sabato 4 maggio 2024

Morfologia delle fiabe Il Guelfo, il Mago, il Marchese e le Volpi.

Morfologia delle fiabe

Il Guelfo, il Mago, il Marchese e le Volpi

(di Gion Mamon)

Uno dei problemi nella narrazione del sequestro Moro è l’esistenza di molteplici
versioni, a volte confuse o contraddittorie.
Quasi avessimo a che fare col folklore popolare o frammenti di oscuri poeti greci, ritroviamo variazioni nel mito, semidei con nomi diversi, oracoli senza volto.
Il Capitano Antonio Labruna, ad esempio, passò l’informazione su via Gradoli al funzionario di Polizia Migliaccio o all’ufficiale del Sismi Masina?
E Labruna stesso, lo venne a sapere per telefono da un certo Benito Puccinelli, dal falsario Guelfo Osmani, oppure dal mago Ennio Biasciucci?
Cercherò di fare un po’ di chiarezza in questa molteplicità di racconti e da questo breve sforzo esegetico vedremo che ogni apocrifo svela forse qualcosa; ogni singolo episodio è probabilmente un frammento di una trama più estesa da osservare alla debita distanza.
Ma cominciamo quasi dalla fine.
Il 1.06.1993, davanti ai giudici che indagano sulla strage di Brescia, al capitano Labruna viene chiesto di parlare dei suoi rapporti con Guelfo Osmani, un abile falsario utilizzato più volte dal SID per confezionare documenti falsi, compreso un intero falso covo di estremisti di sinistra nei pressi di Camerino [1].
Con le parole del giudice Salvini nella sentenza ordinanza su Piazza Fontana [2]:
“…l’arsenale di armi ed esplosivi "sequestrati" nei pressi di Camerino il 10.11.1972 risulta con certezza essere stato allestito, come sempre si era sospettato, direttamente dai Carabinieri sotto la regia del SID.”
Antonio Labruna non si trova, dunque, a rispondere su domande attinenti il caso Moro, bensì rievoca a ruota libera gli episodi più rilevanti della sua frequentazione e amicizia con l’ Osmani. Ad un certo punto, però, dichiara [3]:
“Spontaneamente, poi, a proposito dell’ Osmani dico che questi mi ha passato alcune notizie interessanti che tuttavia, dato che ero già cessato dal servizio, non ho potuto direttamente utilizzare. Ricordo che detenuto a Rebibbia mi contattò tramite sua moglie per dirmi che era a conoscenza di notizie concernenti il sequestro, allora in corso dell’on. Moro. Mi rivolsi al dott. Vitalone, il quale si recò in carcere ed ebbe un colloquio con l’Osmani. Vitalone mi disse poi che Osmani aveva indicato come luogo ove era tenuto l’on. Moro un abitazione di via Gradoli. Mentre lei verbalizza queste mie dichiarazioni, dico che mi sono confuso e che l’appartamento di via Gradoli mi venne indicato da una mia fonte di Francoforte.
Il p.m. fa presente che il Labruna aveva dapprima affermato che l’ Osmani gli aveva indicato via Gradoli come luogo ove si trovava l’on. Moro e che tale notizia gli era stata poi confermata dalla fonte di Francoforte. Chiestogli chi fosse questa fonte, il teste dichiara che si tratta del capo di un’organizzazione denominata Opus Cristi o qualcosa del genere. Il teste dichiara di aver ricevuto indicazioni dettagliate circa l’ubicazione dell’appartamento e di averle passate poi ad un commissario di polizia, attualmente questore.”
Si noti ora che da un punto di vista filologico, queste sono le primissime dichiarazioni di Labruna in merito alle notizie su via Gradoli. La versione Puccinelli, a cui Labruna allude correggendosi, non era ancora nota ai più e verrà poi da lui raccontata più dettagliatamente solo tempo dopo.
Notiamo anche che la persona a cui furono poi trasmesse tali informazioni viene descritta come “commissario di polizia”.
Quasi un anno dopo, il 22 aprile 1994, Guelfo Osmani sostiene davanti al giudice Salvini che l’amico Labruna si sia, in realtà, confuso con un episodio accaduto anni prima durante il sequestro Sossi [4]:
“Domanda: Lei ha avuto occasione di incontrare personalmente il dr. Claudio VITALONE?
Risposta: Sì, nel maggio del 1974 quando ero detenuto alla Casa Circondariale di Rebibbia e il dr. Vitalone era il Pubblico Ministero che aveva emesso nei miei confronti l'ordine di cattura. Era l'epoca del sequestro del giudice SOSSI ed avendo io letto sui giornali una lettera spedita dal dr. SOSSI dal luogo di prigionia, capii che essa conteneva delle informazioni in codice sul luogo ove SOSSI era trattenuto. Chiesi di poter parlare con il dr. VITALONE e gli diedi la mia interpretazione della lettera.
Il capitano LABRUNA mi risulta che accompagnò il dr. VITALONE, ma non presenziò al nostro colloquio del quale del resto il dr. Vitalone non fece verbale.
Ripeto che era il 1974 e non il 1978 come apprendo avere dichiarato il LABRUNA.
Domanda: Quale indicazione in codice lei riuscì ad interpretare?
Risposta: Ricordo che SOSSI nella lettera aveva usato un codice con anagrammi che io avevo decifrato e dal quale usciva questa frase: casa di campagna, vedo albero alto sulla collina.”
Ovviamente è possibile che Labruna si sia confuso con l’indicazione riguardante Sossi.
Se andiamo, però, a ripescare la breve lettera di Sossi prigioniero che le BR fecero pubblicare troviamo [5]:
« Cara Grazia, cari tutti, curatevi e state bene. Sto bene. Grazia prosegui la tua lotta affinché ognuno assuma le sue responsabilità. Non sono soltanto io responsabile dei miei errori. Ogni indagine e ricerca è dannosa. Aspettate. Baci. Mario».
Frasi che in nessun modo possono essere anagrammate nel modo asserito dall’ Osmani.
Cerchiamo allora altre conferme o smentite possibili alle dichiarazioni fatte. Per esempio, se al tempo del sequestro Moro Guelfo Osmani non fosse stato in galera, questo chiuderebbe la questione. Il fatto è, però, che non solo il falsario si trovava in prigione ma sostiene di aver avuto in anticipo notizia della preparazione del sequestro Moro e di averlo persino comunicato alle autorità [6]:
“…1’Qsmani ha spontaneamente dichiarato che nel periodo in cui si trovava detenuto nel Carcere di Sulmona è venuto a conoscenza che era in atto la preparazione del sequestro dell'On. Aldo MORO. Precisando che tale notizia l'aveva avuta in modo confidenziale da PIANTAMORE Giorgio, noto BR e da tale SALVATORE di cui non ricorda il.cognome (NAP), nel novembre 1977 1’ Osmani si è subito interessato affinché la notizia arrivasse a D'OVIDIO Giancarlo e a MANNUCCI BENINCASA.
L'Osmani, ha inoltre riferito, che poco dopo la morte dell'On. MORO incontrò il MANNUCCI e questi, come a scusarsi, gli disse: Ho chiesto la macchina blindata e non mi hanno ascoltato. Io ho riferito al Ministro dell’Interno, il quale mi ha fatto capire di non interessarmi della cosa”.
A questo punto sembrerebbero rimanere le due possibilità: Labruna si confonde e si corregge da solo durante l’interrogatorio e Osmani a posteriori spiega l’origine della confusione sbagliando sugli anagrammi per via del tempo trascorso oppure Labruna si lascia effettivamente scappare qualcosa che non dovrebbe dire, cerca di rimediare e successivamente Osmani, avuta notizia delle dichiarazioni inopportune, le giustifica alla bell’e meglio.
C’è tuttavia un particolare nel verbale di Labruna che lascia propendere per la seconda delle due ipotesi: il pubblico ministero sottolinea che “il Labruna aveva dapprima affermato che l’ Osmani gli aveva indicato via Gradoli come luogo ove si trovava l’on. Moro e che tale notizia gli era stata poi confermata dalla fonte di Francoforte.
Il Labruna, quindi, avrebbe avuto notizia di via Gradoli da due fonti diverse, prima da Osmani-Vitalone e poi da Puccinelli da Francoforte.
Vediamo ora più da vicino il racconto sull’iter di questa informazione fornita dal Puccinelli. Il 14 aprile 1994 ai pubblici ministeri di Perugia come testimone nell'inchiesta sull'uccisione di Pecorelli, Antonio Labruna dichiara [7]:
“Fu Benito Puccinelli a segnalarmi con una telefonata da Francoforte, di notte, alla fine di marzo o ai primi di aprile, che c'era un appartamento "interessante" in via Gradoli. Ricordo che mi disse che c'era un garage, o una cantina, e che sul tetto spuntava un'antenna. Mi diede anche tutte le caratteristiche tecniche dell'antenna, compresi i Mhz. Puccinelli, un ingegnere, era presidente della International Opus Christi. Occasionalmente mi informava su qualche vicenda. Ricordo che abitava in via di Porta Pinciana. Lui mi telefonava insistentemente. Alla fine controllai che esistesse via Gradoli. Puccinelli voleva che si controllassero tutti coloro che erano in affitto. Fino a 14 giorni prima mi disse che la stazione trasmetteva dall’ undicesimo km della via Cassia ad un tizio della Valle del Salto. Io non volevo impelagarmi ma alla fine segnalai tutto, prima della scoperta del covo delle Br, ad un commissario di Pubblica sicurezza che è noto alla magistratura (...). Ricordo che dissi al commissario di pubblica sicurezza di non dire che ero stato io a dargli questa indicazione: né ai carabinieri, né al servizio segreto perché essendo uscito dalla porta non volevo dare l'impressione di voler rientrare dalla finestra.”
L’ultima frase di Labruna si riferisce alla sua sospensione dal servizio segreto dal 1976 a causa delle accuse di favoreggiamento verso Giannettini e Pozzan, imputati per piazza Fontana. Labruna avrebbe contattato allora il funzionario di polizia Antonio Migliaccio del commissariato Flaminio nuovo [8] che è lo stesso commissariato che il 18 marzo mandò 5 agenti a bussare a tutte le porte di via Gradoli 96. Ricordiamo che l’origine di tale segnalazione rimane ancora avvolta nell’ombra, così come alcuni aspetti del rapporto fatto dagli agenti: su questo rimando all’ottimo articolo di Franco Martines [9].
Antonio Migliaccio, tra l’altro, in un qualche momento si rivolse a Sebastiano Vassalli per chiedergli consiglio su alcune rivelazioni confidenziali ricevute sul caso Moro, ma l’avvocato non ricordava se fossero attinenti al covo delle BR. [10]
A questo punto la storia si biforca.
Labruna, pressato insistentemente dal Puccinelli, si sarebbe rivolto non solo al suo amico poliziotto, bensì anche all’allora colonnello Demetrio Cogliandro del Raggruppamento Centri del Sismi. Quest’ultimo gli manda il capitano Luigi Masina che Labruna accompagna di persona nell’ufficio romano di Puccinelli:
“LABRUNA: lo ci avevo l'Ingegner PUCCINELLI. PICCINELLI, PUCCINELLI che era dell'Opus Cristi, quello che era… che mi era stato presentato e che mi rompeva le scatole su MORO e su tutti quanti. lo sono venuto da lei e le ho detto: io non ho modo di verificare quello che mi dice questo signore, perché non sto facendo niente e le ho dato il nome e lei m'ha dato… ho accompagnato un Capitano MASINA, MESINA. quello che era, l'ho accompagnato da...
COGLIANDRO: Ma questo e' un altro discorso, non c’entra…
LABRUNA: Come un altro… l’ho accompagnato, l'ho accompagnato da PICCINELLI, […] L’ho portato nell'ufficio dell'ingegnere e me ne sono andato e da allora…”
Dunque Puccinelli era rientrato a Roma, verosimilmente dopo le telefonate da Francoforte ma prima della scoperta del covo e Labruna accompagna Masina nel suo studio romano in via di Porta Pinciana 34, a due passi dall’ambasciata americana in via Veneto.
Ma chi era questo Puccinelli?
Innanzitutto non era davvero un ingegnere, né si chiamava davvero Puccinelli, bensì Pulcinelli. Ho cercato in un altro articolo [12] di tratteggiarne il profilo e di descrivere la società di cui era presidente: la Opus Christi. Si trattava di una società di import-export solo apparentemente caritatevole, in realtà implicata in traffici illeciti e speculazioni sia in Europa che in America. Particolarmente inquietante ma forse illuminante appare il legame con un tedesco a Roma dall’oscuro passato forse nazista, accusato di vendere armi sia ai palestinesi di Settembre Nero che alla banda Baader-Meinhof. A suo dire, questo tedesco Karl Christian Ring era un dirigente della società di Puccinelli, pur avendone alcune proprie. Ring lasciò Roma in concomitanza di una strage all’aeroporto di Lod in Israele: la polizia e il SID trovarono in casa sua armi da guerra. Venne accusato di aver venduto le armi ai terroristi dell’armata rossa giapponese responsabile del massacro. Fuggì in Canada dove ottenne asilo per due anni fino ad una morte improvvisa nel settembre 1974. Le vicissitudini e le frequentazioni del tedesco con personaggi altolocati e con agenti dei servizi che ho cercato di descrivere nell’articolo aprono forse alcuni spiragli per capire in quali ambienti si muovesse anche l’informatore occasionale di Labruna.
Ma tornando ora al punto di cui ci stiamo occupando: che cosa aveva detto esattamente Puccinelli su via Gradoli e come faceva a saperlo?
Secondo Labruna, si trattava di informazioni su radiotrasmittenti e di antenne, del km 11 della via Cassia (zona Tomba di Nerone, via Gradoli) e della Valle del Salto (direzione Lago della Duchessa).
Negli atti della commissione [13] si dice che nel covo di Vescovio furono rinvenuti apparati radio, almeno uno dei quali acquistato da Piero Bonano presso il negozio denominato "Radio Prodotti" in Roma. Presso lo stesso negozio aveva anche acquistato un’antenna ricetrasmittente denominata "Firenze 2", da lui installata presso la sua abitazione.
“Il negozio denominato Radio Prodotti e l'antenna "Firenze 2” erano già emersi nel corso degli accertamenti relativi alle informazioni fornite da Benito Puccinelli ad Antonio Labruna.” Su quest’ultimo aspetto, però, una nota rimanda a il documento 293/1 riservato della commissione. Dal poco che ci è concesso sapere, le informazioni furono captate a Roma e da qualcuno con le antenne giuste. Se così fosse, doveva trattarsi di uno o più professionisti nel campo dell’elettronica che già da settimane avevano individuato le trasmissioni sospette ed erano stati in grado di localizzarle con una strabiliante precisione, vale a dire utilizzando apparecchiature mobili e/o una rete di antenne sparse sul territorio. È possibile che si trattasse di privati così come un vero e proprio servizio informativo con cui, per non chiarite ragioni, Puccinelli era in contatto. Ciò sembrerebbe escludere che l’informazione provenisse dalla Germania, come a volte è stato troppo frettolosamente e con molta fantasia scritto. La telefonata proveniva, probabilmente, davvero da Francoforte, ma solo perché il presidente dell’Opus Christi si trovava lì per caso in quei giorni e nemmeno da troppo né per troppo tempo, dato che poi incontrò di persona i capitani Labruna e Masina nel suo ufficio in via di Porta Pinciana 34 ancora prima che il covo di via Gradoli venisse scoperto. Col materiale attualmente disponibile non possiamo, quindi, stabilire chi fornì l’informazione a Puccinelli, né avrebbe molto senso speculare oltre. E pur tuttavia, senza fare nomi e soltanto a titolo di esempio, si potrebbe far notare che un vicino di ufficio della Opus Christi, già nel 1977 e successivamente, era un tecnico privato, altamente specializzato in identificazione e geolocalizzazione radio, che dopo decenni di esperienza nella marina italiana lavorava per aziende missilistiche americane con nullaosta di sicurezza NATO. Non era sicuramente l’unico a Roma e che fosse lui o un altro la fonte di Puccinelli poco, forse, cambia. Sarebbe, però anche il caso di chiedersi se esistessero davvero questi presunti segnali radio. Che ci fosse una ricetrasmittente nel covo di Vescovio lo abbiamo già detto, ma cosa venne davvero trovato a via Gradoli?
Nell’elenco dei reperti troviamo al numero 448 [14]:
“Piccola scatola con la scritta "Trans Mitter model IC-8”, contenente all'interno del polisterolo n.6 batterie al mercurio di piccolissime dimensioni, nonché un microtrasmettitore marca "CONY” con relativo filo di colore nero.”
Non si parla di radiotrasmittenti da radioamatore, bensì di un piccolo e semplice componente di ricambio forse utilizzato altrove. Forse la radiotrasmittente venne usata e smantellata prima della scoperta del covo. Oppure la storia delle antenne e dei Megahertz è di nuovo una favola o una mezza verità, volta a coprire una fonte innominabile.
Forse Osmani o un informatore di un servizio segreto.
Per quale motivo, altrimenti, mantenere ancora la nota classificata?
A questo punto, dopo aver parlato del falsario Osmani e del noto Puccinelli, si deve citare un terzo informatore sul covo di via Gradoli e sempre a beneficio del capitano Antonio Labruna e curiosamente con una connotazione soprannaturale come la seduta spiritica ben nota. In un articolo su il Foglio del primo luglio 1998 l’onorevole Mauro Mellini parla di un certo mago [15] che avrebbe riferito di via Gradoli a Labruna tramite il fratello cronista giudiziario. Il sedicente mago si chiama Ennio Biasciucci e alla magia ci arriva in realtà interpretando film di dubbio valore artistico come “Donne e magia con satanasso in compagnia” del 1973 [16]. Il fratello giornalista si chiama Mario Biasciucci e dirige l’agenzia Stampa Giudiziaria che L’unità descrive come “nata sotto le ali di Vitalone” [17], su cui scrive a volte anche Flavio Carboni. Il 7.7.1990 Biasciucci viene identificato all’ingresso di Villa Wanda mentre reca una busta a Licio Gelli [18].
Già nel 1994 Biasciucci era stato sentito dai magistrati riguardo alle informazioni su via Gradoli e ai magistrati aveva raccontato tutta un’altra storia che col fratello sedicente mago nulla aveva a che fare [19].
Biasciucci conosceva Puccinelli, “il quale appariva ricco, disponeva di una Rolls Royce ed aveva un ufficio molto lussuoso con sofisticate misure di sicurezza passiva nei pressi di via Veneto…” Così continua la sua deposizione: “Non rammento al momento da chi mi sia stato presentato il PUCCINELLI, probabilmente da un collega che me lo descrisse come persona forse collegata ai servizi. Comunque io misi in contatto il PUCCINELLI con il LABRUNA in quanto detto PUCCINELLI, nel corso del sequestro dell'On.le MORO, mi riferiva circostanze attinenti al sequestro stesso, circostanze che forse avrebbero potuto, se verificate, dare una svolta alle indagini. In particolare rammento che una volta mi riferì di una località o via, senza precisare ulteriormente, che assomigliava a Gradoli […] Per tale ragione curai il contatto con il LABRUNA rimanendo d'intesa con l'Ufficiale che un eventuale positivo sviluppo delle investigazioni mi sarebbe stato riferito quale giornalista in via prioritaria. Rammento che il LABRUNA mi disse di averne informato, in quanto sospeso dal servizio, qualche investigatore, probabilmente un Funzionario o Commissario di Polizia. […] Successivamente alla conclusione del sequestro MORO, fui contattato telefonicamente dal PUCCINELLI, che asseriva di chiamarmi dalla Svizzera. Nella circostanza richiamò la mia attenzione sulla sabbia rinvenuta negli abiti come di un elemento di particolare importanza per lo sviluppo delle indagini. Per quanto ricordo all'epoca di questa telefonata, nell’ immediatezza della conclusione del sequestro MORO, gli organi di informazione non avevano ancora pubblicato alcunché sul particolare della sabbia; probabilmente ne erano a conoscenza gli inquirenti.”
Si noti come il ruolo di intermediazione che il giornalista Biasciucci si attribuisce sia stato spesso trascurato nella narrazione di questo episodio. Si stenta a credere al cospicuo numero di persone che per un motivo o un altro avevano sentito nominare via Gradoli nell’immediatezza del sequestro Moro. E ne stiamo volutamente trascurando altri.
I racconti di Labruna e Biasciucci, per molti versi, non sono in contraddizione fra loro. Curiosa è anche la doppia presenza di Vitalone: nella versione “lapsus” in cui Osmani avrebbe riferito al giudice l’indirizzo del covo e indirettamente nella presunta vicinanza politica con l’agenzia diretta da Biasciucci. Per tacere dei possibili rapporti di quest’ ultimo con Gelli. Ma come è nata l’improponibile versione del fratello “mago”? Forse per caso o forse qualcuno davvero aveva pensato ad una storiella di copertura nel caso si facessero troppe domande.
Che cosa possiamo desumere incrociando tutti questi racconti, non necessariamente veritieri o completi?
Che forse il falsario Osmani comunicò dapprima il nome di Gradoli a Vitalone che lo disse a Labruna nell’immediatezza del sequestro. Forse Vitalone ne parlò a Biasciucci, il quale ne riferì a Puccinelli che confermò, precisò o riportò semplicemente l’informazione a Labruna. Difficile dirlo con certezza, ma la vicinanza di tutti questi personaggi appare quantomeno notevole. Possiamo poi notare che Labruna contattò Migliaccio del commissariato Flaminio nuovo da cui partì il 18 marzo la misteriosa segnalazione e perquisizione (parziale) di via Gradoli 96. (Ricordiamo i dubbi di Migliaccio espressi a Vassalli riguardo a come gestire informazioni riservate sul sequestro Moro.) Migliaccio, interrogato, sosterrebbe di non ricordare i fatti.
Che la notizia avesse una o due fonti indipendenti, Labruna avrebbe poi contattato anche Cogliandro e il capitano Masina del Sismi. E qui il sentiero narrativo si interrompe. Non sappiamo cosa accadde dopo.
Forse ci sono brani e personaggi mancanti in questa narrazione. Forse qualcuno voleva far filtrare le informazioni e scelse apposta Labruna. Ma perché proprio lui? Nel marzo del 1978 Labruna deponeva in tribunale per la vicenda del tentato golpe Borghese. Importanti prove a carico erano i nastri magnetici che Labruna aveva registrato nei suoi colloqui con i golpisti allo scopo di smascherarli. Dal servizio segreto, però, arrivò ai magistrati una versione ridotta ed edulcorata di quel rapporto che taglia le responsabilità dei vertici del complotto, tra cui anche il ruolo di Gelli. E durante il sequestro Moro, giusto verso il 20 aprile, si scoprì che i suddetti nastri si erano improvvisamente demagnetizzati [20]. Anni dopo, Labruna farà avere al giudice Salvini i nastri originali, riscattandosi in parte da varie responsabilità. Durante il sequestro Moro Labruna è dunque sotto i riflettori per altre vicende. Da un lato teme di esporsi troppo, dall’altro forse spera di essere riabilitato grazie alle informazioni che riceve e trasmette. Quali erano gli appoggi su cui poteva contare? A quale fazione dei servizi apparteneva? Da un lato si deve ricordare che era iscritto alla P2. Ufficiale del SID del reparto D del filoisraeliano Maletti, Labruna aveva passato un anno di addestramento in Israele dal 1971 al 1972 [21]. Il 30 ottobre 1973 c’era Labruna insieme a Giovannone, Minerva e Milani a bordo dell’aereo Argo 16 quando per ordine di Aldo Moro vennero esfiltrati in Libia i Fedayyin di Settembre Nero arrestati a Roma per il fallito attentato di Ostia [22]. Quella consegna gettò le basi per il cosiddetto Lodo Moro, siglato poche settimane dopo. Un accordo che non andava a genio al Mossad, né al generale Maletti. Labruna, alle sue dirette dipendenze, tanto per fare un esempio, fu sospettato da Minerva di aver cercato di sabotare la consegna dei palestinesi a Tripoli, in accordo con gli Israeliani.
Tornando all’aprile 1978, Labruna, contrariamente a quanto più volte da lui stesso sostenuto, si rivolse anche ai propri ex-colleghi e in particolare al colonnello Demetrio Cogliandro, il quale per via di un suo uomo, Antonio Fattorini, aveva un canale privilegiato con il servizio israeliano. (Le indagini del gruppo di Cogliandro meritano una attenzione a parte perché arrivarono in via Caetani ancora a sequestro in corso.)
Durante il sequestro Moro sappiamo che fu offerto aiuto alle autorità italiane da parte di diversi paesi. È facile immaginare che ogni servizio si sia fatto i propri conti, sia nel mostrare disponibilità, sia nel fornire informazioni senza compromettere le proprie fonti. Ricordiamo che, secondo Galloni, Moro era preoccupato che americani e israeliani avessero infiltrati nelle brigate rosse e che non mettessero i dati in comune con gli italiani [23].
Forse è da infiltrati dei servizi italiani o stranieri che arrivò l’informazione su via Gradoli. Forse il suo itinerario giunse fino a Bologna e per lo stesso motivo venne taciuta la fonte.
Si inventano così tante storie per non dire le cose come stanno che persino il sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega sui servizi segreti al tempo del sequestro Moro, Franco Mazzola, anni dopo i fatti pensò di raccontare quelle vicende e le sue opinioni in forma romanzata ne I Giorni del Diluvio [24], a volte stravolgendo di proposito gli eventi, sempre usando nomi diversi per i personaggi. Così, per confondere ulteriormente le idee oppure per raccontare qualcosa di vero in modo velato. Difficile orientarsi e decidere. Ad un certo punto si scopre che il Marchese (Gelli) sta aiutando le brigate rosse (perché ricattato da Mosca sul suo passato) ma questo potrebbe ritorcersi contro di lui, allora confida l’indirizzo del nascondiglio di Olmo (Aldo Moro) al suo amico Vincenzi capo del servizio segreto (allegoria di Santovito ma anche di Miceli). Quest’ultimo cerca una storia di copertura con il Generale per salvare l’Istituzione (la P2):
“Il primo problema da risolvere […] è come segnalare il nuovo nascondiglio di Olmo, senza scoprire la fonte e salvando quindi l'Istituzione. Io ho preparato la trappola, ma non so come farla scattare.”
«Una lettera anonima? propose il Generale, dopo un momento di riflessione. «È il sistema più vecchio del mondo, ma in genere funziona.”
«Ne arrivano ogni giorno in quantità tale […] noi saremmo obbligati a scoprirci per metterla in evidenza e far controllare quella che ci interessa.”
«Hai ragione» convenne il Generale. «Dobbiamo pensare a un'altra soluzione.”
“lo avevo pensato a una seduta spiritica, naturalmente manipolata» disse Vincenzi. «Avevo una medium adatta, ma mi è difficile farla arrivare in tempo utile. Rischiamo di perdere troppo tempo.”
«Quando avverrà il trasferimento? Il problema dei tempi va visto in relazione a questo."
«Il nostro amico non lo sa» rispose Vincenzi «però ho ragione di ritenere che avverrà molto presto: il suo controllore ha fatto pressione per avere una risposta nel giro di poche ore. Ho già provveduto a mettere sotto osservazione il villino, e quindi sapremo subito quando lo porteranno lì.”
«Un momento» esclamò a un tratto il Generale: forse ho trovato la soluzione.[…] Conosco un prete […] Potremmo mandare un uomo fidato a rivelargli l'indirizzo in confessione.»
"In confessione?» esclamò Vincenzi. «[…] il segreto del confessionale è inviolabile.»
«Hai ragione, amico mio» replicò il Generale. «Ma credo proprio che questo prete, se ricevesse l'indirizzo in confessione, me lo farebbe sapere. E poi» continuò sorridendo cinicamente «anche se non me lo dirà, io farò come se l'avesse detto. Non ti pare una buona idea?»
Sembrerebbe, quindi, che secondo Mazzola il nome di Gradoli provenisse da Gelli, cosa che si accorderebbe con l’appartenenza di Labruna alla P2 (e di Santovito e molti altri nel comitato del Viminale). Anche Biasciucci, del resto, sembrava essere in rapporti con il Venerabile o Marchese, che dir si voglia. Non possiamo, però, prendere per oro colato quasi nulla. Sarebbe fuorviante ripetere tutte le informazioni utili che fluirono in quei giorni alle autorità e che sembra non abbiano portato a niente. È difficile comprendere e ricostruire il filo e le strategie di chi le valutava e forse le bloccava o temporeggiava avendo in mente una sua strategia, forse perché mal consigliato.
Aldo Moro fu preso in trappola e occultato. Molti agirono nell’ombra per aiutare a cercarlo o impedire di trovarlo. Come nelle fiabe, molti uccellini cantarono, molti animali servizievoli si fecero in quattro, persino i veggenti e i tavolini parlarono, ma inutilmente. La fiaba del principe rapito non si conclude felicemente. Ognuno nel suo piccolo si fece bardo e improvvisò poemi fantasiosi e strabilianti per assolversi e giustificare il fallimento. Nacquero miti difficili da sfatare ma anche da conciliare tra loro.
La descrizione migliore del caso Moro che io conosca la diede Guy Debord nella prefazione della quarta edizione italiana de La società dello spettacolo [25]:
“Fu un’opera mitologica a grandi macchinari scenici in cui degli eroi terroristi a trasformazioni multiple sono volpi per prendere in trappola la preda, leoni per non temere nulla da nessuno nel tempo in cui la tengono in custodia e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare.”
[20] https://archive.org/details/Piccolo_1978-04-20/page/12/mode/2up?q=“Labruna”
[24] pag. 337 Franco Mazzola, I giorni del diluvio, Aragno
[25] Dalla prefazione di F. Ceccarelli in La zona franca, di Alessandro Forlani, Castelvecchi.

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