, e cioè di non essersi accorto, durante il servizio di quella notte, che qualche cliente avesse raccolto qualcosa all’interno del suo veicolo.

La descrizione dei propri viaggi di quella notte tra il 13 e il 14 aprile fatta dal tassista non può purtroppo essere verificata mediante la comparazione con la deposizione del centralinista del Radio Taxi, Alfio Carbone, perché quest’ultimo, come si è visto, riporta in dettaglio solo la decina di chiamate ricevute quella notte dal locale “Make UP”: salvo che per due eccezioni di cui dirò tra breve.

La scansione riferita dal tassista non è sicuramente un esempio di precisione svizzera: al netto di possibili, e forse probabili, errori di trascrizione nella verbalizzazione, ad un certo punto da una chiamata delle 23.20 si retrocede di nuovo alle 23, per poi “risalire” alle 23.45. I viaggi a partire dalle ore 23 circa assumono inoltre una frequenza quasi frenetica, tenendo conto del fatto che si sta parlando di Roma e dei tempi che, per come narrati, in alcuni tratti sono veramente stretti.

Ma l’elemento più stonato del verbale di Bini è l’orario indicato al quale egli avrebbe preso a bordo i due americani in Via della Lungara, cioè le “00,05” (mezzanotte e cinque minuti), e non quasi l’1.00 come testimoniato da Almagià e dai due studenti.

Questa versione apre un problema, perché in effetti una delle due eccezioni cui ho fatto cenno, nel verbale del centralinista Carbone, conferma gli orari delle testimonianze di Almagià e dei due giovani americani. Carbone infatti, a richiesta, precisa di avere mandato il taxi “Pisa-1” (cioè Bini) a Via della Lungara, in risposta alla telefonata ricevuta proprio alle 00.50 (cioè l’una meno dieci, orario compatibile con le versioni dei tre protagonisti), da parte di un cliente “il quale chiedeva un taxi che doveva portarlo da via della Lungara al locale Mik-up (sic!)”.

Pertanto, l’orario che appare dichiarato da Bini alle “00,05” potrebbe essere frutto di un banale errore di battitura con inversione delle due cifre dei minuti.

Tuttavia va anche detto che a fronte di una descrizione assai serrata dei viaggi compiuti tra le 22.30 circa in poi fino al momento in cui egli raccolse i due americani (cioè dire, stando alla trascrizione, a mezzanotte e cinque), qualora ci trovassimo effettivamente davanti ad un errore di trascrizione e al posto delle 00,05 dovessimo dunque leggere le 00,50, si aprirebbe per converso un singolare “buco” lavorativo, una cesura nell’attività, o quanto meno nelle notizie in merito ad ulteriori trasporti eseguiti, di circa un’ora da parte del tassista nel momento più intenso della sua serata, a partire dal momento in cui condusse a destinazione i “portoghesi” in Via S. Lucio.

Purtroppo non aiuta a dirimere il dubbio il fatto che Bini non dica praticamente mai a quali orari sarebbe giunto alle destinazioni richiestegli dai clienti, bensì solo il presunto orario di raccolta. Ad esempio, per quanto ci interessa, nella deposizione di Bini non risulta nulla né in ordine al suddetto arrivo in va S. Lucio con gli ultimi clienti trasportati precedentemente ai due americani, né in ordine all’arrivo al Make Up dei due americani, che possa aiutare ad interpretare, in un senso o nell’altro, la trascrizione di quell’orario di partenza da Via della Lungara.

Così come, analogamente, la mancata registrazione da parte di Carbone delle destinazioni richieste da quella decina di clienti che chiamarono dal locale non aiuta a definire con la maggior precisione possibile il reale – ed altrettanto importante - orario di rientro a casa dei due. Orario che se non altro, per quanto ho riscontrato proprio nella deposizione di Carbone, come ho già detto mi sembra si possa comunque ragionevolmente anticipare di almeno mezz’ora rispetto alle 3.15 circa attestate da Almagià e dai suoi due studenti.

Sta di fatto che se, come sembra dal rapporto di Cornacchia a Sica e dalla scansione cronologica degli atti, Bini fu rintracciato quasi subito (depone alle 7.35), e se il centralinista Carbone depone alle 10.25, fornendo orari delle chiamate almeno in apparenza più affidabili, sarebbe stato quanto meno opportuno rendersi conto della differenza di quasi un’ora tra quanto attestato dal tassista (le 00.05) e quanto risultava al centralinista (00.50) , e richiedere sia all’uno che all’altro gli ulteriori chiarimenti del caso.

C’è tuttavia un quesito che rimane non esattamente soddisfatto, in base almeno ai documenti qui citati (che sono quelli che poi per ora sono riuscito a reperire):

e cioè, quando e come viene rintracciato il tassista, visto che gli americani non ne ricordavano neppure la sigla?

Carbone infatti, che come detto viene tra l’altro ascoltato quasi tre ore dopo che il tassista era già stato rintracciato e accompagnato in caserma, dopo avere indicato le sigle dei taxi e in particolare il “Pisa-1” che si era recato a via della Lungara alle 00.50, afferma tra le varie cose: “…né posso specificarvi l’identificazione dei conducenti dei taxi, in quanto gli stessi sono registrati presso l’ufficio amministrativo della cooperativa Radio Taxi sita in via Sn Pio V nr. 20”.

Insomma, neppure Carbone, quando peraltro Bini ha ormai già deposto, può riferire l’identità del conducente, e, anche nell’ambito della tempistica più compatibile, cioè ancora alle 6 di mattina, i due studenti non sanno nulla dell’identificativo del taxi.

Come si arriva, quindi, ad individuare Bini, alle 7 scarse di mattina?

E come mai, a parità delle difficoltà manifestate in proposito dal centralinista, non si è arrivati invece ad identificare anche quella decina di tassisti che furono chiamati dal “Make Up”?

Sono due domande alle quali purtroppo non so, al momento, dare una risposta.

C’è poi un’altra singolarità nella deposizione di Alfio Carbone (il centralinista). Rilevato che tra l’altro proprio la chiamata delle 00.50, alla quale fornisce riscontro il taxi “Pisa-1” (Bini) è indicata come pervenuta da Via della Lungara ma curiosamente senza indicazione del numero civico, viceversa subito dopo – ed è la seconda eccezione cui mi riferivo innanzi in ordine alle specificazioni rese sui luoghi di destinazione dei taxi, almeno nella deposizione di Carbone – il centralinista riferisce di una ulteriore chiamata pervenuta poco dopo sempre da Via della Lungara, questa volta con la precisazione del numero civico 3 (cioè il medesimo del domicilio dichiarato da Almagià e dai suoi due ospiti), per quanto si riesce a leggere sembra alle ore 1.18, chiamata rimasta però senza seguito per abbandono da parte del cliente mentre il centralinista stava reperendo un taxi.

La coincidenza, ammesso che sia tale, è sicuramente notevole, anche se purtroppo temo che rimarrà senza alcun esito la curiosità di sapere chi altri, e perché, chiamò un taxi in quegli stessi minuti da Via della Lungara n. 3, in quella notte di inganni e sotterfugi.

Eppure si tratta di un aspetto assolutamente interessante e meritevole di approfondimento, se si tiene presente la filologia della deposizione del centralinista Carbone.

Infatti, la parte centrale della sua testimonianza è, come ho già rilevato, incentrata sulla decina di chiamate che sarebbero partite quella notte dal locale “make Up”: in sostanza, chi interrogava stava chiaramente cercando di far emergere il nesso delle chiamate con quel locale.

Carbone, come si è visto, precisa di non avere avuto contezza della destinazione dei clienti raccolti presso il locale da quei dieci taxi, e subito dopo aggiunge, dopo aver chiarito di avere controllato “minuziosamente” tutte le registrazioni inerenti il suo turno di servizio, che dal “Make UP” vi erano state “soltanto le chiamate di cui sopra”.

Improvvisamente, rispondendo a specifica domanda (il cui contenuto è ignoto in quanto il verbale riporta solo la risposta a seguire della formula burocratica “A.D.R.”), egli, appunto, precisa che verso le 00.50 era anche giunta una chiamata (da Via della Lungara, senza indicazione del civico) per recarsi al “Make Up”, proseguendo di getto con l’aggiunta, in quello stesso frangente sintattico descrittivo, dell’ulteriore chiamata in argomento (da Via Lungara civico 3) che suona per l’appunto come resa fuori contesto, priva com’è dell’indicazione della destinazione richiesta dal potenziale cliente, e troncata di netto durante la ricerca del taxi.

In altre parole, se il parametro che aveva caratterizzato l’assunzione del teste era quello dei tragitti (soprattutto) da e (in un solo caso) verso il Make Up, è chiaro che occorre chiedersi perché Carbone, nonostante non abbia fornito alcuna indicazione sulla destinazione richiesta, abbia inserito l’aggiunta della seconda chiamata, giunta alle ore 1.18 proprio da Via della Lungara 3, in quel contesto che faceva riferimento al Make Up.

E sarebbe stato interessante sapere, oltre alla possibile destinazione, come mai quel cliente rimasto misterioso abbandonò di netto la telefonata con il Radio Taxi.

Tirando le fila sulla deposizione del centralista, il suo contenuto offre spunti tutt’altro che di scarso o nessun rilievo, come invece affermato dal rapporto di accompagnamento dei carabinieri alla Procura.

In primo luogo, anche a voler tenere per buona la versione ufficiale del ritrovamento del borsello, non torna l’orario di ritorno a casa dei due americani che, a presumibile parità di durata del tragitto rispetto a quello di andata, va probabilmente anticipato di almeno mezz’ora rispetto alle 3.15 dichiarate da Almagià e dai due giovani.

Secondo poi, non si capisce, se non nell’ottica di voler canalizzare l’attenzione sul racconto del viaggio di andata verso il Make Up, il fatto che mentre si riuscì a rintracciare- a quanto pare – con una tempestività di cui, come ho detto, sfuggono le circostanza, il proprietario del taxi “Pisa-1”, e ad interrogarlo già alle 7.35, non furono rintracciati invece i proprietari del 10 taxi indicati da Carbone come quelli che in quelle ore notturne erano stati chiamati dal locale.

Nessuno di costoro risulta rintracciato, e dunque nessuno risulta interrogato; ecco dunque che la versione ufficiale, il racconto di quella notte e del ritrovamento del borsello, viene costruita, e vi rimane ancora oggi posizionata, lungo un asse portante del tutto sbilanciato sulla prima metà del racconto, cioè sulla versione  secondo la quale il borsello sarebbe stato casualmente rinvenuto al termine del viaggio di andata al locale notturno.

Una versione monca, non c’è che dire, se non altro perché priva di qualsiasi riscontro da parte dell’anonimo tassista che avrebbe accompagnato a casa i due americani dal Make Up: tanto per essere ancora più chiari, priva di qualsiasi riscontro non su un dettaglio qualsiasi, ma su un elemento centrale della versione, e cioè se effettivamente un po' prima delle 3 di mattina i passeggeri in questione avessero con sé effettivamente un borsello all’uscita dal locale.

Certo, la valutazione del redattore del rapporto per la Procura (capitano Antonino Tomaselli)  che accompagnava- tra l’altro – il verbale testimoniale di Carbone, indicandola come priva di “elementi di rilievo” non deve avere sollecitato molto- per usare un eufemismo-  l’interesse e gli sforzi dei magistrati; però forse – così credo-  sarebbe bastato leggere quel verbale (allegato ovviamente al rapporto) per farsi venire lo scrupolo o la banale curiosità di voler individuare ed ascoltare quei 10 tassisti.

Purtroppo, almeno nei limiti di una libera ricerca on line su fonti aperte, non mi risulta alcuna citazione a testimoniare, né tanto meno un’assunzione effettiva, davanti ad un magistrato, neppure del centralinista Alfio Carbone; così come, peraltro, di uno qualsiasi di quei tassisti, o del tassista Bini, di Almagià o dei due americani.

V) ALCUNI ALTRI ELEMENTI SUL BORSELLO. DAGLI ANNI ’90 AI GIORNI NOSTRI.

V-A) L’ufficiale dei carabinieri Raffaele Vacca.

In due deposizioni assunte il 15 ed il 27 marzo 1995, davanti al Pubblico Ministero del processo sull’omicidio Pecorelli, pendente a Perugia, deponeva l’allora Tenente Colonnello dei carabinieri Raffaele Vacca.

Egli stesso, ripercorrendo sommariamente in quelle sedi la propria carriera, ricordava di essere stato – all’epoca, con il grado di capitano – in servizio al Centro Sisde di Roma dal 1° aprile 1979 al 31 dicembre 1982, e ancor prima, tra il 1971 e il 1976 presso il Nucleo Operativo di Roma a Trastevere, tra il 1971 e il 1976, senza celare di essere stato in contatto, durante il servizio a Trastevere, sia pure per motivi di servizio e cioè al fine di raccogliere ogni possibile informazione utile, con Franco Giuseppucci, uno dei capi riconosciuti della “Banda della Magliana”, noto con il soprannome di “negro” (e divenuto noto soprattutto nella versione romanzata e cinematografica del suo personaggio come “il libanese”) nonché con Danilo Abbruciati ed Enrico “Renatino” De Pedis, omologhi del “negro” in quel consesso criminale (cfr. alle pagine  214 e seguenti al link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_035.pdf).

Medio tempore, il 18 marzo dello stesso anno, in un verbale di sommarie informazioni come persona informata dei fatti innanzi il ROS- sezione anticrimine dei carabinieri di Roma, Vacca dava atto di avere recapitato a quell’Ente, per farne consegna alla Procura di Perugia, delle proprie agende personali relative, tra gli altri, all’anno 1979 (pag. 219, link sopra unito.).

Nella seconda deposizione del 27 marzo di quell’anno davanti al PM di Perugia, a Vacca veniva chiesto espressamente conto di una specifica annotazione riportata alla data del 14 aprile 1979 nella propria agenda (pag. 221 del link sopra unito):




L’estratto delle agende con le varie annotazioni sulle quali il P.M. interrogò Vacca relative a tutti gli anni dal 1979 al 1982, si caratterizzano per la particolarità che l’unica annotazione apparentemente di carattere privato risulta proprio quella dell’acquisto di quel borsello. Tralascio gli anni successivi (il tutto comunque disponibile alle pagg. 229 e seguenti del link sopra unito), e riproduco qui per comodità l’estratto del 1979:


Non mi risulta che la deposizione sul punto di Vacca abbia avuto alcun seguito.

Certo, al netto del colore del borsello (nero, mentre quello attestato nei rapporti – ma non nelle testimonianze- del 14 aprile 1979 a quanto pare era marrone; si veda sopra) e fermo restando che se, per mera ipotesi, Vacca fosse stato compartecipe di quel “disegno”, l’avere indicato nella propria agenda un colore diverso di quello effettivo mi parrebbe proprio – mi scuso con il lettore per la sintesi brutale, ma che spero sia efficace - il minimo sindacale per un agente del SISDE, rimane la singolarità di un’annotazione di carattere tanto privato nell’ambito di una serie di annotazioni – comprendendo anche quelle fino al 1982, per le quali rinvio al link  - con tutta evidenza di natura, invece, professionale.

Due rilievi sono comunque necessari, dei quali l’interrogante o non si è avveduto, oppure ha deliberatamente lasciato nel “non detto” presupposto alle domande poste a Vacca.

 - a) Primo rilievo: l’annotazione dell’acquisto in data 14 aprile ovviamente deve far presumere un acquisto avvenuto, in quella data, a negozi aperti, e dunque ben dopo l’orario in cui il ritrovamento del borsello sarebbe avvenuto secondo la versione ufficiale, e ben dopo le 6 di mattina, orario intorno al quale i testimoni stavano deponendo davanti ai carabinieri – peraltro ex colleghi di Vacca - di Trastevere; quindi di per sé quell’annotazione non può essere collegata direttamente al borsello ritrovato in quelle prime ore del giorno 14 aprile. Il punto non risulta purtroppo approfondito in sede di escussione dell’ufficiale, e, a ben vedere, delle due l’una:

o quell’argomento non avrebbe dovuto neppure essere trattato, se si ritenne di non approfondirlo in ragione dell’evidenza che l’acquisto da parte di Vacca del suo borsello non poteva che essere avvenuto dopo il ritrovamento di quello oggetto dell’oscura vicenda;

oppure, se l’annotazione dell’agenda di Vacca fu affrontata perché ritenuta fortemente sospetta, il meno che si può dire è che l’approfondimento svolto non fu di certo coerente con quel sospetto;

- b) secondo rilievo: non è stato approfondito l’attributo apposto tra parentesi (vero) riferito al borsello. Non è chiaro se si riferisse al materiale (ad esempio: pelle) che comunque Vacca ben avrebbe potuto esplicitare nell’ambito di un’annotazione così apparentemente privata, per completare la descrizione dell’oggetto acquistato. Il significato di quella precisazione resta dunque neutro, se non ambiguo, non potendosi riferire ad alcun elemento in qualche modo connesso al borsello, posto che andando per esclusione logica e filologica, il suo opposto, cioè un borsello “falso”, sarebbe con ogni evidenza un concetto privo di qualsiasi significato concreto. Anche su questo punto, purtroppo, è mancata la richiesta da parte del P.M. di Perugia di qualsiasi precisazione.

Forse, combinando i dubbi di cui sopra, l’inquirente – se sospettava, come è evidente, di quella annotazione  - avrebbe anche dovuto porsi, e porre all’ufficiale, ed ulteriormente verificare con altri elementi, la domanda se l’annotazione riportata nella sua agenda ed in particolare l’uso del predicato di avere “comprato”  (un borsello nero (vero)”) , tenuto conto anche dell’inquadramento nel Sisde, non rispondesse per caso ad una espressione gergale in uso al servizio per indicare l’avvenuta condotta a termine di un’operazione.

Oltre questo, non è possibile spingersi, e mi limito dunque a porre le considerazioni appena svolte, auspicando che possano essere un utile punto di partenza per eventuali approfondimenti.

V-B) Perché il Sisde chiese notizie al FBI su Almagià e i due americani ancora nel 1984 (e con Chichiarelli ancora vivo)?

Risulta dagli atti che ancora cinque anni dopo la vicenda del borsello, e con Tony Chichiarelli ancora vivo e non ancora sospettato – almeno non pubblicamente – di essere l’esecutore materiale del confezionamento e della “consegna” del borsello con le modalità ancora oggi ufficialmente accettate e condivise sia in sede giudiziaria che nella pubblicistica (ma non in questo articolo), il Sisde stava con ogni evidenza compiendo indagini su Edoardo Almagià, Gilberto e Pallas, al punto di chiedere informazioni al FBI americano (cfr. per tutto quanto di seguito, il fascicolo 557_24 della CM-2 a questo link: https://gerograssi.it/cms2/file/casomoro/B174175/B175/0557_024.pdf).

Il 4 febbraio 1994, Cardella, PM di Perugia per l'omicidio Pecorelli, chiede vari atti sull'omicidio e sulla rivista OP al Sisde (rif. deduttivo nella risposta Sisde a pag. 353 del link poc’anzi unito).

Nella risposta del Sisde al magistrato del 24 marzo 1994, nell'ambito di uno degli allegati, in indice c'è l'indicazione sintetica, tra i vari atti, della nota della FBI n. 163 del 10 MAGGIO 1984 indirizzata alla Direzione SISDE; cfr. pag. 361 link citato:




Come si vede, ancora nel 1994 (dieci anni dopo gli scambi informativi tra i due enti), si trattava tra l’altro di materiale “classificato”.

Con ogni evidenza, quella risposta seguiva ad una richiesta del Sisde al FBI protocollata con nota Sisde di un mese prima, n. 2/1492 del 9 APRILE 1984; cfr. pag. 359 link citato:



Non è chiaro chi fosse lo “Stefano” indicato quale destinatario- presumo per conoscenza – della nota che, in base al numero identificativo, come vedremo è quella inviata appunto al FBI.

Con nota del 22 aprile 1994 (pagg. 693 e segg., documento e link cit.), il Sisde integrava la risposta alle richieste di Cardella del precedente 4 febbraio, inviando tra l’altro in allegato:

Ammesso che questa richiesta di “riservatezza” da parte dell’”Ente estero originatore”  fosse stata all’origine della “classificazione” del documento sopra accennata, l’aspetto tragicomico è che già nella precedente risposta al magistrato del 24 marzo (poc’anzi menzionata) quell’”Ente estero” era stato clamorosamente svelato dal Sisde stesso, poiché in essa si indicava chiaramente tra gli allegati, come si è visto, proprio la fonte della “nota del 10 maggio 1984”, cioè l’FBI.

Tralasciando quest’ultima considerazione, che comunque può essere utile in generale per comprendere come un modus operandi caratterizzato da un eccesso di rimandi documentali possa in realtà condurre a creare confusione negli stessi depositari del segreto e a rivelare inopinatamente ciò che non si vorrebbe o dovrebbe, questa seconda nota integrativa del Sisde per il dott. Cardella avrebbe dovuto condurre a chiedere ragione delle motivazioni per le quali la FBI non gradiva, per così dire, comparire come latore della risposta alle richieste del Sisde; cosa tanto più oscura alla luce del fatto, come vedremo tra poco, che quella risposta consisteva in un sostanziale “nulla di fatto”.

La nota in questione dell’”Ente estero” è collocata a pag. 791 del documento in esame e al link di cui sopra, e la riproduco per comodità:



Dai rispettivi numeri di protocollo dei “files” indicati nell’”oggetto” del documento – rispettivamente 163 e 2/1492 – scorrendo a ritroso le note a ritroso del Sisde, di cui ho poc’anzi dato conto, emerge senza possibilità di dubbio alcuno – ancorchè non risulti nel testo di quest’ultimo documento alcun riferimento all’”Ente estero originatore” – e a dispetto dell’intestazione in epigrafe su carta del Sisde, che questo documento datato 10 maggio 1984 è per l’appunto la risposta – n. 163 - inviata dal FBI al Sisde in risposta alla richiesta n. 2/1492 del precedente 9 aprile, e che il Sisde semplicemente si limitò a ritrascrivere su propria carta intestata per non rivelare, appunto, detto ente estero; in realtà, come detto, già ampiamente rivelato, se solo si fossero ricomposti i pezzi del “puzzle” comunicativo inviato all’autorità giudiziaria richiedente.

   Il fatto che nel testo in inglese il mese sia indicato “aprile” anziché “april”, può essere pertanto derubricato a mio avviso senza patemi ad un errore di battitura nella trascrizione dell’originale inglese nel “finto” originale intestato Sisde in doppia lingua.

In ogni caso, sulla sequenza non possono sussistere dubbi: la certezza si ricava, oltre che dalla scansione temporale delle rispettive note del Sisde (9 aprile) e del FBI (10 maggio), che non possono che corrispondere per sequenza anche logica ad una richiesta che di necessità precedette la risposta, anche da alcuni riferimenti linguistici e testuali:

-        Il file del mittente (“our”, cioè nostro) è per l’appunto il 163, che lo stesso Sisde il 24 marzo si era lasciato “scappare” essere una nota del FBI;

-        la forma della scrittura delle date, sia della datazione del documento, che di quella della richiesta Sisde cui la FBI stava rispondendo, è quella tipica in uso negli Stati Uniti, e cioè prima il mese e poi il giorno;

-        inoltre, anche dal punto di vista filologico, l’apposizione per primo del testo in inglese indica con chiarezza che quel testo era l’originale, e quella in calce era solo la traduzione ad uso interno degli inquirenti italiani.

Il Sisde dunque, nella primavera 1984, poco dopo la rapina alla Brink’s Securmak e con Chichiarelli ancora vivo e attivo, ma dopo ben cinque anni dall’episodio che ci occupa, stava ancora compiendo indagini – l’oggetto recato dall’epigrafe è chiaro - su Almagià, Pallas e Gilberto, tutti e tre cittadini statunitensi, incluso Almagià per nascita anche se con doppia cittadinanza.

Come ho più volte rilevato, non risulta che queste indagini abbiano avuto un seguito in sede giudiziaria, neppure in sede istruttoria, almeno non per questa vicenda (viste le successive traversie giudiziarie personali sia in Italia che negli USA vissute da Almagià, e che giungono fino ai nostri giorni,  per accuse di presunti traffici illeciti di reperti artistici e archeologici).

Piuttosto, non posso omettere di far notare come, a fronte dell’esito negativo delle ricerche esperite dal FBI, si pongano evidenti errori nell’indicazione dei nomi delle tre persone su cui si voleva indagare, se si confronta questo documento con il rapporto e i verbali delle testimonianze prodotti dai carabinieri; e precisamente, nell’ordine di menzione: Gilberto viene chiamato come “Michel Antony”, anziché come “Michael Anthony”, Pallas viene indicata come “Stephany”, anziché Stephanie”, e soprattutto Almagià viene trascritto, quanto al nome, come “Carlo Gustavo Edoardo” anziché “Edoardo come primo nome,  e, quanto al cognome, come “Almogia” (ovvero sia con la “o” e senza accento), anziché Almagià.

Non so dire quale sia stata l’origine di questi errori, e se essi abbiano avuto riflessi sul mancato riscontro di dati negli atti del FBI a loro nome. Tuttavia, questa constatazione mi conduce direttamente ad evidenziare il vero convitato di pietra, il fantasma di questo scambio documentale, che sarebbe stato assai utile conoscere per capire le ragioni sottese alla prosecuzione delle indagini sui tre anche dopo cinque anni il fatto: non si rinviene, cioè, purtroppo, il testo completo della richiesta formulata dal Sisde di informazioni al FBI, né risulta se l’autorità giudiziaria ne abbia chiesto o meno l’acquisizione (con la conseguenza, tra l’altro, che non è per l’appunto possibile stabilire se quegli errori di trascrizione dei nomi sia stato indotto dal Sisde, o se viceversa sia stato frutto di errato recepimento da parte del FBI).

 

V- C) La versione tardiva di Almagià su quella notte. Sue vicende nei decenni successivi fino ai giorni nostri e una sua recente sconcertante dichiarazione.

Edoardo Almagià, in epoca più recente, ed in uno luogo che si presume più meditato, qual è il proprio sito internet, quindi in una sua tranquilla descrizione unilaterale degli eventi, ha reso una descrizione del fatto di quelle prime ore del 14 aprile 1979  differente da quanto risulta accertato nei verbali, tra i quali quello della sua stessa testimonianza, raccolto a caldo dai carabinieri in quelle stesse ore.

Almagià scrive infatti, tra l’altro, sul sito: https://almagia.it/cenni-biografici-biografia/prime-esperienze-lavorative-tra-washington-napoli-e-roma/:

Tornato a Roma, sono stato chiamato dal direttore della American University of Rome, dove ho insegnato Storia dell’Arte antica. Si chiamava David Colin, dell’accademico aveva poco e ho sempre sospettato fosse stato un agente dei servizi segreti. Avendo a disposizione tutti i musei e i monumenti di Roma, oltre che Pompei, Villa Adriana, Cerveteri ed altri siti, non ho mai dato una lezione in classe. Volevo che gli alunni toccassero le cose e le vedessero con i propri occhi. Per chi si avvicinava all’arte non vi poteva essere esperienza migliore.

Per arrotondare lo stipendio che non era dei più lauti, affittavo qualche volta la seconda stanza da letto che avevo nel mio appartamento di Via della Lungara e ogni tanto a tempo perso mi occupavo di antiquariato.

Di questo periodo voglio ricordare un episodio dei più curiosi. Una sera stavo aspettando a casa un gruppo di studenti per passare insieme qualche ora piacevole. Giunti da me mi mostrano una cartella da ufficio e mi chiedono di guardarci dentro. La poso sul tavolo e la svuoto. Ne esce fuori una rivoltella, alcuni proiettili, un certo numero di schede, pagine di elenco telefonico con nomi sottolineati, la testata di una macchina da scrivere ed un’insieme (sic) di carte da collegare alle Brigate Rosse e alla faccenda Mino Pecorelli. Chiedo come ne fossero venuti in possesso. Mi dicono di essere saliti in un taxi per venire da me e al momento di pagare la corsa si sono accorti di questa cartella. Usciti dalla macchina, vi hanno dato un’occhiata e hanno pensato bene di farmi esaminare il contenuto.

Dopo avere ispezionato attentamente tutto il materiale e rendendomi conto che sui nomi menzionati poteva forse pendere una minaccia di morte, ho raccolto il materiale insieme agli studenti e li ho portati alla stazione dei Carabinieri di Largo Cristina di Svezia.

Consegnata la borsa e descritte le modalità del ritrovamento, siamo stati tenuti lì ed interrogati per alcune ore. Il materiale recuperato, in particolare la testata della macchina da scrivere, era tutto da ricollegare al rapimento Moro. Chi ancora ricorda i fatti sarà sicuramente al corrente della storia della famosa testata.

Quando ho raccontato la storia ad un anziano giornalista di mia conoscenza, sono quasi stato rimproverato. Mi ha detto che in Italia non ci si può comportare da inglesi, che mi sono infilato in un vespaio, che il mio nome sarebbe finito negli elenchi dei servizi segreti e che come ricompensa sarei stato messo sotto sorveglianza, pedinato e con il telefono sotto controllo.

Parto dalla fine: Almagià è stato oggetto di pesanti accuse dalla autorità sia statunitensi che italiane, fin dagli anni ’90, sui suoi presunti traffici illeciti di opere artistiche-archeologiche. Non sorprende pertanto l’excusatio non petita di essere finito sotto osservazione per la vicenda del borsello, per la quale in realtà non pare sia mai stato interrogato da alcun magistrato.

Si veda a puro titolo esemplificativo al link seguente dove è possibile scaricare gratuitamente, previa semplice registrazione, un saggio del 2009 del noto giornalista del “Messaggero” di Roma, e saggista,  Fabio Isman: https://www.academia.edu/25009821/I_predatori_dellarte_perduta_Skira_2009_text

Arriverò tra poco all’ultimissima vicenda in merito, rilevante prima di tutto perché vi si rinviene una dichiarazione alla stampa del nostro a dir poco inaudita.

In queste “memorie”, Almagià rende le “descritte modalità del ritrovamento” (del borsello: nda) in modo del tutto opposto a quelle da lui stesso dichiarate ai carabinieri nel 1979.

E’ perfino superfluo sottolineare come in queste righe egli attesti il ritrovamento da parte dei suoi amici al termine di un viaggio in taxi verso casa sua (e non al termine del viaggio verso il locale “Make UP”, che in queste note non viene neppure citato di striscio). La tempistica del ritrovamento è qui attestata quindi in modo diametralmente opposto a quella dichiarata il 14 aprile 1979.

Egli inoltre fa riferimento ad “un gruppo di studenti (e non a due sole persone) che egli stava aspettando, per l’appunto a casa sua, e non ad un rientro in casa di due soli studenti dopo un paio d’ore trascorse nel locale notturno.

Il borsello viene inoltre descritto come una “cartella da ufficio”, che è cosa diversa da un borsello.

Rimane la costante del presunto ritrovamento dell’oggetto alla discesa dal taxi, e dell’apprensione illegittima del medesimo oggetto da parte degli “studenti”.

Almagià ammette infine quanto ho evidenziato in precedenza: e cioè l’evidente lasso di tempo durante il quale egli e i suoi ospiti sarebbero stati “tenuti lì ed interrogati per alcune ore”:  perché, dunque, nulla è dato sapere ufficialmente su quelle 2-3 ore tra l’arrivo alla caserma e l’inizio delle verbalizzazioni?

I tre verbali, come ho già rilevato, sono lunghi a mala pena poco più di una pagina ciascuno, e ripetono come un disco rotto la stessa versione “al minuto”.

Cosa è successo in caserma, a Trastevere,  tra le 4 e le 6 del mattino? Fu forse concordata una versione plausibile, e  sostanzialmente immune da eventuali dubbi dell’autorità inquirente, in quanto abilmente imperniata sulla “casualità” del ritrovamento dell’oggetto?

Non è credibile che, nel momento in cui in un luogo meditato di sue memorie personali come il proprio sito, Almagià ripercorra- peraltro legittimamente – questo particolare episodio, che ben avrebbe potuto evitare di citare, egli non ricordi correttamente gli eventi di cui sarebbe stato protagonista, in una vicenda così rilevante della storia giudiziaria, e della cronaca, italiana recente: l’alternativa in ordine al momento del ritrovamento del borsello da parte dei suoi “studenti” andrebbe quindi risolto, una volta per tutte: o al momento del viaggio verso il “Make Up”, o, all’opposto, al momento dell’arrivo a casa sua.

La differenza è fondamentale, anche sotto il profilo della logica sottostante alle due versioni. Perché quella ufficiale, del ritrovamento all’1.15 circa all’arrivo al “Make Up”, proprio non sta in piedi.

Resterebbe quindi quella attestata ai giorni nostri sul sito di Almagià, cioè del ritrovamento della “cartella da ufficio” al rientro a casa del “gruppo” di studenti. Versione in ordine alla quale non constano iniziative da parte dell’autorità giudiziaria per dirimere l’evidente conflitto con quella ufficiale risultante dai rapporti e dai verbali del 14 aprile 1979.

In ordine alle vicende personali di Almagià quale- adotto volutamente una formula sintetica- mercante d’arte, che ne hanno caratterizzato la sua vita personale da decenni, ho fatto già cenno e rinvio, oltre che al menzionato saggio di Fabio Isman, al materiale liberamente fruibile in rete.

Vale però assolutamente la pena di evidenziare l’ultima notizia apparsa su di lui, proprio a giorni nostri, ad inizio dello scorso novembre 2024, rinvenibili tra i molti al link seguente: https://www.open.online/2024/11/03/storia-edoardo-almagia-antiquario-tesori-trafugati-mandato-arresto-usa/

In questa notizia, che riguarda Almagià per un recentissimo mandato di arresto delle autorità USA per presunto traffico illecito di opere artistico-archeologiche del valore di milioni di dollari (accusa che segue quelle precedenti già della fine del secolo scorso) , e prescindendo ovviamente dal merito delle accuse, la parte che mi preme evidenziare è la seguente:

“In un’intervista a Repubblica, Almagià si è descritto come «una vittima di persecuzione». «Mi hanno accusato di aver nascosto la Renault rossa in cui è stato ucciso Aldo Moro o di essere in contatto con la banda della Magliana – dice – Vengo messo in mezzo perché ho deciso di combattere questo sistema», afferma il mercante, respingendo le accuse. E sul mandato di arresto nei suoi confronti, Almagià afferma di «essere caduto dalle nuvole: me lo ha detto il giornalista del Nyt. Ma io – continua – non ho fatto nulla, non ho mai avuto una galleria, un negozio».”

L’affermazione di Almagià che ho sottolineato è di gravità quanto mai inaudita, nel senso letterale del termine, poiché non mi consta, come ho più volte sottolineato, per quanto io abbia ricercato, alcun atto giudiziario su di lui a seguito della vicenda del borsello oggetto di questo saggio; tanto meno alcun atto giudiziario  che ne abbia trattato negli strettissimi termini evidenziati, quale presunto custode addirittura della Renault 4 rossa che fu la prima bara di Moro in Via Caetani:“acciambellato in quella sconcia stiva “, come ne scrisse il Poeta Mario Luzi.

Oltre due mesi sono passati, mentre scrivo, da quell’affermazione: eppure essa è passata come acqua sull’olio, nell’indifferenza più totale e senza alcuna reazione – almeno per quanto consta pubblicamente- degli organi inquirenti di questo Paese. Purtroppo, anche i cronisti che hanno raccolto questa affermazione non sono stati in grado, a quanto pare, di dare il giusto seguito a queste rilevanti parole.

Edoardo Almagià (e famiglia) era in effetti proprietario (anche) di immobili in Via/Piazza di Monte Savello n. 30 (strada e piazza sono in effetti un tutt’uno), a margine della Sinagoga e al liminare di uno dei lati di quel trapezio irregolare che delimita il quartiere noto come il “Ghetto” ebraico di Roma, uno dei siti più belli, tra i i più belli, della magnifica Capitale, tra resti millenari e palazzi rinascimentali di alcune tra le famiglie (come la famiglia Orsini) tra le più nobili e ricche di Storia della città.

In quello slargo latistante il Lungotevere, secondo Valerio Morucci la mattina del 9 maggio 1978 la Renault 4 rossa con il cadavere di Moro condotta da Moretti e Maccari, proveniente dall’improbabile prigione di Via Montalcini, si sarebbe incontrata per l’ultima tappa con l’auto - in attesa in quei pressi- che doveva fungere da battistrada per le ultime centinaia di metri fino a Via Caetani, condotta dallo stesso Morucci e da Bruno Seghetti.

Mi chiedo, e chiedo, se per caso Edoardo Carlo Gustavo Almagià, nato a New York a seguito dell’emigrazione della famiglia israelita in conseguenza delle criminali “leggi razziali” emanate dal regime fascista, ed emerso in questa storia unicamente come domiciliato in Via della Lungara n. 3,  ma proprietario “inaspettato” anche di immobili in Via di Monte Savello 30, non abbia voluto lanciare un qualche “messaggio” ad orecchie più sensibili di quelle rimaste apparentemente sorde in questo mese e mezzo dall’apparizione della notizia di cui sopra.

Nessuno meglio di lui potrebbe attestare se, e in quali sedi, egli sia effettivamente mai stato fatto oggetto anche solo di un’illazione come quella, gravissima, da egli stesso riferita alla stampa lo scorso inizio di novembre 2024.

VI) CONCLUSIONI.

E’ giunto il momento di riassumere opportunamente le fila del lungo discorso che ho tentato di articolare.

Immaginando un percorso argomentativo circolare, faccio ritorno al “prologo” introduttivo, per ripercorrere poi schematicamente i punti dubbi sollevati.

L’analisi istituzionale e pubblicistica della vicenda del presunto ritrovamento del “borsello” (o “cartella da ufficio”?) su un taxi il 14 aprile 1979 si è adagiata sulla “casualità” del ritrovamento, senza avvedersi che in tal modo si potrebbe ben vanificare la stessa prospettiva di indagine che ha posto al centro, con evidente sbilanciamento dell’asse portante della ricostruzione della storia, il disegno ricattatorio-comunicativo pur giustamente riconnesso al contenuto di quell’oggetto, disegno che peraltro ancora oggi non si può dire concordemente e pacificamente definito (ricatto a chi? Messaggio a chi? Da parte di chi?).

Se il ritrovamento di quell’oggetto è, infatti, con tutta evidenza, la prima ed essenziale fase di funzionamento di quel disegno, rimettere il rinvenimento alla pura casualità significherebbe dover ammettere il suo esatto opposto, e cioè che in virtù dello stesso “motore”, cioè il fato, quel borsello avrebbe pure potuto non essere mai ritrovato (per dispersione, furto, distruzione, abbandono, ecc.).

La logica ci conduce ad affermare esattamente l’opposto: e cioè che proprio la verosimile riferibilità almeno sul piano esecutivo ad un “marchio di fabbrica” affidabile e sperimentato, quale fu Tony Chichiarelli, impone di ritenere le modalità di ritrovamento di quel borsello tutto meno casuali, bensì come parte esse stesse del progetto – quale che fu – cui il contenuto di quel “borsello” doveva corrispondere.

In proposito, l’analisi dei documenti disponibili, per quanto scarni, e senza che ovviamente si possa dire individuata una prova provata dell’artificiosità della versione ufficiale, consente di evidenziare i punti deboli che ho tentato di enucleare e che qui riassumo:

-  A) i due studenti, se stiamo a quanto appurato, si resero protagonisti di un reato. Ciò che più conta, rimane del tutto inverosimile ed illogico:

1) che Gilberto si sia accorto del borsello solo al momento di scendere dal taxi;

2) che essi non abbiano ritenuto di consegnare al tassista quell’oggetto;

3)  che essi abbiano portato all’interno del locale per circa due ore quell’oggetto senza mostrare alcuna immediata curiosità di verificarne il contenuto;

4) che essi abbiano corso il rischio che l’oggetto venisse loro sottratto, o andasse smarrito, all’interno del locale (o successivamente);

- B) l’orario indicato per il rientro a casa deve essere anticipato di almeno mezz’ora, alla luce della deposizione del centralinista del radio taxi Alfio Carbone;

- C) il tassista del loro viaggio di andata verso il “Make Up” non è stato in grado di affermare alcunchè in ordine alla presenza di quel borsello sul taxi;

- D) il tassista stesso, Bini, è l’unico rintracciato dai carabinieri;

- E) non è dato sapere come egli sia stato rintracciato immediatamente alla fine del servizio, cioè entro le 7 di mattina, dal momento che i due studenti americani affermano di non ricordare la sigla del taxi, e che il centralinista Carbone, tre ore dopo, abbia affermato che non era in grado di collegare alle sigle dei taxi i rispettivi titolari;

- F) nessuno dei dieci tassisti indicati dal centralinista Carbone come inviati al locale “Make Up” in quella notte è mai stato ascoltato, in particolare i due chiamati alle 2.25 e alle 2.33: non si ha perciò nessun riscontro alle affermazioni dei due giovani americani né in ordine al rientro a casa, né in ordine al fatto che avessero con loro un borsello;

- G) nell’ordine delle testimonianze, Almagià, pur non essendo stato presente al momento del ritrovamento né testimone dei due viaggi dei suoi ospiti, viene ascoltato per primo;

-H) le testimonianze dei due studenti, quanto agli orari e alla descrizione dei fatti, ricalcano quanto previamente affermato da Almagià e sono l’una in identica sincronia con l’altra;

- I) le testimonianze dei due studenti vengono raccolte alla presenza di Almagià e con la traduzione, senza alcun giuramento, di entrambe le loro dichiarazioni da parte di costui, in palese, potenziale conflitto di interessi;

- L) le copie disponibili dei tre verbali non recano né il nome, né alcuna sottoscrizione, neppure in sigla, di un verbalizzante dei carabinieri;

- M) tra l’orario dell’arrivo dei tre alla caserma Podgora, oscillante tra le 3.30 e le 4.00 del mattino, e l’inizio della verbalizzazione della deposizione di Almagià alle ore 6.00, trascorrono oltre due ore nelle quali è ignoto cosa sia accaduto. Ciò è tanto più sospetto alla luce della consistenza dei tre rispettivi verbali testimoniali, che constano ognuno di poco più di una pagina, con dichiarazioni, in sostanza, in fotocopia;

- N) la tardiva ed incidentale dichiarazione di Cornacchia in risposta alla domanda di Miguel Gotor in CM-2 (improvvidamente interrotto dal presidente Fioroni) afferma senza mezzi termini che il borsello gli fu fatto avere da Chichiarelli: è rimasto privo di qualsiasi sviluppo che cosa il generale in pensione abbia inteso dire esattamente con quelle parole, fermo restando che l’affermazione rinvia comunque ad una diretta azione di Chichiarelli volta a consegnargli – quale all’epoca responsabile del Reparto Operativo di Roma – quel borsello, direttamente o per un qualche consapevole intermediario;

- O) la versione fornita da Almagià sul proprio sito in anni recenti, inverte l’ordine di ritrovamento del borsello spostandolo al momento del termine del viaggio verso casa sua, per passare una serata insieme, da parte di un imprecisato “gruppo di studenti”; scompare qualunque riferimento al locale notturno, e i suoi due ospiti dell’epoca si confondono in un indistinto gruppo di più persone. Non è verosimile che Almagià non ricordi i dettagli di una vicenda così grave e particolare e ne dia, senza apparente ragione, una versione diversa da quella testimoniata ai carabinieri:

- P) i magistrati di Perugia non effettuarono nessun particolare approfondimento sulla singolare annotazione contenuta nell’agenda dell’allora capitano Vacca alla data del 14 aprile 1979 in ordine all’acquisto di un borsello in quella data. Non è quindi possibile fare alcuna ulteriore ipotesi su quell’annotazione, salvo rilevare che, per accontentarsi di una risposta scontata come quella data dall’ufficiale- già in servizio al Sisde nel 1979, e negli anni precedenti al reparto Operativo di Roma -  nella sua escussione, forse tanto valeva la pena non porsi proprio il problema.

Quello che, al momento, non sono riuscito a verificare, è l’esistenza di rapporti di conoscenza personale tra Almagià e Chichiarelli, questione meritevole comunque di ulteriori ricerche, vista la frequentazione del mondo dell’arte che caratterizzava entrambi.

In conclusione, la mia personale convinzione è che la versione ufficiale del ritrovamento del “borsello” sul taxi la notte del 14 aprile 1979, quale cioè evento dovuto ad una mera casualità, sia artificiosa e smentita dalla logica e dai dubbi emergenti dalla ricostruzione dei documenti disponibili.

L’opinione ormai comunemente accettata e da sempre data per scontata, di un ritrovamento casuale del borsello, ha finito per amputare la ricostruzione complessiva della vicenda, privando la legittima ricerca delle finalità insite nel contenuto di quel “borsello” dell’individuazione della stessa origine di quel “disegno” e quindi, a seguire, del suo svolgimento: e cioè a chi e come esso doveva essere consegnato per divenire di pubblico dominio e raggiungere il suo scopo ricattatorio-comunicativo. Al punto che ancora oggi le ipotesi sul “messaggio” insito nel contenuto del borsello non sono né chiare, né pacifiche, né condivise.

Ulteriore elemento che meriterebbe approfondimento, è infine la recente dichiarazione di Almagià di essere stato a suo tempo anche “accusato” di avere custodito la Renault 4 rossa che fu, per dirla con il Poeta, la “sconcia stiva” in cui fu consegnato “acciambellato” il cadavere di Aldo Moro.

 

Nota: tutti i link citati e riprodotti nell’articolo sono risultati attivi alla data del giorno 11 gennaio 2025.

8 commenti:

  1. Michael Anthony Gilberto died prematurely in 2005, of a terminal disease. He is survived by his brother Brent, to whom Mike had told the handbag story back then, more or less in the known terms. Nothing re Almagiá though. It makes me think that possibly, probably, Mike really happened to be in that taxi that night - why would he lie to his own bro ? But : somebody must have planted the handbag inside there just before Mike got on it. Mike never told his bro much more about his Rome stay - it was kind of a mystery for Brent. Looks as if Mike was framed - I suspect it was Almagià who set him up, but finding evidence will be tough. Key to this affair might be Mrs Pallas, but she´s nowhere to be found and Brent has never heard of her. I do not even know if she´s still alive, but from what I gather from the SSDI, she should be.
    Mike´s family was your average middle-of-the-road Italian-American affair, on his father´s side (Gilberto) : his dad ran a tobacco store, which is now being managed by Brent. His mother´s maiden name was Hassan, which might either be Arabic or Jewish (Hazan in Hebrew means singer, synagogue singer). No involvement apparently, in dirty or murky dealings of any kind.
    Mike was the smart one, and he became an arts impresario, much beloved in his field. A very very nice guy apparently.
    I hope this helps.

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  2. Hi Crow, thank you so much for your very interesting news. Can you write us to our mail (sedicidimarzo@gmail.com) just in case of any possible addendum? Thank you again very much in advance. Franco Martines f. SEDICidiMARZO

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  3. Le origini storiche dell´AUR portano a due ebrei su 3 fondatori : David Tyrone Colin, ex agente OSS, aveva americanizzato il suo originale cognome ebraico Cohen. L´altro è Giorgio Alfredo Tesoro, professore di economia sotto il fascismo, che pur avendo sottoscritto il giuramento di fedeltà imposto nel ´31, fu poi estromesso nel ´38 dalle leggi razziali ed emigrò negli USA, dove fu accolto a braccia aperte e finanziato da Rockefeller, fino ad assumere prestigiosi incarichi governativi a carattere economico ma pure di intelligence, dato il bagaglio di conoscenze sull´Italia che si portava appresso. Furono questi due ebrei a fondare l´AUR nel ´69 (guarda caso, l´anno d´inzio della strategia della tensione), insieme con un´aristocratica nonebrea ma di altissimo rango di nome Lisa Sergio, la quale prima fu progandista principe dell´eiar, poi per motivi mai chiariti emigrò negli USA pure lei diventando ufficialmente antifascista.
    Colin-Cohen aveva lavorato pure per l´Olivetti, altro clan importante nel caso Moro per via di Roberto di Monte Savello associabile sa ad Almagià sia ad una delle tappe del tassista del borsello prima degli americani.
    Le altissime connessioni di questi 3 con l´establishment americano coprono anche il CISA di Caetani 32. Altro consulente alle origini dell´AUR fu il politico italo-americano Emilio Daddario, anche lui guarda combinatzione, ex OSS.
    L´intima connessione di Colin con il clan Almagià nasce ben prima dei ´70 : Colin/Cohen era molto amico dell´ebreo Edoardo Volterra, noto esperto di diritto romano e figlio del matematico Vito. E la famiglia Volterra era fusa con gli Almagià. I due s´erano conosciuti a Roma durante la guerra, e Colin portava ai Volterra-Almagià, con la copertura dell´OSS, beni quasi introvabili in guerra e nel primo dopoguerra, quali gelato e scarpe di pelle.
    Roberto Almagià, noto geografo, insegnò all´AUR diversi anni : egli era parente di Edoardo in linea materna. Un altro consanguineo di Edoardo Almagià, Stefano, fu studente AUR dal ´75. E naturalmente, Edoardo fu visiting professor all´AUR, però si direbbe di scienze politiche non di arte, per cui non si comprende bene a questo punto, la connessione con Gilberto.
    In pratica, Almagià era di casa all´AUR da sempre, e conosceva benissimo Colin e le sue radici OSS, a differenza di quel che va cianciando sul suo sito.

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    1. Errata corrige : il Roberto Almagià che insegnò all´AUR era un altro, non il geografo che era morto nel ´62.

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  4. Vorrei aggiungere altra cosa importante : io non sarei così innocentista come il primo commento qui sopra, su Gilberto e Pallas : da 2 o 3 anni ormai, più di uno studioso ha osservato che la versione ufficiale del ritrovamento del borsello è del tutto assurda. Perché sospetto anche (oltre che di Almagià naturalmente) anche dei due studenti ? Per via del cosiddetto "mito dell´AUR" - che mito non è, almeno in buona sostanza è realtà documentata. Mi spiego : l´AUR esiste da 56 anni ormai, e di generazione in generazione, gli studenti e lo staff (non dico tutti, ma parte) si tramandano questo : che fin dalle origini nel 1969, l´AUR nasca come paravento dei servizi americani. Che Colin fosse una spia OSS (sezione R&A, research and analysis, cioè raccolta ed analisi informazioni) è documentato e non ci piove. Lo scopo del mandarlo a Roma a fondare l´AUR, secondo appunto il cosiddetto "mito dell´AUR", fu quello di spiare le sinistre. Insomma, una Hyperion ante litteram, una continuazione o estensione dell´Usis e simili.
    Ma attenzione : il sergente OSS Colin/Cohen non era soltanto uno spione da scrivania, in giacca e cravatta : egli partecipò anche ad operazioni stay behind, cioè di infiltrazione dietro le linee nemiche, a fine ´44 nel Nord : gli andò male e fu internato in Germania. Insomma, anche se la sua specializzazione era, diciamo, "giornalistica", non gli mancavano certo doti ed esperienze alla Tullio Moscardi per intenderci.
    Ma torno al "mito dell´AUR" : siccome i corsi AUR duravano solo 4 mesi, la spiegazione vociferata era che i professori/spie dovevano tornare ogni 4 mesi nelle loro basi militari USA a rapporto ed analisi (R&A...).
    Colin aveva contatti ai più alti livelli in Italia, e portava gli studenti con la scusa dei viaggi d´istruzione, nel cuore della politica e dell´economia industriale, profittandone per carpire segreti da passare alla CIA.
    E qui arrivo al punto fondamentale da cui sono partito : il "mito dell´AUR" vuole che non solo lo staff o parte di esso, ma anche alcuni studenti fossero giovani spie tirocinanti : fu questo il caso di Gilberto e Pallas ? Mentore Almagià ? Che poi Gilberto abbia fatto nella vita, l´impresario di artisti, posso accettarlo : ma pure Moscardi si occupava di prefabbricati, oltre che della strage di via Fani.
    Non voglio farla troppo lunga, ma concludo chiedendomi : fu un caso se la prima sede per studenti AUR (dormitorio e mensa, le lezioni si facevano inizialmente, nello splendido appartamento di Colin presso Piazza di Spagna), fu il CIVIS, organizzazione per studenti stranieri fondata dall´ex agente SOE John Felice, patrono pure della Loyola ?
    Che Gilberto abbia raccontato al fratello la storia del borsello in sintesi "ufficiale", senza dettagli, posso crederlo : ma qua sono i dettagli che contano, e non reggono.

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  5. Avevano una beretta Cal 9 ma i proiettili Cal 7,65 ??!

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    1. Buongiorno. Il contenuto del borsello, che come ho scritto comunque non costituiva oggetto specifico della mia analisi, così come non ne ha costituito elemento il messaggio che, facendolo ritrovare, si volle veicolare (quale che fosse, un messaggio dovette certamente esserci) , evidentemente - almeno credo personalmente - non fu strutturato in termini di coerenza tra i singoli oggetti: intendo dire che ovviamente poteva ben avere un qualche significato il fatto di far ritrovare una pistola con proiettili incongruenti. Non era il nesso tra quella specifica arma, cioè, e quei proiettili, a formare il veicolo (uno dei veicoli) della "comunicazione" che si voleva far giungere. Naturalmente è da mettere in conto che la sua osservazione possa essere tenuta in debito conto nell'ambito di una futura - e diversa, per quanto ho detto - ricerca, non necessariamente da parte mia, riguardante proprio il materiale lasciato nel borsello. Grazie per la sua lettura dell'articolo.

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  6. UN PRECEDENTE

    Quello che appare plausibilmente come un precedente del borsello, sta in CM 112, 621 : il 1 aprile ´78 la Delta 22 si porta in via Cipro altezza distributore AGIP, dove un postino aveva rinvenuto merce sospetta.
    Si trattava di una busta di plastica contenente altra busta di plastica, con dentro oggetti che richiamano il caso Moro, il borsello di Chichiarelli di poco più di un anno dopo, e le cose lasciate dal medesimo alla brink´s nell´84 :
    - una catena con 2 lucchetti e due chiavi, richiamante le 9 chiavi del borsello e le 7 piccole catene e 7 chiavi della brink´s (oltre che, naturalmente, le catene o frammenti ritrovate a De Bustis e nelle vetture della fuga il 16, 17 e 19 marzo ;
    - 9 proiettili per pistola 38 special WW, richiamanti le 11 + 1 pallottole del borsello ed i 7 proiettili della brink´s, e la cifra 9 delle 9 chiavi del borsello ;
    - un pezzo di stagnola con stampato "Marlboro", richiamante il pacchetto di Muratti del borsello ;
    - un lembo di bustina impermeabile, tipo quelle contenenti fazzolettini di carta imbevuti di profumo o deodorante, più un fazzolettino sporco dello stesso tipo : richiamanti il pacchetto di tovagliolini marca Paloma del borsello.

    Abbiamo poi altri oggetti che pur non trovando corrispondenza in borsello e Brink´s, tuttavia richiamano notizie (vere o false) sul caso Moro :
    - siringa, ago, batuffolo di ovatta sporco e resti di sedativo Tolofen in fiala da 50 mg, quasi a far credere che Moro sia stato narcotizzato : questo richiama la testimonianza (con ogni probabilità, falsa e depistante) di Buttazzo sul panno bianco tenuto premuto in faccia al tizio che si dimena, tenuto in mezzo nella 132 sulla Trionfale il 16 marzo, ed il pezzo di asciugamano bianco repertato nella 132 a Calvo.

    Il titolare del distributore dice che fino a 3 o 4 giorni prima, quella busta non c´era nel luogo dove il postino la ritrova : quindi probabilmente, vi fu lasciata tra il 27 marzo ed il 1 aprile 1978, 2 settimane dopo strage e sequestro.

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